di Massimo Introvigne
Va di moda – sulla scia dei tecnocrati mondialisti alla Richard N. Haass, presidente del Council on Foreign Relations – sostenere che l’11 settembre 2001 non ha cambiato il mondo, e che gli storici ricorderanno come data d’inizio di una nuova era postmoderna piuttosto il 15 settembre 2008, il giorno del fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, epicentro della grande crisi economica che ormai molti considerano la più grave della storia dell’Occidente, ovvero l’11 settembre 2006 – coincidenza o no, a cinque anni esatti da quell’altro 11 settembre – quando Marck Zuckerberg apre Facebook, in precedenza riservato agli studenti di alcune università, a chiunque al mondo abbia più di tredici anni, così “fondando” un nuovo continente arrivato nel luglio 2011 a 750 milioni di abitanti.
La storia era finita, non ci sarebbero state più guerre e il modello democratico occidentale avrebbe conquistato tutti i Paesi del mondo – a mano a mano che la loro economia si fosse sviluppata – uno dopo l’altro.
Poi, l’11 settembre 2001 la teoria della fine della storia è andata in pensione. Si è cominciato a parlare di una “quarta guerra mondiale”, diversa dalle altre tre. Queste erano state guerre civili occidentali, guerre fra ideologie nate in Europa, comunismo compreso. Qui una guerra globale – che ricordava antiche battaglie con i mongoli, gli arabi, i turchi ma stavolta su un teatro di operazioni mondiale – vedeva l’Occidente aggredito da un’ideologia non occidentale.
Quello che è venuto dopo è successo in buona parte a causa dell’11 settembre. L’evidenza che l’Occidente possa essere attaccato sul suo stesso terreno, distruggendo un suo simbolo come le Torri Gemelle, ha messo in moto dinamiche che hanno alimentato la nuova aggressività economica cinese e condotto alla perdita del primato finanziario euro-americano a vantaggio di Pechino. La stessa crisi economica, Lehman Brothers compresa, nasce in parte dal tentativo delle istituzioni finanziarie americane di evitare con strumenti creativi ma pericolosi i contraccolpi economici dell’11 settembre.
Abbiamo avuto anche tanti libri, anzi intere biblioteche sull’11 settembre. Abbiamo imparato qualcosa? Penso di sì, e provo a riassumere le lezioni dell’11 settembre in sei tesi.
1. Al-Qa’ida è responsabile dell’11 settembre. Dopo tutte le svolte della storia, spuntano sempre i negazionisti e i complottisti. Così c’è stato anche chi ha negato che al-Qa’ida abbia organizzato ed eseguito gli attentati, sostenendo principalmente che due torri colpite da aerei non cadono in quel modo e dovevano essere state imbottite di esplosivo, dal governo statunitense o magari dal Mossad israeliano.
L’agenzia americana che si occupa di sicurezza delle costruzioni, il National Institute of Standards and Technology, ha pubblicato nel 2005 un rapporto di oltre 10mila pagine che spiega come le teorie complottiste – avanzate in genere da giornalisti senza credenziali scientifiche, o da studiosi con credenziali in campi che non c’entrano con l’ingegneria edile, dalla storia del Medioevo alla fisica nucleare – non reggono all’esame tecnico dei fatti.
Ma non c’è bisogno di diventare tutti ingegneri o di leggere le 10mila pagine. Più rapidamente, si possono consultare decine di documenti che vengono da al-Qa’ida e da altri ambienti dell’ultrafondamentalismo islamico, e seguire la preparazione e la realizzazione dell’attentato attraverso le vicende degli stessi terroristi che ne sono stati responsabili. Per qualunque persona sensata non c’è nessun dubbio. È stata al-Qa’ida.
Le teorie negazioniste non ci danno nessuna informazione sull’11 settembre ma ci danno moltissime informazioni sulle persone che le propongono. Infatti l’11 settembre è andata in pensione anche un’altra ideologia, quella secondo cui i valori di onestà, giustizia e lealtà che avevano ormai abbandonato l’Occidente si erano trasferiti in un mondo islamico idealizzato e presentato come magnanimo e generoso. Queste teorie erano sostenute da una sinistra comunista che – sentendosi tradita dal “proletariato interno” dell’Occidente, il quale da anni non aspira più alla società senza classi ma a un posto al sole nel consumismo dominante – pensava di potersi rivolgere a quello che Friedrich Engels (1820-1895) chiamava il «proletariato esterno» non occidentale, principalmente islamico, che avrebbe pensato lui ad abbattere il capitalismo, anche in quanto portatore di superiori principi morali.
Ma erano sostenute anche da una “destra di sinistra”, di cui La Bussola Quotidiana si è recentemente occupata, per cui la Tradizione con la T maiuscola aveva abbandonato un Occidente più o meno – come si sarebbe detto un tempo – «demo-pluto-giudaico», e si era rifugiata nel mondo islamico, lui sì davvero nobile e tradizionale. Quando da quel mondo è venuto con l’11 settembre uno degli atti più malvagi e sleali della storia recente – le vittime non erano combattenti nemici, ma passanti e passeggeri di aerei anonimi e innocenti – chi aveva coltivato il mito della superiorità morale dell’islam – da sinistra o dalla “destra di sinistra” antiamericana e antioccidentale – si è visto crollare il mondo addosso. E ha reagito inventandosi il mito dell’11 settembre come complotto americano o ebraico.
2. Non tutti i musulmani sono fondamentalisti. La critica del negazionismo complottista, che nasce da una visione idealizzata e utopica dell’islam, non deve portarci all’eccesso opposto di ritenere l’islam in genere, o tutto l’islam, responsabile dell’11 settembre. Il mondo che la letteratura sull’11 settembre ci ha insegnato a cominciare a esplorare è quello del fondamentalismo islamico. Ma non tutti i musulmani sono fondamentalisti. Questa tesi sembra ovvia: la ripetono tutti, dal presidente Barack Obama al mio barbiere. Ed è una tesi vera, ma presuppone che si definisca che cos’è il fondamentalismo islamico. Si tratta di un movimento nato intorno a tre rivendicazioni.
Primo: l’applicazione della legge islamica (shari’a) in ogni Paese musulmano. Secondo: l’unificazione dei Paesi a maggioranza islamica in un’unica realtà politico-religiosa nuovamente guidata da un califfo. Terzo: la ripresa da parte del califfato restaurato del sogno originario di un’islamizzazione del mondo intero. Chi nel mondo islamico non condivide queste tesi non è fondamentalista. In Occidente si parla volentieri di “moderati” e, dopo l’11 settembre, è diventato difficile trovare un’organizzazione islamica occidentale che non si autodefinisca “moderata”. Ma si tratta, appunto, di una categoria costruita da occidentali e dai confini alquanto incerti.
Per capire la differenza fra musulmani fondamentalisti e non fondamentalisti occorre tornare a un evento fondamentale per la storia dell’islam, i cui collegamenti con l’11 settembre 2001 sono molteplici e decisivi. L’11 settembre 1683 inizia sotto le mura di Vienna, dopo un lungo assedio, una battaglia – conclusa il successivo 12 settembre, data con cui è passata nei libri di storia – in cui un esercito più numeroso e meglio armato dei suoi rivali che secondo i musulmani non poteva né doveva essere sconfitto, per ragioni insieme militari e teologiche, fu invece imprevedibilmente respinto. Un primo collegamento fra i due eventi è che la data dell’11 settembre sembra proprio sia stata scelta da al-Qa’ida in ricordo dell’inizio della battaglia di Vienna. Ma c’è molto di più.
La sconfitta del 1683 fu drammatica per l’islam. Come racconta lo storico Andrew Wheatcroft nel suo recente libro sull’evento del 1683, Il nemico alle porte. Quando Vienna fermò l’avanzata ottomana (trad. it., Laterza, Roma-Bari 2010), la campagna non era percepita dai musulmani come uno scontro fra il Sacro Romano Impero e l’islam. Al contrario, fu presentata come la soluzione finale di una contesa combattuta a colpi di propaganda un secolo primo fra Carlo V (1500-1558) e Solimano il Magnifico (1494-1566), fra gli Asburgo e gli Ottomani: entrambi si affermavano eredi legittimi dell’impero di Roma e, in quanto signore di Costantinopoli, Solimano pensava di essere lui l’unico vero imperatore romano. Il suo successore Mehmet IV (1642-1693) mandò l’esercito a Vienna per risolvere con le armi una questione che Dio, secondo lui e secondo i suoi sudditi, aveva da tempo già giudicato.
La battaglia di Vienna fu percepita da parte islamica anche come la smentita – incomprensibile per un musulmano – della profezia secondo cui, certo con occasionali ripiegamenti, le armi del Profeta dovevano passare nella storia di vittoria in vittoria fino alla conquista di tutto il mondo. E di fatto fu così: dopo Vienna caddero l’Ungheria e la Serbia, e a poco a poco l’islam cominciò ad arretrare sempre di più, fino a che agli inizi del secolo XX la maggioranza dei Paesi islamici si trovò sotto il dominio coloniale europeo occidentale, e qualche volta russo o cinese. Non era stato l’islam a conquistare il mondo, ma il mondo a conquistare l’islam.
L’11 settembre 2001 è il giorno in cui i nodi vengono al pettine, la conseguenza ultima delle discussioni tra i combattenti che si ritiravano dopo quella imprevista sconfitta a Vienna. L’islam aveva perso perché era rimasto indietro rispetto all’Occidente o al contrario perché all’Occidente si era troppo avvicinato, dimenticando la purezza della fede dei padri? Le due risposte rappresentano i tipi ideali di quelli che nel secolo XX sarebbero stati chiamati “modernismo” e “fondamentalismo”, e la discussione è continuata dopo ogni sconfitta musulmana, fino alla Guerra dei Sei Giorni arabo-israeliana del 1967. Nel secolo XIX e nella prima parte del secolo XX è sembrata vincente la risposta modernista. La decolonizzazione ha portato al potere quasi ovunque regimi “nazionalisti”, cioè modernizzatori e ispirati a ideologie occidentali, anche se queste ideologie erano di rado democratiche e i dittatori guardavano con più entusiasmo al nazionalsocialismo o al socialcomunismo.
Poi, le cose sono cambiate. A partire dalla rivoluzione iraniana del 1979, la risposta fondamentalista ha trovato nei secoli XX e XXI nuovo vigore, dal momento che l’altra risposta, quella modernista, in un certo senso era stata provata e aveva fallito, dando vita a regimi insieme modernizzatori e laici e tanto inefficienti quanto corrotti, come sono quelli contro cui protestano, sia pure ambiguamente, le cosiddette “primavere arabe”. L’11 settembre, ben prima delle vicende del 2010 e 2011, ha costretto il mondo a prendere atto del fatto che il fondamentalismo islamico è una forza viva, potente e pericolosa.
Anche se non rappresenta tutto l’islam: ci sono i modernisti – ancora al potere in parecchi Paesi – e ci sono “terze vie” conservatrici, promosse da ex fondamentalisti che vorrebbero attenuare alcune loro tesi e dialogare con l’Occidente – è il caso dell’attuale governo turco – o da monarchi tradizionali che temono le più recenti declinazioni del fondamentalismo e si aprono a caute politiche di modernizzazione senza rinnegare la matrice islamica, come avviene oggi in Marocco e in Giordania.
3. Non tutti i fondamentalisti sono terroristi. L’11 settembre 2001 tutto il fondamentalismo islamico – una corrente stimata almeno a 100 milioni di fedeli nel mondo – ci ha dichiarato guerra? Non è proprio così. Quando sentiamo dire che il tale imam è fondamentalista ci chiediamo subito dove tenga le bombe. Ma forse le bombe non ci sono. In Italia ci siamo abituati alla distinzione, in tema di comunismo, fra la strategia leninista del colpo di Stato e quella gramsciana dell’egemonia.
Qualche cosa di simile avviene fra i fondamentalisti. Alcuni, pensano che sia importante impadronirsi subito della titolarità del governo, per procedere a una islamizzazione della società “dall’alto”: si tratta degli ultrafondamentalisti, che non escludono la violenza e il terrorismo. Altri invece considerano inutile andare al governo se prima la società non è stata islamizzata “dal basso”, conquistando le scuole, le università, i giornali, i tribunali e così via: si tratta dei fondamentalisti che alcuni sociologi chiamano neotradizionalisti. Al-Qaida è il frutto più maturo dell’ultrafondamentalismo, i Fratelli Musulmani del fondamentalismo neotradizionalista.
I fondamentalisti neotradizionalisti non la pensano “come noi” su quasi nulla. Vogliono le donne velate, la prigione per chi cerca di applicare il metodo storico-critico al Corano, leggi che discriminino le minoranze cristiane nei Paesi a maggioranza islamica. Ma – qualche volta tatticamente, qualche volta sinceramente – rifiutano il terrorismo. Non si tratta di una differenza di poco conto. E può darsi anche che sia un punto di partenza per una lenta e problematica evoluzione anche su altri aspetti della loro ideologia.
4. I fondamentalisti sono musulmani. Per ragioni politicamente comprensibili, dopo l’11 settembre 2001 si sente dire talora che i fondamentalisti non sono musulmani, ovvero sono personaggi marginali disprezzati dalla maggioranza del mondo islamico. Non è così. I più diffusi commenti del Corano citano come autorevoli esegeti esponenti dei Fratelli Musulmani, il maggiore movimento fondamentalista mondiale. E quando nel 1962 l’Arabia Saudita fondò alla Mecca la Lega Musulmana Mondiale, volle che fra i suoi primi dirigenti ci fosse Sayyid Abul Al’A Maududi (1903-1979), fondatore nel 1941 nel subcontinente indiano della Jama’at at-i Islami, l’altra grande organizzazione fondamentalista internazionale insieme ai Fratelli Musulmani, peraltro anche loro coinvolti nella Lega saudita.
Prima dell’11 settembre nessuno dubitava che il movimento fondamentalista fosse una delle grandi quinte – certo, non l’unica – dello scenario islamico contemporaneo. Possiamo certo cercare di favorire i musulmani che non siano fondamentalisti – dove riusciamo a trovarne, e sarebbe certo consolante essere certi che i Paesi occidentali abbiano davvero una strategia di questo genere, per esempio, in Libia. Ma fare finta che i fondamentalisti non siano una componente dell’islam essenziale, importante, e popolare presso ampli strati della popolazione in quasi tutti i Paesi a maggioranza islamica significa soltanto illudersi. È probabile che illusioni di questo genere abbiano avuto un ruolo nelle discutibili previsioni, da parte di esperti statunitensi che sottovalutavano la presenza del fondamentalismo sia sciita sia sunnita, del “nuovo Iraq” successivo alla rimozione dal potere per via militare di Saddam Hussein (1937-2006).
5. Questi terroristi – quelli dell’11 settembre e dintorni – sono fondamentalisti. Il fatto che non tutti i fondamentalisti siano terroristi non deve farci perdere di vista che questi terroristi, quelli di al-Qa’ida, sono nati, sono vissuti e si sono mossi nel mondo del fondamentalismo islamico. Una lettura anche sommaria dei documenti di al-Qa’ida permette di scartare le ipotesi diffuse secondo cui la religione serve qui da semplice copertura a interessi politici o a forme di protesta economica. I dirottatori dell’11 settembre non erano disperati che venivano da campi profughi ma persone di famiglie relativamente benestanti.
Il testo chiamato L’ultima notte, il cosiddetto “testamento” degli attentatori comprende particolari impressionanti sulla loro profonda convinzione che si trattasse di un atto eminentemente religioso, né la distinzione occidentale fra politica e religione aveva per loro alcun senso. Non solo il gesto terroristico è ancora oggi spesso vissuto come gesto religioso, ma il mondo dell’ultrafondamentalismo e del fondamentalismo ha delle gravi difficoltà a rinnegare questi suoi figli, spesso considerati “fratelli che sbagliano” – ma sempre fratelli – così come per tanti comunisti nelle università e nelle fabbriche italiane del dopo 1968 quelli delle Brigate Rosse erano “compagni che sbagliano”. Nelle moschee e sale di preghiera ultrafondamentaliste, anche in Europa, questi terroristi hanno trovato ospitalità, rifugio e possibilità di reclutare nuovi adepti. Ai pesci o agli squali del terrorismo la rete dell’ultrafondamentalismo ha offerto l’acqua di cui hanno bisogno per nuotare.
6. Dialogo sì, buonismo no. Poco prima di morire Oriana Fallaci (1929-2006) raccontò ad amici americani che, nel suo colloquio con Benedetto XVI, aveva chiesto al Papa perché mai s’impegnasse nel dialogo con l’islam, secondo la giornalista italiana impossibile. Il Pontefice avrebbe risposto sorridendo: «impossibile ma obbligatorio». In effetti, l’unica alternativa a un dialogo che sembra spesso quasi impossibile è la guerra atomica contro un miliardo e mezzo di musulmani. Accogliendo l’appello che viene proprio dal Papa dobbiamo dunque utilizzare la lezione dell’11 settembre per evitare generalizzazioni e condanne indiscriminate.
Dobbiamo ricordare che non tutti i musulmani sono fondamentalisti e che non tutti i fondamentalisti sono terroristi. Dobbiamo cercare di dialogare con chi almeno mette in discussione la violenza: magari – qui le opinioni divergono, e io ne esprimo una personale – non con i modernisti e i dittatori laici, per cui è comunque suonata la campana dell’ultimo giro, ma con chi sembra più credibile quando propone “terze vie” o con chi appare almeno impegnato a uscire dalle forme più rigide del fondamentalismo muovendosi in direzione di un conservatorismo che a noi appare ancora lontanissimo dall’Occidente ma che almeno accetta di aprire la discussione su temi come i diritti delle donne o delle minoranze cristiane.
Proprio questo dialogo presuppone una chiarezza di posizioni. Forse non è un caso che nel mondo solo dieci musulmani su cento avessero un giudizio favorevole sul presidente George W. Bush jr., ma quelli che hanno un’opinione favorevole su Obama siano ancora meno, otto su dieci. L’islam teme il fiero nemico ma disprezza il finto amico buonista e confusionario. Dunque, contro un buonismo che non risolve i problemi ma li nasconde, dobbiamo non dimenticare che i fondamentalisti sono musulmani e che questi terroristi fanno parte integrante del mondo dell’ultrafondamentalismo.
A dieci anni di distanza dall’11 settembre queste semplici osservazioni dovrebbero aiutarci a non rinunciare al dialogo, ma nello stesso tempo a non abbassare la guardia di fronte al terrorismo.