Internazionale n.1072 del 10 ottobre 2014
(articolo tratto da Mediapart, Francia)
La propaganda dei miliziani dello Stato islamico ricicla molti stereotipi orientalisti. E spesso serve solo a mascherare un desiderio di arricchirsi che ha poco a che vedere con l’islam
Claire Talon
Dopo l’11 settembre 2001 tre eventi hanno cambiato il volto del Medio Oriente. Il primo è l’ondata libertaria che, dall’inizio del 2011, continua a erodere le fondamenta dell’ordine regionale nato dagli accordi Sykes-Picot (con cui nel 1916 Francia e Regno Unito stabilirono segretamente le rispettive sfere d’influenza in Medio Oriente). Il secondo è il ridimensionamento delle ambizioni dell’islam politico: in Egitto e in Tunisia i partiti religiosi hanno dovuto scontrarsi con il rifiuto espresso nelle manifestazioni popolari e la difficoltà di governare. Il terzo è l’irruzione su internet di società civili irrequiete, che per la prima volta hanno gli strumenti per esprimersi.
È questo lo sfondo su cui continua a svilupparsi il fondamentalismo islamico e su cui vanno in scena i drammi siriano e iracheno. Si tratta di una crisi generalizzata che nasce dal collasso delle strutture statali ereditate dai tempi delle indipendenze. Tuttavia i governi occidentali ripropongono sempre la stessa soluzione: una piccola guerra condotta da popoli civili contro il “terrorismo” per garantire la stabilità regionale.
L’elemento centrale di questo scenario è l’internazionale jihadista: basta evocarla per giustificare un intervento militare che fino a pochi mesi prima era stato respinto dalle opinioni pubbliche, in Europa e negli Stati Uniti. Paesi come la Francia possono addirittura prendere in considerazione l’idea di colpire prima il regime siriano di Bashar al Assad e poi anche il suo nemico, l’organizzazione dello Stato islamico, come se si trattasse dello stesso problema. Il jihadismo sembra affermarsi come unica chiave di lettura per una realtà mediorientale sempre più indecifrabile. Non dovremmo quindi stupirci se i jihadisti mostrano all’occidente un’immagine di loro stessi studiata a tavolino e quasi caricaturale rispetto alla complessità della situazione.
Dai film peplum ai western, dai polizieschi alle pellicole di fantascienza, i jihadisti dello Stato islamico hanno mostrato di saper padroneggiare i codici della cultura occidentale. Ripropongono un immaginario orientalista che va da Lawrence d’Arabia a Trono di spade, passando per Salomè e san Giovanni Battista. I jihadisti insistono a farsi fotografare a cavallo o in carovane di jeep in mezzo al deserto. I loro capi indossano vestiti d’altri tempi e fanno di tutto per rafforzare il vecchio cliché della “crudeltà orientale” (sempre mostrata in modo teatrale). Possono anche sembrarci ridicoli, ma dovremmo riflettere sul fatto che queste sono le uniche immagini che abbiamo di loro e che sono loro stessi a fornircele.
Le rare testimonianze sulla vita quotidiana nei luoghi controllati dallo Stato islamico raccontano di persecuzioni contro chi cerca di documentare quello che succede e di esecuzioni di civili scoperti a fare foto. Quindi gli occidentali sono ridotti a contemplare Salomè in niqab, decapitazioni artigianali, crocifissioni, fucilazioni indiscriminate, cavalcate nel deserto, scene di battaglie che ricordano quelle dei film. È una rappresentazione rétro della violenza, molto lontana dalla precisione chirurgica con cui tanti abitanti della regione sono stati uccisi nel corso degli anni dal governo siriano, da Israele, dall’Egitto e dagli Stati Uniti.
Un altro passaggio obbligato di questo autoritratto esotico è il nuovo “viaggio in oriente”. Sponsorizzato dall’internazionale jihadista, si materializza in scene bucoliche che mostrano giovani guerrieri che sguazzano nelle acque limpide di un’oasi e assaporano dei frutti (melograni) tagliati con i pugnali. Donne sottomesse, crudeltà orientale, deserto, barbarie: sono i pilastri del discorso prodotto dai jihadisti dello Stato islamico su loro stessi. Questi cliché ricostruiscono alla perfezione l’oriente immaginario, inventato nell’ottocento dal Regno Unito e dalla Francia per sostenere le loro avventure coloniali. L’intellettuale palestinese Edward Said aveva già sottolineato come quella rappresentazione non fosse altro che un ritratto a rovescio dell’Europa illuminista.
Case gratis
Le peripezie del jihad globale, da Al Qaeda allo Stato islamico passando per il Fronte al nusra, mostrano la deriva del jihadismo da movimento di liberazione a impresa coloniale. Anche quando non esaltano apertamente il “jihad a cinque stelle” – l’abbondanza e la dolce vita nella terra promessa del Levante – i jihadisti stranieri (che, secondo fonti della Già citate dal New York Times, formano più della metà dei combattenti dello Stato islamico) pubblicano foto e video di ville con piscina sequestrate agli “infedeli”.
“Qui non si paga l’affitto. Le case sono assegnate gratuitamente”, scriveva sulla sua pagina di Facebook (oggi chiusa) Aqsa Mahmoud, una scozzese di 19 anni partita per la Siria per sposare un jihadista. “Non si paga l’acqua né l’elettricità. Riceviamo provviste mensili come spaghetti, pasta, cibi in scatola, riso, uova, e dei sussidi mensili per i mariti, le mogli e ogni figlio. Le cure mediche sono gratis. E non si pagano tasse (se si è musulmani) “.
“il nostro esilio è ricompensato dal bottino”, scrive Aqsa sul suo blog, che è ancora attivo. “Fa piacere sapere che il bottino è stato rubato agli infedeli e che è stato Allah a donarcelo. Abbiamo utensili da cucina, frigoriferi, cucine, forni, microonde, frullatori, aspirapolvere e prodotti per le pulizie, ventilatori e, soprattutto, case gratis”.
Da questo punto di vista, il fenomeno dello Stato islamico può essere visto come la copertura di un’avventura coloniale che trova nelle periferie di Londra, Strasburgo o Stoccolma le reclute più adatte. Le motivazioni di questi combattenti spesso non hanno molto a che vedere con l’islam. In un’intervista a Vice, Abu Ibrahim Raqqawi, un attivista siriano di 22 anni originario di Raqqa, la roccaforte dello Stato islamico, afferma che i jihadisti occidentali vivono isolati e rubano agli abitanti del posto: “i miliziani provenienti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti preferiscono portarsi dietro le loro mogli o sposare altre donne straniere, svedesi o olandesi. Restano chiusi nella loro cerchia. C’è una sorta di muro tra loro e gli abitanti di Raqqa perché non parlano la lingua del posto. Gli abitanti della città non amano gli stranieri perché requisiscono le case più belle e rubano”.
Nell’agosto del 2014 i jihadisti dello Stato islamico hanno pubblicato su Twitter dei selfies con alcuni barattoli di Nutella, suscitando tra i combattenti un dibattito sulle virtù della crema spalmabile. Nel momento in cui i paesi occidentali esportano nel mondo arabo questa nuova specie di colonizzatori, è paradossale continuare a vedere il Medio Oriente come una minaccia per la sicurezza dell’occidente.
Sorveglianza digitale
Le azioni dei jihadisti dello Stato islamico spostano in secondo piano una battaglia dalle conseguenze altrettanto drammatiche. Mentre la propaganda jihadista invade internet, le aziende statunitensi, europee e israeliane fanno a gara per vendere ai regimi autoritari del Medio Oriente software di sorveglianza che gli permettono di ostacolare l’emergere di forze alternative a quella jihadista.
Questi sistemi di sorveglianza, che possono essere adattati all’arabo e ai vari dialetti mediorientali, permettono ai servizi segreti dei paesi impegnati nella lotta al terrorismo di svolgere attività di spionaggio di massa sulle comunicazioni private scambiate via email, WhatsApp, Twitter, Facebook, Skype, Viber, YouTube e Grindr.
Il ministero dell’interno egiziano ha affidato all’azienda statunitense Blue Coat l’incarico di individuare le “idee distruttrici” che circolano sui social network. Nella gara d’appalto, ha scritto il i giugno 2014 il quotidiano Al Watan, si mette in evidenza il ruolo negativo di internet nell’ “affermazione dei valori democratici”, e si punta il dito contro il “sarcasmo”, “la ridicolizzazione delle persone”, “la denuncia di errori commessi in buona fede”, “la diffidenza verso i precetti religiosi” e la “trasgressione delle regole sociali”.
Oggi il principale problema per le società civili arabe non è lo Stato islamico, ma la possibilità di organizzarsi per elaborare una nuova immagine della regione, lontana dal jihadismo e dalle dittature sostenute dall’occidente. Oltre alle difficoltà organizzative e alla repressione dei servizi di sicurezza, chi produce contenuti è anche vittima delle politiche di Facebook e di altri social network, che spesso non fanno distinzioni tra i vari tipi di utenti, ed eliminano, in nome di una caccia indiscriminata alle immagini violente, sia i profili dei siriani della resistenza pacifica sia quelli dei jihadisti.
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Claìre Talon è una giornalista francese esperta di Medio Oriente. Vive al Cairo.