125 anni della Rerum Novarum, 25 anni della Centesimus Annus

rerum_medagliaOsservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân Newsletter n.700 del 3 maggio 2016

 Il 1 maggio 2016, l’enciclica di Leone XIII Rerum novarum ha compiuto 125 anni. Di conseguenza l’enciclica sociale di Giovanni Paolo II, scritta per il centenario della Rerum novarum, ha compiuto 25 anni. Con l’occasione il nostro Osservatorio pubblicherà una serie di interventi per ricordare questi due avvenimenti, così importanti per la Dottrina sociale della Chiesa. Iniziamo con il riproporre questo studio dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi che risale al 2012, ma che può valere ancora come degna commemorazione di Leone XIII e del suo progetto di evangelizzazione del sociale.

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Arcivescovo Giampaolo Crepaldi

E’ ANCORA VALIDO IL PROGETTO DI LEONE XIII ?

Un’applicazione dell’ermeneutica della riforma nella continuità [1]

Tra gli aspetti dell’ermeneutica della rottura applicata alla Dottrina sociale della Chiesa precedente e successiva al Concilio ce n’è uno su cui non sempre ci si sofferma sufficientemente. Esso consiste nel valutare gli insegnamenti sociali precedenti come superati se non preludono in qualche modo al Vaticano II. Spesso vengono poi forzati, per far sì che in qualche modo preludano, anche se non preludono affatto, e senza colpa alcuna.

La prima conseguenza è che si fa così una cernita tra gli insegnamenti pontifici e tra gli stessi Pontefici. Per esempio Pio IX e Pio X vengono completamente condannati, in quanto si fatica a vedere qualcosa che preluda al Vaticano II. Di Leone XIII, invece, solitamente si distingue tra una parte del suo insegnamento sociale che sarebbe rimasto legato ad una mentalità intransigente e un’altra che invece si sarebbe aperta al nuovo. In questo modo si invertono i termini: la luce della tradizione non illumina più le riforme, ma sarebbero queste a gettare luce sulla tradizione. Credo che abbia voluto dire questo Joseph Ratzinger quando mise in guardia dal considerare il Vaticano II un “superdogma”. E’ evidente che l’importanza degli insegnamenti sociali preconciliari va così perduta e quanto diceva la Laborem exercens, ossia che la Dottrina sociale della Chiesa cosiddetta “moderna”, ha ereditato il «patrimonio tradizionale» della Chiesa [2], viene dimenticato.

Dentro questa problematica si evidenzia poi un altro aspetto indicativo. In genere la Dottrina sociale della Chiesa preconciliare molto si fondava sull’autorità dottrinale, teologica e filosofica di San Tommaso d’Aquino. Il rigetto, o il ridimensionamento, di quella Dottrina sociale comporta anche il rifiuto preconcetto di San Tommaso, che sarebbe solo espressione di un passato che non torna. Però il magistero insegna che la Dottrina sociale della Chiesa fa anche riferimento a quanto prodotto  «dai grandi Dottori cristiani» [3] e, del resto, se la Fides et Ratio (1997) di Giovanni Paolo II segnala esplicitamente anche altri filosofi cristiani e giustamente afferma che nessun sistema filosofico specifico può essere considerato unica e completa espressione della ragione umana ed unico interlocutore della fede cristiana, tuttavia non si può notare che tutta l’enciclica sia nutrita soprattutto dalla prospettiva filosofica dell’Aquinate. Se San Tommaso non è tutto, non per questo è niente, come sembra essere per tante visioni moderne della Dottrina sociale della Chiesa, che interloquiscono con filosofie contemporanee quantomeno sospette, mentre dimenticano i grandi Dottori della Chiesa.

Anche questi sono aspetti dell’ermeneutica della rottura. Per meglio portarli alla luce può allora essere utile chiedersi quale fosse il progetto di Leone XIII e se tale progetto possa ritenersi valido ancora oggi, dopo il Concilio. Perché proprio Leone XIII? Perché ha scritto la Rerum novarum e ha dato inizio alla cosiddetta Dottrina sociale della Chiesa “moderna”. Credo possa essere un buon esercizio di ermeneutica della riforma nella continuità.

La Rerum novarum nel contesto del progetto di Leone XIII

Come ho già avuto modo di accennare sopra, è stato fatto da molte parti il tentativo non solo di distinguere ma anche di separare la Rerum novarum dalle altre encicliche di Leone XIII. Il motivo sarebbe il seguente. Mentre nelle sue altre encicliche Leone XIII sarebbe rimasto legato ad una certa mentalità intransigente, nella Rerum novarum avrebbe condotto una apertura alle cose nuove della modernità. Questa valutazione, naturalmente, riguarda anche il rapporto con la Aeterni Patris con la quale, nel 1879, il Pontefice aveva riproposto l’autorità filosofica e dottrinale dell’Aquinate e lo aveva indicato come modello indiscusso per i seminari e le scuole cattoliche. Anche nei confronti dellaAeterni Patris, e forse soprattutto nei suoi confronti, la Rerum novarum costituirebbe quindi uno stacco e quasi una presa di distanza.

Questa visione delle cose è molto problematica e non può essere accettata. Come opportunamente ricordava Augusto Del Noce – e dopo di lui non mi sembra che la cosa sia stata ripresa come avrebbe meritato – Leone XIII stesso aveva indicato l’ordine logico e sistematico nel quale le sue principali encicliche avrebbero dovuto essere lette [4]. L’Ordine suggerito dal grande Pontefice alla fine della sua vita era il seguente: Aeterni Patris (1879), Libertas Prestantissimum (1888), Arcanum Divinae Sapientiae sul matrimonio cristiano (1880), Humanum Genus sulla massoneria (1884), Diuturnum, sul governo civile (1881), Immortale Dei, sulla costituzione cristiana degli Stati (1885),Quod Apostolici Muneris, sul socialismo (1878), Rerum novarum (1891), Sapientiae Christianae sul cristiano nella città (1890).

Era una implicita indicazione anche a pubblicarle in quell’ordine, ma il suggerimento fu seguito una volta sola in America, come pure riferisce Del Noce, e poi non è stato più ripreso. Se il Pontefice aveva elencato l’ordine delle sue principali encicliche vuol dire due cose: che egli considerava le sue encicliche come un tutto sistematico dentro cui non si potevano introdurre separazioni; che affidava a questo tutto uno scopo unitario. E qui mi permetto di inserire una fugace osservazione critica.

Dicevo che la Rerum novarum è spesso proposta come la prima enciclica della “modernità”. La cosa viene detta in due sensi. Essa sarebbe stata la prima enciclica dopo che, con la modernità, politica e religione si erano separate, la prima enciclica di un fase storica di secolarizzazione. In un secondo significato lo si dice soprattutto per sostenere che nella Rerum novarum ci sarebbe una sostanziale apertura, se non accettazione, della modernità che prima non si dava, né nelle encicliche di Pio IX né nelle stesse encicliche di Leone XIII: la prima enciclica, quindi, di una secolarizzazione accettata, con la conseguente valorizzazione dell’azione dei laici. A mio modo di vedere questa visione della Rerum novarum non è corretta, non corrisponde al disegno di Leone XIII e non è nemmeno utile – anzi risulta fuorviante – per comprendere lo sviluppo successivo della Dottrina sociale della Chiesa.

L’inizio del testo della Rerum novarum, come è noto ma come spesso anche si dimentica, stravolgendo il senso del titolo, non suona come una felice apertura alle cose nuove, ma come la riprovazione per l’insensato inseguimento delle cose nuove che dal piano politico era a quei tempi sceso sul terreno sociale ed economico. E’ chiaro, quindi, che Leone XIII si poneva in continuità con Pio IX per indicare che lo stesso processo che nei decenni precedenti aveva caratterizzato il distacco della politica dal fondamento religioso si era poi diramato nella società civile e nell’economia, staccandole esse stesse dalla religione cristiana.

Nella Rerum novarum non si nota una accettazione della secolarizzazione violenta operata da una certa modernità, ma la necessità di una risposta: questa risposta è la Dottrina sociale della Chiesa, ossia la dichiarazione di un “diritto di cittadinanza”, come dirà cento anni dopo Giovanni Paolo II nella Centesimus annus [5], della Chiesa nella società, nella convinzione che non esiste soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo.

Strumento di questo progetto doveva essere la Dottrina sociale della Chiesa – quindi la Rerum novarum – ma dentro il quadro delle altre encicliche leonine e soprattutto di quelle che egli indicava come le maggiori e di cui forniva addirittura l’ordine logico.

Non si può trascurare di notare che in quel quadro il primo posto era occupato dalla Aeterni Patrische diventa quindi punto di riferimento obbligato per la Rerum novarum e per tutta la Dottrina sociale della Chiesa.

San Tommaso e la Dottrina sociale della Chiesa

Augusto Del Noce, nello scritto che abbiamo già esaminato, fa due affermazioni che a mio avviso sono pienamente condivisibili. Egli dice che Leone XIII è stato «il più grande filosofo cristiano del secolo XIX» [6] in quanto ha sostenuto che «la fede suppone infatti inclusa in essa una metafisica, e non si esce dalla fede nel renderla esplicita» [7]. In queste due frasi sta tutta l’importanza di San Tommaso per la Dottrina sociale della Chiesa.

Quando Leone XIII scrive la Aeterni Patris la scena culturale, accademica ed educativa è dominata dal Positivismo assunto a religione civile dei nuovi Stati liberali. Ciò significa assumere a religione civile la separazione tra ragione e fede ed estromettere la religione dall’ambito pubblico. Questo avviene negando che nella fede sia implicita una metafisica, ossia uno ordine ontologico e, da qui, un ordine sociale e politico. In questo caso la fede assume solo una rilevanza individuale e sentimentale e il dogma non ha più una dimensione ontologica.

Per tutto l’Ottocento la battaglia era stata combattuta sul terreno della politica, ora la rivoluzione industriale e le nuove ideologie la collocavano sul terreno della società civile. Pio IX [8] aveva contrapposto il dogma dell’Immacolata concezione al peccato della modernità liberale, che consisteva appunto nel non vedere più implicita nella fede una metafisica e quindi nella pretesa di costruire la storia politica senza riferimento al Creatore. Bisognava decidere se accettare o meno la secolarizzazione come irreversibile, perché questa era la proposta del Positivismo.

Leone XIII non accetta questa irreversibilità e il richiamo a San Tommaso e la scrittura della Rerum novarum sono due aspetti di un medesimo progetto. Da quel momento il riferimento a san Tommaso rappresenta per la Dottrina sociale della Chiesa il riferimento al corretto rapporto tra fede e ragione, tra grazie e natura e, quindi, al corretto rapporto tra religione e politica. E’ vero che in seguito il riferimento a san Tommaso si è affievolito, anche se rimane il teologo più citato in tutte le encicliche sociali e nello stesso Concilio, come è vero che la Chiesa non si può affidare ad un solo sistema filosofico, tuttavia la forza teoretica con cui San Tommaso pone e risolve il problema non sembra avere uguali, ma semmai opportuni completamenti.

La Dottrina sociale della Chiesa ha estremo bisogno di una impostazione corretta del rapporto tra fede e ragione perché essa, come dice la Deus caritas est di Benedetto XVI, si colloca proprio nel punto di incontro tra fede e ragione [9] . Ora, San Tommaso ha il merito di fornire una visione perfettamente ortodossa della questione, tale che da un lato risulta salva la legittima autonomia della politica e dall’altra la regale superiorità della religione.

Il grande filosofo tomista Étienne Gilson si poneva la grande domanda: «Può esservi una Chiesa senza che vi sia unità politica sulla terra; ma può esservi unità politica della terra senza che vi sia il riconoscimento, da parte del temporale, dell’autorità diretta dello spirituale, non soltanto in campo morale, ma anche in campo politico?». Gilson rispondeva con San Tommaso d’Aquino: «In materia spirituale conviene obbedire al papa, in materia temporale è meglio obbedire al principe, ma meglio ancora al papa, che occupa il vertice dei due ordini».

Secondo Gilson questo vuol dire che per San Tommaso «Lo spirituale non è subordinato al temporale. Il principe, che ha autorità sul temporale, non ne ha dunque alcuna sul campo spirituale; ma il temporale è subordinato allo spirituale.  Il papa, che ha autorità sullo spirituale, ha dunque anche autorità sul temporale, nella misura stessa in cui questo dipende dallo spirituale. La formula è semplice ed è sufficiente applicarla per vedere come essa comporti un preciso significato. Il papa non è il sovrano politico, di nessun popolo della terra, ma ha autorità sovrana sul modo in cui tutti i popoli conducono la loro politica» [10]. Il motivo ultimo è di ordine teologico-metafisico: «La natura informata dalla grazia è più perfettamente natura» [11]. Questo insegna San Tommaso e questa pretesa sta all’origine della Dottrina sociale della Chiesa ed è possibile solo se nella fede è implicita una metafisica e non si deve uscire da essa nel renderla esplicita.

La modernità la si può intendere in molti modi, ma credo sia difficile non riconoscere che alla base della modernità radicale ci sia, come diceva Del Noce, il rifiuto del peccato originale, ossia l’estromissione della grazia dalla storia come irrilevante per la vita umana. Il peccato originale ha una dimensione ontologica: è la negazione che nella fede sia implicita una metafisica, ossia che la nostra vita non debba rispondere ad un ordine stabilito del Creatore, ma la possiamo costruire noi da soli. Da qui il carattere antireligioso della modernità radicale, che Leone XIII aveva davanti e a cui contrapponeva l’Aquinate e la Dottrina sociale della Chiesa, non separati tra loro ma uniti in una controproposta di salvezza non solo della religione ma anche della politica, non solo della grazia ma anche della natura, perché, come dice la Gaudium et spes, «senza il Creatore la creatura è perduta» (n. 24).

L’attualità del progetto di Leone XIII

Quando è nata la nuova evangelizzazione? Senz’altro quando Giovanni Paolo II ha adoperato questa espressione per la prima volta. Di recente, però, Benedetto XVI ha detto che anche il Concilio, in fondo, era stato convocato per realizzare la nuova evangelizzazione. In seguito, lo stesso Benedetto XVI ha anche aggiunto che la nuova evangelizzazione è nata alla metà del 1800 quando la Chiesa si trovò davanti per la prima volta una società che si stava costruendo senza o contro Dio. Alle origini della nuova evangelizzazione quindi sta la constatazione di una secolarizzazione che progressivamente, e per sua intima natura, si estende dal piano religioso (secolarizzazione religiosa) al piano etico e morale (secolarizzazione etica e negazione di un ordine morale oggettivo o legge naturale) al piano personale e spirituale. Se si deve vivere senza Dio o contro Dio sistematicamente sul piano della vita pubblica e della vita morale anche la vita spirituale sarà catturata dal dubbio del soggettivismo.

Come si può vedere, il quadro che Leone XIII aveva davanti è, nei suoi motivi fondamentali, uguale a quello che ora abbiamo davanti. Uguali le esigenze di nuova evangelizzazione perché uguali le derive negative della secolarizzazione. Naturalmente oggi gli esiti sono più drammatici perché il tempo ha corroso il bagaglio naturale di religione e morale che forse nell’Ottocento non era stato ancora completamente ridotto a quasi nulla. A meno che – questo è il punto vero – non si intenda il Vaticano II come l’accettazione definitiva del moderno processo di secolarizzazione visto come positivo. Ma una simile interpretazione rientrerebbe in una ermeneutica della rottura, condannata da Benedetto XVI e che, quindi, il fedele non prende nemmeno in considerazione

Ho fatto un tentativo – quasi una esercitazione – di applicazione di una ermeneutica della riforma nella continuità. Certo che, se si assume il Vaticano II come ultimo discrimine e non la tradizione, si può correre il rischio di cancellare, o anche semplicemente di sottovalutare, l’insegnamento di Leone XIII come degli altri Pontefici preconciliari. Se invece si applica l’ermeneutica della riforma nella continuità indicata da Benedetto XVI essi sono perfettamente in grado di dirci molto anche per le sfide che la Chiesa deve affrontare oggi.

[1] Originariamente pubblicato in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa”, VIII (2012) 2, pp. 65-68.

[2] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Laborem exercens (1987), n. 3.

[3] Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (2009), n. 12.

[4] A. Del Noce, Fede e filosofia secondo Étienne Gilson, in Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, a cura di L. Santorsola, Edizioni Studium, Roma 2005, pp. 75-83. Lo studio era stato originariamente pubblicato nel 1982.

[5] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Centesimus annus (1991), n.

[6] A. Del Noce, Fede e filosofia secondo Étienne Gilson cit., p. 76.

[7] Ivi, p. 81.

[8] R. De Mattei, Pio IX e la rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena 2012.

[9] Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus caritas est, n. 28.

[10] E. Gilson, Metamorfosi della città di Dio, Cantagalli, Siena

[11] Ivi, p. 183.