di Claudio Finzi
Tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento l’Italia vive un processo politico che da una miriade di piccoli organismi conduce a una situazione ancorata a cinque Stati maggiori: Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, le «potentie grosse», come furono allora definite. Sia queste sia gli organismi minori ebbero bisogno di funzionari, di consiglieri, di giuristi, di dotti, di umanisti, tutti dotati di una cultura comune. Uomini che non esitano a muoversi da un capo all’altro d’Italia, secondo i loro interessi e secondo le possibilità di impiego offerte loro dai governanti. E basti ricordare tra i grandi protagonisti dell’epoca i calabresi Simonetta, che vanno a Milano a servire gli Sforza, e l’umbro Giovanni Fontano, che diventa primo ministro di Ferrante d’Aragona a Napoli.
Oltre questi protagonisti della politica e della burocrazia, da un capo all’altro d’Italia si muovono gli artisti, i dotti, gli umanisti, i professori universitari, gli ecclesiastici, i militari dal semplice soldato fino al condottiero di fama come il meridionale Niccolo Orsini al servizio di Venezia. Questi uomini partono da una prima piccola patria, alla quale restano legati durante tutta la loro vita.
Fontano nasce a Cerreto di Spoleto, piccolo borgo della Valnerina, e sempre ne sente la nostalgia fatta anche di piccole cose, come il ruscello, sulle cui sponde giocava da fanciullo; ma in Napoli trova una nuova patria più grande e un re, al quale sarà fedele. E così molti aggiungono alla prima una seconda patria.
Libertas Italiae
Due patrie, dunque, ma sopra di queste ecco la patria più grande: l’Italia. Passare dal borgo natio a una grande città o dal proprio Stato a un altro è sempre doloroso, è uno staccarsi dal luogo di nascita, dove sono sepolti i propri antenati e dove conosciamo ogni pietra e ogni acqua. Ma fino a quando restiamo sulla penisola troviamo pur sempre qualcosa di famigliare; non ci sentiamo radicalmente estranei.
Il nome Italia è comunemente usato in ogni luogo della penisola. L’espressione libertas Italiae è di uso corrente, più o meno a seconda degli anni, ma mai dimenticata.Le guerre tra Stati italiani sono considerate da molti come guerre civili; Francesco Petrarca con dolore afferma che le guerre tra italiani sono guerre intestine tra membra dello stesso corpo, contro le quali invoca la pace per l’Italia tutta.
Appassionato e dolente il suo lamento sulle guerre tra Genova e Venezia! Al doge Andrea Dandolo ricorda che Venezia è parte d’Italia. E più volte usa espressioni come «corpo italico» o «bel corpo d’Italia» e frequente è anche l’abbinamento tra le parole «patria» e «Italia». Persino Gerolamo Savonarola, che attende la salvezza dal re di Francia, invoca l’Italia: «Italia, Italia, Italia… tu vuoi essere pure divisa. Io non ho predicato qua solo a Firenze, ma a tutta Italia. E siamo fermi qua a Firenze, perché ella è il core d’Italia». L’Italia sperata da Savonarola dovrà essere diversa da quella corrotta, che è stata finora, ma è comunque l’Italia!
Né a questo sentimento d’Italia faceva ostacolo la situazione linguistica pur frammentata. Condizioni di bilinguismo e plurilinguismo erano frequenti e tali restarono per molto tempo, senza provocare distinzioni irrimediabili, lacopo di Porcìa, vissuto tra Quattrocento e Cinquecento, è stato un valoroso soldato, ma anche un uomo colto, che ha lasciato vari scritti, fra i quali un testo di arte militare e un interessante epistolario.
Ebbene, il conte di Porcìa conosceva certamente il friulano per poter parlare con i suoi contadini; il veneziano per parlare con i suoi signori veneziani; un certo italiano, perché ormai al suo tempo i colti lo parlavano e scrivevano usualmente; il latino, perché nessun uomo di qualità poteva evitare di scrivere in latino. Il plurilinguismo era la normalità, non l’eccezione, e si parlava e scriveva latino o volgare a seconda delle situazioni. Anche un uomo dottissimo come Giovanni Fontano, considerato da molti il più grande poeta latino dopo l’antichità, scriveva lettere personali e di Stato in volgare o in latino a seconda della necessità e dell’occasione.
Quando valichiamo le Alpi invece tutto cambia: la lingua, gli uomini, gli usi e costumi, la cultura, la mentalità, ogni cosa. Il mondo è completamente diverso in ogni suo aspetto, immensamente di più di quanto non sia tra Napoli e Milano o tra Genova e Ancona. Chi valica le montagne passa in un altrove radicale.
E se ne vogliamo la prova, basta leggere quanto scrivono Francesco Petrarca sulle sue esperienze francesi; Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II, sulla Scozia; Poggio Bracciolini sulla Germania. Per Giovanni Fontano l’Inghilterra è un Paese condannato all’infelicità: vi manca il vino; ed è noto che gli astemi non potranno mai essere felici!
Da tutto ciò nasce una qualche idea dell’Italia o, quanto meno, un sentimento d’Italia, che troviamo evidente già in Francesco Petrarca. Idea e sentimento che si costruiscono negli anni attraverso le sue molteplici esperienze tanto culturali quanto di vita. Non dimentichiamo infatti che egli nasce esule ad Arezzo, vive a lungo ad Avignone, sede in quei tempi della corte papale, viaggia in parecchie regioni d’Europa, nei suoi decenni più tardi soggiorna soprattutto nell’Italia settentrionale.
D’altro canto Petrarca è il padre dell’umanesimo e ovunque porta con sé la nuova cultura. E non a caso troviamo echi del petrarchesco sentimento d’Italia negli scritti di Leonardo Bruni, Flavio Biondo, Leon Battista Alberti.
Vera erede di Roma
Geograficamente parlando l’Italia non presenta problemi; per Petrarca è «il bel paese ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe», già individuato da Dante Alighieri. Ma definirla politicamente e storicamente è altro problema; e altro ancora definirla per rapporto e contrasto agli altri Paesi del mondo. Storicamente per Petrarca l’Italia è strutturalmente legata a Roma, definita «il nostro capo» già nella celeberrima canzone «Spirto gentil, che quelle membra reggi».
L’Italia è la vera erede di Roma; in senso diverso però da come lo era per molti anche nel Medioevo. Se per costoro tra Roma e il presente esisteva un rapporto di continuità, per Francesco Petrarca tra Roma antica e l’Italia del Trecento c’è il baratro del Medioevo, un baratro che dev’essere superato recuperando non soltanto la purezza della lingua latina e la correttezza dei testi latini, ma anche e soprattutto gli ideali etici e politici dei Romani, cioè quanto di meglio sia mai stato prodotto dagli uomini.
Con questo recupero l’Italia, benché dilaniata dalle discordie interne alle città e dalle guerre fratricide tra città, potrà giungere o tornare agli splendori che le competono. Ed ecco dunque il suo appoggio a Cola di Rienzo, ma anche le sue esortazioni all’imperatore Carlo IV, che deve farsi romano, se vuole essere vero imperatore.
Il legame con Roma colora di sé tutto il nostro umanesimo fino alla fine del Quattrocento. Leonardo da Chio, genovese dell’Egeo, vescovo di Mitilene, nel 1446, difendendo la nobiltà delle città italiane contro la critica di Poggio Bracciolini, esalta la nobiltà dei romani suoi contemporanei e della stessa Roma, unendo in un solo abbraccio l’antica pagana con quella cristiana.
Che cosa mai esiste maggiore di Roma? Alla quale fu data la vittoria, alla quale è affidato il principato del mondo tanto nel temporale quanto nello spirituale? Non vi fu né ci sarà un’altra Roma, che abbia il dominio del mondo e la sedia di Pietro. Come è a capo della religione cattolica così Roma è anche a capo di tutta la nobiltà. Conseguentemente gli italiani, che sono i più vicini a Roma in ogni senso, sono più nobili di tutti gli altri uomini e di qualsiasi altro popolo al mondo.
Ma se l’Italia è la vera erede di Roma, chi sono gli altri popoli, che cosa sono gli altri Paesi? La risposta è semplice: sono i barbari! Ed ecco dunque che l’Italia si definisce anche per contrasto tra civiltà e barbarie; quella barbarie che Petrarca ha conosciuto ad Avignone; quella barbarie che, trasferendola in Francia, ha trascinato nel baratro anche la Chiesa.
L’Italia è il Paese della virtù e della ragione, oltre le Alpi troviamo i Paesi del furore e della irrazionalità. Non a caso nella famosa canzone dedicata all’Italia Petrarca scrive i celeberrimi versi con i quali Niccolo Machiavelli concluderà II principe:
Vertù contra furore
prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto:
che l’antiquo valore
ne l’italici cor ‘non è ancor morto.
«Vertù contra furore»: per meglio comprendere questo punto essenziale prendiamo un episodio, nel quale la funzione della ragione viene lucidamente rivendicata da uno dei maggiori condottieri italiani: quel Braccio Fortebraccio da Montone che al principio del Quattrocento fu sul punto di costituirsi un regno nell’Italia centrale e meridionale.
Nella vita di Braccio scritta da Giannantonio Campano è narrata una durissima disputa fra Braccio stesso e gli ufficiali di Alfonso d’Aragona sui rispettivi meriti militari degli italiani e dei transalpini. L’oggetto del contendere sta nei due diversissimi modi di guerreggiare: gli italiani ingaggiano battaglia al momento opportuno, badano a non compiere sforzi inutili, vanno in combattimento ordinatamente, eseguendo movimenti preordinati e regolari; gli stranieri invece si avventano rabbiosamente sul nemico, non evitano mai la battaglia, combattono senza badare alle perdite, desiderosi di uccidere quanti più nemici è possibile.
Sono dunque più coraggiosi gli stranieri, mentre gli italiani badano troppo al risparmio? In realtà, afferma Braccio, replicando agli ispani, i transalpini combattono fino alla morte e alla distruzione anche quando in palio sono soltanto la ricchezza e il dominio, non la vita ultima e la sopravvivenza. Ma questa «non è da definirsi grandezza d’animo, bensì disumanità di crudeli barbari». Inoltre, continua Braccio, che senso ha distruggere vite e beni che saranno vostri?
Secondo Braccio anche in guerra, quando maggiore è il rischio di lasciarsi trascinare dalle passioni, dobbiamo invece mantenere il dominio della ragione sugli impulsi irrazionali. Esiste una ratio armorum, una «razionalità delle armi», che dobbiamo seguire anche nel durissimo e tragico momento del conflitto armato. Questo è il modo italiano di combattere, ben diverso dal furore dei barbari transalpini.
Al cadere del Quattrocento il contrasto tra Italia e barbari sarà usato anche da uno dei maggiori dotti del Regno di Napoli per criticare e demolire la nobiltà italiana meridionale e non solo meridionale.
Barbari francesi e tedeschi
Per capire con quale gente infame abbiamo a che fare, guardiamo alla vera origine di coloro che fanno parte della nobiltà presunta italiana, scrive Antonio De Ferrariis, detto il Galateo dal suo luogo di origine Calatone nel Salente, nel suo amarissimo De nobilitate (1495-1496). In realtà costoro non hanno nulla di italiano.
Pochissimi tra loro possono vantare una stirpe più antica di cento anni; il padre o il nonno, barbari francesi o tedeschi, vennero in Italia nudi e famelici, dotati soltanto di una spada e di una lancia, e qui in Italia si sono arricchiti grazie agli assassìnii, ai furti, alle rapine; non sono stati veramente uomini valorosi, bensì da poco e di pessima moralità. Peggio ancora: si vantano della loro origine barbara, quasi fosse indecoroso essere stirpe d’Italia.
Tutte le loro insegne richiamano questa origine, che poi è origine di banditi e di predoni. Ma chi mai sono costoro? Dov’è la loro patria? Chi sono i loro progenitori? In quali selvagge foreste sono stati allevati? Da dove sbucano costoro, che vivono abbeverati del sangue dei poveri? La terra è nelle mani dei banditi; la giustizia è volata in cielo; i potenti sono i più ingiusti tra tutti. E noi primigeni abitanti d’Italia siamo costretti a servire.
Purtroppo, scrive adesso il Galateo, proprio questo è quanto accade nella povera Italia! Anche da noi i greci e gli italiani, coloro che un tempo sono stati signori del mondo, che hanno dato a tutti le istituzioni, le leggi, le lettere, i buoni costumi, sono oggi costretti a obbedire. È il rovesciamento di quanto dovrebbe avvenire in un mondo ben ordinato: coloro che per natura dovrebbero obbedire, invece comandano! La vera nobiltà della saggezza, della cultura, della filosofia, è oppressa da sedicenti nobili di origini selvagge e banditesche. Perché soltanto questo sono i francesi e anche peggio. E giù a descrivere i franchi e i loro sovrani come i peggiori tra i malvagi e i selvaggi.
I popoli si definiscono anche e forse soprattutto per contrasto, e il contrasto più forte di quel tempo è tra italiani e francesi, contro i quali già Petrarca scaglia le sue durissime critiche, avendoli direttamente conosciuti ad Avignone. Barbari vanagloriosi, che si vantano di un primato politico e culturale inesistente; che è soltanto un primato di secoli di decadenza, quel Medioevo oltre il quale dev’essere recuperata Roma, che vale più di ogni e qualsiasi realizzazione medievale, di quel Medioevo al quale si richiamano questi presuntuosi, ma inetti e incolti francesi. Nel linguaggio petrarchesco «gallo» e «barbaro» sono equivalenti e usati senza distinzione.
Durissima è la sua risposta a Jean de Hesdin, che si era permesso di criticare l’Italia; il Contro eum qui maledixit Italie è probabilmente quanto di più feroce un italiano abbia mai scritto contro i francesi. Anche Ponzio Filato era gallo, scrive Petrarca, e questo ci basti per capire che gente sono. Passiamo agli ultimi decenni del periodo che consideriamo.
Per Giovanni Pontano i francesi sono il nemico storico dell’Italia e degli italiani, coloro che ci sono stati sempre nemici e sempre lo saranno, che in ogni momento tramano per distruggerci, come più volte afferma nelle lettere scritte in nome dei suoi sovrani. «Sonno stati sempre et serranno francisi superbi et studiosi de conculcare li stati italiani, et che ne in affinità, ne in amicicia loro per la excessiva insolentia non se pò havere fide» scrive il 3 luglio 1493 ad Antonio de Gennaro inviato al Duca di Bari, cioè Lodovico Sforza detto il Moro.
L’avvertimento è replicato il giorno dopo al Duca di Ferrara: «Conoscimo ben noi francesi esserece adversi: impero sempre quella natione quando ha possuto, ha infestata Italia et pero non e da viverese securo de ipsi, ne da presso ne da lontano». E ancora sei mesi dopo a Luigi de Paladinis: «Francesi mai vennero in Italia che non la ponessero in ruina».
Potremmo citare a questo proposito molte altre lettere pontaniane, ma non faremmo altro che ripeterci. Merita invece rilevare che in questo contesto Giovanni Fontano non fa alcuna differenza tra francesi e turchi, considerandoli allo stesso modo barbari nemici giurati d’Italia. Per gli uomini di allora l’Italia non fu soltanto un mito letterario, come più volte è stato affermato, ma una realtà concreta.
Mancò però una visione unitaria e ancor più un desiderio di unificazione, benché compaiano qua e là frasi e parole in questa direzione. Qualche cenno è già in Petrarca. Poi il tema riaffiora in Ermolao Barbaro, quando al tempo della guerra di Ferrara in una lettera a Giorgio Menila immagina quale potrebbe essere la forza d’Italia, se invece di essere divisa tra due gruppi contendenti fosse unita in un solo blocco.
Giovanni Fontano nel dialogo Charon si augura che in futuro l’Italia ridotta a unità possa riavere la maestà imperiale; e nel 1493 auspica l’unità d’Italia e la vede possibile, se il Papa la vuole. Sorso d’Este, scrivendo nel 1445 ad Alfonso d’Aragona, re di Napoli, lo invita a prendere la Lombardia, chiave d’Italia: se lo farà, sarà «re de Italia»; frase significativa al di là del paradosso di chiedere a un sovrano ispanico di farsi re d’Italia. Ma non si va oltre questi rapidi cenni.