alleanzacattolica.org/ 28 Ottobre 2016
di Oscar Sanguinetti
Nel 1873 Gabriel Gregorio García y Moreno (1821-1875), presidente dell’Ecuador, il piccolo Stato situato nella parte a nord del continente sudamericano, consacrava il suo Paese e il suo popolo al Sacro Cuore di Gesù.
Il gesto, in ossequio al culto del Sacro Cuore rilanciato nel 1856 da Papa Pio IX (1846-1878) con l’estensione alla Chiesa universale della relativa festa e risposta, forse, ai primi vagiti della dottrina della regalità sociale di Gesù Cristo, che sarà espressa in forma compiuta molti anni dopo nell’enciclica Quas primas di Pio XI (1922-1939), suscitò reazioni furibonde e violente in quella che allora si presentava come la “Chiesa della ragione”, la massoneria, la quale in quegli anni, in Europa e nelle Americhe, godeva di una condizione di autentico strapotere d’influenza sui governi e sulle classi dirigenti.
Una reazione che indurrà alcuni circoli settari ecuadoriani ferocemente anticlericali a condannare a morte il presidente, che cadrà sotto il pugnale di alcuni cospiratori nel 1875 — appena rieletto —, mentre grida “Dios no muere!”, mentre l’arcivescovo di Quito, mons. José Ignacio Checa y Barba (1829-1877), morirà avvelenato due anni dopo con il vino della Messa.
Oggi, ben 143 anni dopo, il 21 ottobre scorso, un altro capo di Stato sudamericano, il settantottenne presidente Pedro Pablo Kuczynski — figlio di un medico tedesco di origine ebraico-polacca — consacra se stesso, la sua famiglia e il suo Perù, il suo governo, lo Stato, la nazione, «al amor y protección de Dios Todopoderoso a través de la intercesión del Sagrado Corazón de Jesús y del Inmaculado Corazón de María». Non solo: ma chiede perdono a Dio per tutte le trasgressioni che lo Stato o in nome dello Stato sono state commesse nel passato.
Singolare e imprevedibile il gesto; sorprendenti i personaggi, non solo il presidente — un economista divorziato risposato, con figli, promotore di una legislazione progressista su aborto, unioni same sex e gender —, ma anche il presidente del Congresso che ha recitato un analogo atto; curioso il luogo — uno Stato contiguo a un altro già consacrato al Sacro Cuore —; inedita la circostanza — un raduno religioso privato in un hotel di Lima, nell’assenza totale dell’episcopato.
Che cosa pensarne? Non pochi sono gli interrogativi che il gesto suscita e occorre attendere di capirne meglio le motivazioni. In ogni caso, non riesco a non pensare a come Dio — “che ci stupisce e ci sorprende sempre” — dimostri ancora una volta di tessere i fili della storia in maniera invisibile, sì da porci all’improvviso davanti a realtà che la ragione ci sconsiglierebbe di porre fra le aspettative immediate.
L’esempio più clamoroso del fatto che il bandolo della matassa è nelle mani di Dio è senz’altro il crollo repentino dell’immenso impero socialcomunista sovietico avvenuto nell’arco di soli tre anni, fra il 1989 e il 1991. Ora, la Provvidenza ci ripropone un gesto che, se per alcuni, pochi, ha un carattere esemplare e rappresenta un desiderio tanto intensamente coltivato, quanto giudicato di là da venire, visti i trend attuali, per altri, per i “sacerdoti” e per i “mistici” del laicismo, rappresenta il massimo oltraggio che si possa commettere in campo politico. Un gesto su cui occorre meditare, ma che si pone di fatto in radicale contrasto con tutti i pseudo-dogmi sulla natura e i compiti dello Stato, uno Stato oggi — ma almeno dal 1789 — ridotto a strumento per imporre ai popoli l’“Antidecalogo” di giovannea memoria.
Il gesto simbolico e fortemente controcorrente di Kuczynski certo non attirerà le simpatie dei “poteri forti” sulla repubblica sudamericana, ma — premesse tutte le riserve del caso — mi pare possa far dire ai peruviani e a noi: mai disperare… Dio ha voluto forse darci un piccolissimo segnale: egli è più grande del male che ai nostri giorni ci invade capillarmente ogni angolo dell’esistenza umana, spesso sub specie di bene, e il cui proliferare induce al disarmo e alla disperazione. E ci induce a ripetere: “Dios no muere!”.