(segue da: Capitolo Primo Amnesie)
Ogni sforzo va fatto per riportarlo alla luce. Fortunatamente non è difficile, purché se ne rintraccino i precedenti a partire da quel 10 luglio 1943 che vede il debutto del grande sbarco di due Armate alleate alle spiagge siciliane. Per tre giorni, una ridda di false voci – forse sparse ad arte – suscita a Roma ed in Italia, in alto e in basso la rosea speranza che gli invasori possano essere congelati sul “bagnasciuga”, come ha profetizzato Mussolini, per essere poi ributtate a mare.
Ma il 13 luglio porta ad una vera e propria catastrofe psicologica, poiché si apprende di colpo che tutto è andato a rovescio: le Piazze marittime si sono arrese senza sparare un colpo, le divisioni costiere si sono liquefatte, gli americani stanno rombando verso Palermo, gli inglesi si apprestano ad occupare Catania. (21 )La Capitale cede al panico.
Un gruppo di gerarchi, tra cui Bottai e Farinacci, si riunisce alla Direzione del PNF, e conclude che è ormai divenuto necessario “accantonare” Mussolini, e comunque avere con lui un confronto, in una seduta di quel Gran Consiglio che non è più stato convocato dal 1939. E difatti il 16, dopo un’altra mattutina riunione, gli stessi ed altri aggiuntisi gerarchi, “marciano” su Palazzo Venezia a tardo pomeriggio, recando ad un Duce “molto annoiato” la loro richiesta.
Con mirabile scelta di tempo, gli apparecchi inglesi hanno disseminato sulla Capitale milioni di manifestini, firmati Roosevelt e Churchill, nei quali si incita il popolo italiano a liberarsi dai “falsi capi” ed a chiedere una resa onorevole. Mussolini ascolta i suoi seguaci ribelli, e poi consente, convocherà il Gran Consiglio. O, almeno, così è stato detto. In realtà, come sempre, le testimonianze sono ambigue. Secondo alcuni, egli risponde semplicemente “Ci penserò”, secondo altri dice sì, “ma dopo la vittoria”: per altri ancora, si impegna “per l’ultima settimana di luglio”, cioè di lì a breve. Nebulosità della quale occorre tener conto.
Ancora due giorni convulsi, tra recriminazioni tedesche e notizie sempre peggiori dalla Sicilia, poi, il 18 luglio giunge una comunicazione di Hitler, il quale desidera incontrare il suo “partner”, anche su territorio italiano, se necessario, per colloqui della durata prevista di tre giorni. Mussolini ha avuto la stessa idea, ma partendo da ben altri programmi: premuto dai suoi gerarchi, e dal Capo di S.M., generale Ambrosio, ha in animo di porre ai tedeschi un “aut aut”: o daranno i mezzi per difendere la Sicilia e la Penisola, oppure dovranno consentire allo “sganciamento”. Scrive la lettera di richiesta, ma quella di Hitler arriva prima. (22)
In sole tre ore si fanno le valigie e si organizza l’incontro, tredicesimo tra i due dittatori, che passerà alla storia come “Convegno di Feltre”: avvenuto in realtà a Villa Gaggia, nel feltrino, per ragioni di riservatezza e di sicurezza. Mussolini vi giunge in aereo, dopo una sosta notturna a Riccione, probabilmente destinata, più che a riflettere, a starsene lontano dai suoi agitati consiglieri. Le due delegazioni si incontrano all’aeroporto di Treviso alle nove del 19 luglio e subito proseguono per la Villa: il programma immediato prevede due riunioni, una del mattino, ed una seconda a pomeriggio.
Testimonianze, relazioni e ricostruzioni tardive sono di assai scarsa utilità – come sempre accade per questi storici momenti cruciali – nel darci conto di quanto realmente successe a Villa Gaggia tre le 11 e le 15 di quel giorno. Tanto più che i pochi presenti, e la serie di storici che si son mossi sulla base delle loro testimonianze, han dato larghissimo spazio al “pathos” della riunione, piuttosto che alla sua essenza politico-militare: affannandosi a descrivere un Mussolini “annoiato e distratto”, ma relativamente in buone condizioni, ed un Hitler “spento e lunare”, pressoché paranoico e comunque insopportabile.
Nei fatti, il Fuhrer tiene una vera e propria conferenza dalle 11 alle 12,55, praticamente senza interrompersi mai. E chiunque, nei suoi verdi anni, abbia vissuto attraverso la radio la disperante esperienza delle allocuzioni-fiume di Hitler, non fatica di certo a comprendere lo stato d’animo della delegazione italiana, e dello stesso Mussolini in quella occasione. Ma questo non ha il minimo riferimento con la “qualità” dell’intervento del sulfureo Cancelliere: che è altissima, come probabilmente mai prima e mai dopo, essendo in strettissima relazione tra lo stato globale della guerra e la già scontata inevitabilità di una defezione italiana. E’ insomma il momento in cui Hitler deve estrarre una soluzione praticabile dal suo calcolatore cerebrale.
Lo fa, presentando subito un’analisi molto fredda e sincera della situazione. La guerra sottomarina ha dato grossi dispiaceri, ma la tecnica tedesca sta approntando apparati nuovi che permetteranno tra breve di riprenderla. La produzione aeronautica ha manifestato gravi lacune che hanno permesso ai “raid” alleati notevoli successi: ma ora la si sta avviando e razionalizzando per una vigorosa rimonta. Per i carri, il “Panther” ha dato ottime prove, ed è il miglior carro esistente.
Altrettanto fredda l’analisi operativa. Il nemico da batter rimane sempre la Russia e nessun accordo con essa può essere realizzato, poiché il prezzo ne sarebbe la perdita di territori che sono essenziali per tenere in piedi i livelli produttivi dell’industria tedesca. Ma una volta battuta l’Armata Rossa, si potrà “tornare al Mediterraneo” e risolvere facilmente la crisi militare italiana. Per ora, quindi, bisogna reggere, utilizzando al meglio i non grandi mezzi a disposizione.
Nella terza parte della sua conferenza militare poiché tale essa è, Hitler disegna un quadro molto duro della capacità italiana a combattere, sia in generale, che specialmente in Sicilia. Dice che è inutile mandare aerei tedeschi, se poi essi vengono distrutti al suolo per difetto di una buona contraerea e di apprestamenti adatti. Ed è inutile inviare truppe di alto valore come le Divisioni corazzate e “Panzergrenadiere”, se non esiste un supporto di fanterie capaci di mantenere un fronte. Critica i comandi, l’organizzazione dei porti, le incomprensibili lungaggini burocratiche che – per esempio – impediscono la costruzione rapida di aeroporti per l’opposizione dei proprietari dei terreni.
E conclude dicendo, in buona sostanza, che la Germania poco può fare in questa situazione: l’Italia dovrà contentarsi di qualche centinaio di aerei, ma non subito, e concentrarsi sulla difesa della Sicilia. Se si potrà tenerla, allora il Comando tedesco potrà avviarvi qualche altra Divisione di qualità. Ma se si decide di abbandonarla, meglio subito che più tardi, in modo da recuperare i reparti che vi stanno combattendo. Si penserà poi ad una riconquista, che non si presenta difficile, visto che gli Alleati non potranno mantenere sull’isola a tempo indefinito le due Armate che vi sono sbarcate.
Oggi sappiamo con esattezza che Hitler si trova a Feltre, avendo in tasca un “memorandum” del suo O.K.W., secondo il quale non è possibile raddrizzare la situazione italiana, senza prima aver messo finalmente in piedi un “Comando unificato” che, in un modo più o meno mascherato, dia ai tedeschi, e soltanto a loro, l’effettiva direzione delle operazioni.
Quando Hitler ha chiesto se ci fosse un generale italiano all’altezza del compito, i suoi han risposto in coro “nessuno”: ed hanno suggerito un paio di formule destinate, secondo loro, a raggiungere lo scopo senza provocare reazioni pericolose. Ma Hitler non chiederà questo, e non certo – come è stato scritto – per un riguardo al “suo amico” Mussolini. Da buon politico, egli sa che la formula è impraticabile, specie sui tempi brevi e brevissimi che la sorte mette a disposizione.
Non comunque in una Nazione moderna, la cui organizzazione ed amministrazione richiede un livello di consenso molto alto. Men che meno in tempo di guerra, su popolazioni stanche e Forze Armate già molto provate. Certo, si può emettere un’Ordinanza e collocare Kesselring o Rommel al vertice militare: ma il vero problema sono le reazioni, le passioni, le suscettibilità di 200 mila ufficiali italiani, quelle di due milioni di soldati, marinai ed aviatori, quelle di una popolazione forse non ancora sfiduciata del tutto, ma pericolosamente in bilico.
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Tutte le volte che Hitler si è trovato di fronte a questa tipica situazione, ha ricercato e mantenuto al possibile una soluzione “standard”: rispetto totale delle strutture statali dei paesi occupati o alleati, controllo attraverso i “capi carismatici” locali, dai Petain agli Antonescu, dagli Horthy ai Mannerheim.
Per l’Italia 1943, la soluzione di Hitler è la stessa, ma è anche l’unica praticabile con qualche probabilità di successo. Occorre sostenere Mussolini in modo che egli sia in grado di ricontrollare la situazione, almeno per qualche tempo. Non si tratta – lo vedremo – di un puro espediente dilatorio, poiché nel pentolone del Cancelliere bolle in realtà una zuppa di sapore completamente nuovo.
In una guerra su due fronti quale si sta combattendo, è vero che gli Alleati occidentali dovrebbero accettare una “pace bianca” se si riuscisse a sconfiggere in modo definitivo la Russia sovietica. Ma è anche vero il contrario: se gli Alleati fossero messi fuori combattimento, Stalin dovrebbe piegarsi o esser distrutto.
Ancora a Natale del 1944 con la battaglia delle Ardenne, Hitler proseguirà, in peggiori condizioni, più o meno lo stesso schema: bloccare ad ovest, per poter fare i conti finali ad est. Di questo, a Feltre non si parla, benché si debba onestamente dire che un uditorio più attento, soprattutto più qualificato culturalmente avrebbe dovuto intuire una grossa parte dei nuovi piani tedeschi, proprio dalla tecnica e dagli argomenti utilizzati da Hitler, con successo, per rafforzare la posizione di Mussolini, fino al punto di fargli reinghiottire il suo del resto già debole proposito di arrivare ad un “aut – aut” con i tedeschi.
Ai generali e politici italiani presenti, ipnotizzati dalla schizofrenica persuasione che sia davvero possibile ottenere da Hitler il castrarsi da solo, chiedendogli il “permesso” di sganciare l’Italia dall’alleanza in cambio di una neutralità utopistica, sfugge persino la sottigliezza psicologica che il Cancelliere tedesco dispiega per raggiungere il suo scopo. La chiave di Hitler gira due volte. La prima è pubblica, davanti a Mussolini ed alla delegazione italiana. Subito dopo aver parlato delle “delusioni” ricavate dalla guerra sui mari e nell’aria, egli fa un circospetto ma chiaro accenno alle sue “armi nuove”.
Frederick Deakin è lo storico che ce ne ha tramandato il resoconto più ampio: “….accennò poi (Hitler) a due nuovi armi sulle quali egli non vuole comunicare particolari, che alla fine dell’inverno verranno impiegate contro gli inglesi e contro le quali essi non disporranno di alcuna difesa. Anche la Germania non avrebbe avuto alcuna difesa contro di esse, salvo che per la sua posizione geografica” (23).
Il secondo giro di chiave è privato. Alle 12,15 la Conferenza ha avuto una prima interruzione, essendo giunte da Roma notizie drammatiche che hanno violentemente agitato Mussolini. La Capitale, coincidenza mirabile anche questa, è sotto attacco aereo, con danni pesanti e molte vittime. Hitler assiste impassibile alle emozioni e reazioni della delegazione italiana, poi riprende il suo discorso: forse è l’unico a scorgere nel sorprendente bombardamento della “città sacra” per eccellenza un segnale preciso non tanto della determinazione alleata, quanto dell’esistenza di un meccanismo bilaterale.
Un atto, una sincronia giustificatoria di quanto si sta preparando sul piano politico. Alle una si va a tavola, ma per la prima volta i due dittatori si appartano senza testimoni in una saletta riservata. I militari-camerieri entrano ed escono, forse interviene una volta o due anche l’interprete, ma nessun’altro.
Secondo Deakin, l’unica testimonianza diretta su quanto venne detto in quella rapida colazione, risale agli appunti di Mussolini, stesi circa un mese dopo, nei suoi “Pensieri pontini e sardi”, nei quali è detto: “Dopo le dichiarazioni del Fuhrer ebbe luogo il nostro primo scambio di opinioni a quattr’occhi. Mi comunicò due fatti essenziali: 1) la guerra sottomarina sarebbe stata ripresa con nuovi mezzi: 2) a fine agosto la flotta aerea di rappresaglia avrebbe cominciato ad operare contro Londra che sarebbe stata cancellata dalla faccia della terra in una settimana. Gli risposi, tra l’altro, che in attesa di questi attacchi, la difesa dell’Italia doveva in ogni modo essere rafforzata….” (24)
Più o meno tutte le fonti indirette accettano la verità sostanziale di questo appunto mussoliniano. Ma ne abbiamo almeno altre due, pressoché dirette, di grande valore. La prima è quella di Leonardo Simoni, pseudonimo di Michele Lanza, Segretario all’Ambasciata Italiana di Berlino, il quale sotto la data del 20 luglio riferisce con una certa ampiezza il resoconto reso ai colleghi diplomatici dell’Ambasciatore Dino Alfieri, appena rientrato da Feltre. “Ma di sganciamento si è parlato? (chiedono essi). Di sganciamento? Neppur per sogno.
I due capi si sono parlati in tono cordiale e cameratesco. Hitler ha fatto un’esposizione molto esauriente della situazione. Ha formalmente promesso l’invio di alcune Divisioni in Italia. E’ sicuro di vincere…” “Ma Lei, non ha parlato chiaro al Duce?” “Si…si…., anche Ambrosio e Bastianini gli hanno parlato. Credo che il Fuhrer gli abbia detto, in segreto, cose molto importanti: forse i motivi su cui fonda la sua certezza assoluta di vittoria. Il Duce voleva riferirne ad Ambrosio nel viaggio di ritorno” (25).
L’altra testimonianza è, ancora, di Dino Grandi. Recatosi a colloquio da Mussolini, tre giorni dopo Feltre, a sera del 22 luglio, si sente dire: “Hai finito? – mi domandò glacialmente – Ebbene, sappi – mi replicò – alcune cose che dovrai fissarti bene in mente e sulle quali ti invito a meditare quando sarai uscito di qua: 1) la guerra è ben lungi dall’essere perduta: avvenimenti straordinari si verificheranno tra poco nel campo politico e militare, tali da capovolgere interamente le sorti della guerra: Germania e Russia si accorderanno: l’Inghilterra sarà distrutta…..” (26)
Al di là delle parole, la prova migliore che quella “colazione a due” costituì davvero il punto risolutivo dell’incontro, ci viene da quanto accadde immediatamente dopo. Difatti, Mussolini fece sapere alla sua delegazione che non ci sarebbe stata un’appendice pomeridiana e che si sarebbe ripartiti alle 16. Subito, Ambrosio, Bastianini ed Alfieri gli si fecero attorno, interrogandolo sul punto che a loro stava a cuore, se cioè egli avesse sottoposto ad Hitler una richiesta di sganciamento concordato.
Ma Mussolini rispose “Non ce n’è stato bisogno. Manderà tutto quanto è necessario”. Poi, sedutosi, fece un breve discorso, un po’ teatrale, sull’impossibilità morale e pratica dell’Italia di uscire davvero dalla guerra. Attese Hitler in giardino, poi le due carovane si mossero verso Feltre e Treviso.
E’ importante stabilire che l’interruzione dei colloqui non avvenne su iniziativa di Hitler, che anzi ne apparve “stupito e stizzito”, ma per volontà di Mussolini. Ed ancora più importante è capirne le ragioni: che non potevano risiedere nella necessità di rientrare a Roma in conseguenza del bombardamento della mattina, così come anche è stato detto, bensì nel fatto puro e semplice che Mussolini, nella colazione privata, era stato veramente messo a giorno di un elemento non ipotetico, ma preciso, capace di imprimere una svolta alla guerra.
Un piano a breve scadenza, puntato sulla distruzione di Londra, e con essa, dell’Inghilterra. Sullo sfondo, un accordo con la Russia. Non ha molto senso indagare se Mussolini vi credette totalmente, parzialmente o niente del tutto, poiché il fatto essenziale è che egli vi vide il mezzo per superare la sua crisi politica. Avrebbe presentato ai suoi vacillanti “fedelissimi” ed al Re questa grossa novità, attribuendo a loro ed a lui la responsabilità di prendere decisioni irreversibili “prima” della prevista distruzione del nemico occidentale.
Egli sicuramente pensò che nessun uomo con la testa sulle spalle avrebbe scartato, per pura e semplice incredulità, che a brevissimo termine potesse verificarsi davvero una “svolta” così clamorosa: chiunque, perciò, avrebbe almeno atteso gli avvenimenti.
Va osservato che Hitler, nello sbottonarsi sulle rivelazioni, era stato particolarmente abile, poiché era partito da una valutazione assai precisa dell’ormai ridottissimo livello del prestigio mussoliniano. Se avesse sciorinato soltanto a lui i suoi segreti, ed avrebbe comunque dovuto farlo tra due esigenze contrastanti, quella di mantenere un riserbo assoluto sui dati essenziali, e quella di rivelarglieli in modo abbastanza ampio e dettagliato da farlo convinto, se dunque gli avesse detto non tutto, ma abbastanza, rimaneva pur sempre sul tavolo il fondato sospetto che “gli altri” non gli avrebbero creduto, avrebbero pensato sicuramente ad un trucco, ad una comoda scappatoia.
E’ per questa ragione che Hitler interviene sulle “armi segrete” già nella mattina, nella riunione plenaria, comunicando che esse esistono, che verranno impiegate contro gli inglesi alla fine dell’inverno, ma che “per ora” non ne rivelerà i dettagli. E’ l’indispensabile puntello che servirà a Mussolini per essere creduto. Su questo meccanismo, poggia probabilmente anche la differenza tra i “tempi” dell’annunziata distruzione. In pubblico, Hitler dice “a fine inverno”, in privato “a fine agosto”.
Si tratta di due scenari radicalmente diversi, quanto ad incidenza politica: l’Italia può reggere per un altro mese, non per otto o nove, e del resto, quando si è in guerra, cioè nel corso rapidissimo degli avvenimenti, non ha molto senso prospettare realtà già malcerte come sostanza, opinabilissima poi in funzione di un remotissimo futuro. Eppure Hitler è costretto a tale doppio binario, poiché il “quando” di un’operazione militare di vastissima portata è ovviamente un segreto vitale: e perciò, lo precisa solo a Mussolini, il quale – va rilevato – ne mantiene lo stretto riserbo.
Anche in Gran Consiglio dirà soltanto “….è prossimo il momento” (27). Si vedrà che in effetti l’indicazione di “fine agosto” è quella che corrisponde alla realtà dei fatti, quali ora li conosciamo. Non è però inutile tornare al problema della maggiore o minore credulità di Mussolini, poiché esso coinvolge di necessità un giudizio sia sulla sua personalità, che sull’importanza del Convegno di Feltre come matrice di quanto successe poi.
Gli storici di oggi, senza eccezione, lo definiscono “un insuccesso”, partendo dall’idea che Mussolini e la delegazione italiana vi si siano recati al minimo per porre un “aut-aut” ai tedeschi, ed al massimo un consenso allo sganciamento. Se anche fu così, e non è detto, si può parlare di insuccesso soltanto relegando in un angolo le rivelazioni di Hitler, che invece costituirono il “problema nuovo” di fronte al quale si trovò Mussolini, probabilmente con grande e comprensibile sollievo.
Non si trattava infatti di decidere sullo stato della guerra qual appariva in quel momento, ma di farlo in base ad una prospettiva diversa, ed a breve scadenza per giunta. Eran cioè cambiate le basi del giudizio, perché era stato messo sul tavolo un dilemma dal quale si poteva ragionevolmente uscire soltanto con l’attesa. Per non credere ad Hitler, in quel momento, i motivi erano pochi, ma soprattutto di genere extrarazionale, cioè poco validi su piano di responsabilità politica.
In quel luglio terribile, la “Wehrmacht” disponeva ancora di 335 Divisioni, più altre 30 finlandesi, romene ed ungheresi, e l’estensione dell’impero nazista andava ancora da Capo Nord a Creta, e dai Pirenei al Donetz. La gigantesca macchina industriale tedesca, notevolmente sostenuta dalla collaborazione di quella francese, raggiunse nel 1943 i suoi livelli più alti, sfornando 27.000 cannoni, 12.000 carri e più di 22.000 aerei: né, in quell’inizio d’estate, potevano ancora essere misurati i grandi ritardi accumulati fino al 1942 col rifiuto di Hitler ad una mobilitazione veramente totale, né gli errori concettuali che si erano compiuti o si stavano compiendo in un corretta politica degli armamenti.
Anche i grandi bombardamenti Alleati, pur rovinosi, erano appena al loro debutto, e nessuno poteva ancora prevedere quale risultato avrebbero prodotto, o formulare un giudizio sicuro sulla capacità di resistenza delle popolazioni tedesche. Anche sul piano delle operazioni terrestri era difficile azzardare pronostici. C’era stata Stalingrado, ma appena quaranta giorni dopo la “Wehrmacht” aveva brillantemente riconquistato Karkhov, bloccando l’Armata Rossa, e ripristinando sui suoi comandanti il proprio vecchio ascendente professionale. Insomma, come sempre succede in guerra, i pessimisti disponevano di carte altrettanto buone che i loro avversari.
Mussolini, dunque, non aveva motivi particolari per non credere ad Hitler. Dopotutto era un italiano, affascinato ed anche avvilito dai grandi successi tedeschi. Non aveva alcuna capacità di giudizio tecnica, specialmente militare, e non era quindi in grado di farsi un’idea personale sulla fattibilità reale di un piano che prevedeva la distruzione di Londra ed una “spettacolare svolta” nella guerra. Però sapeva che Hitler non lo aveva mai ingannato, se non nei limiti di quell’approssimazione delle previsioni, senza la quale non ci sarebbe davvero più alcun problema.
Aveva detto che avrebbe battuto la Francia in sei settimane, e lo aveva fatto in cinque. Aveva ripristinato la situazione in Grecia con la rapidità della folgore. Aveva preso Creta e sguinzagliato per i mari più di 300 sommergibili che, almeno sino all’aprile, avevano rischiato di tranciare per davvero le comunicazioni alleate nord atlantiche.
Nel fidarsi, Mussolini possedeva anche un elemento in più, sul quale è sempre stata stesa una pesante coltre di silenzio. Era assai bene al corrente sui progressi delle armi segrete tedesche, e già da molto tempo. Ufficiali italiani avevano assistito ai lanci, ed industriali italiani si erano visti sottoporre dai tedeschi i piani dettagliati di quegli “aerei senza pilota”, che poi sarebbero stati denominati V1.
I canali diplomatici e gli addetti militari avevano recato altre informazioni, per cui l’unica vera rivelazione della “colazione a due”, non era tanto quella dell’esistenza di tali armi, ma il piano della loro utilizzazione a breve termine. Ovviamente, si debbono distinguere due livelli di conoscenza: quello di Mussolini e dei suoi capi militari, per i quali l’esistenza delle armi nuove non era un segreto, e quello dei gerarchi minori, nonché del pubblico, che non ne sapevano nulla, al di là delle voci più o meno fantasiose.
Vedremo meglio il quadro complessivo di parte italiana del peso che questa svolta tecnologica ebbe o no sulla valutazione dello stato della guerra, ma è importante notare sin da questo momento che il silenzio ancor oggi gravante su questo aspetto particolare del mosaico, acquista il valore di una rimozione intenzionale: negli attori di quel lontano dramma, e nei loro epigoni e commentatori.
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Mussolini rientra a Roma la sera del 19 luglio e subito dà disposizioni a Carlo Scorza, Segretario del Partito, perché convochi il Gran Consiglio per sabato, 24 luglio, ad ore 17. A Grandi che cautamente si informa a che si debba quello che evidentemente è un fatto nuovo, lo stesso Scorza risponde: “Non lo so. E’ tornato da Feltre con questa idea”.
E proprio su Feltre, Mussolini va dal Re a riferire, la mattina del 22. Su questo colloquio sappiamo pochissimo, poiché i resoconti dei due protagonisti hanno un identico grado di laconicità, se non di reticenza: e ben si capisce che il De Felice abbia chiamato questa una “vexata quaestio”, costruendovi sopra un’interpretazione che, se non manca di finezza psicologica, tuttavia non risponde affatto alle non ignorabili implicazioni di ciò che già sappiamo per certo.
Non vi può infatti essere alcun dubbio che con il Monarca Mussolini pose al centro del discorso quello stesso dilemma sul “colpo” di fine agosto che Hitler gli aveva illustrato appena tre giorni prima: se, di lì a quattro o cinque settimane si fosse davvero verificato il capovolgimento delle sorti, nessuna decisione irrevocabile poteva essere presa prima di quella data.
Occorreva dunque aspettare.I testimoni esterni di quel colloquio, ci hanno lasciato una descrizione attendibile, ed abbastanza strana, dell’atteggiamento sia del Re che di Mussolini: “inquieto ed accigliato” il primo, “disteso e sereno” il secondo. E ben se ne comprende il perché: lungi dal doversi limitare ad attendere che qualcuno o qualcosa gli fornisse un appiglio costituzionale all’apertura di una crisi, ora il dilemma richiedeva al Re una vera e propria decisione autonoma, e l’assunzione di una responsabilità “di fatto” che, tra l’altro, non rientrava neppure nelle sue prerogative sovrane.
Credere a Mussolini era altrettanto pericoloso che non credergli: comunque stava a lui. Il 18 ottobre di quell’anno, quindi dopo la tragedia dell’armistizio, il Maresciallo Badoglio riunì in Agro San Giorgio Jonico un gruppo di avviliti ufficiali del nascente “Regno del Sud” e cercò di risollevarne gli spiriti con un discorso mezzo soldatesco e mezzo politico.
Dopo aver rinverdito, ad ogni buon fine, i suoi allori, lontani e piuttosto pacati, venne a parlare dell’accusa di “tradimento” che la Repubblica di Salò” gli rivolgeva quotidianamente dai suoi giornali, e disse: “…Tornato a Roma (da Feltre) Mussolini assicurò il Re che, in ogni caso, si sarebbe sganciato dalla Germania entro il 15 settembre. Lo sa Ambrosio, che è qui, e lo sanno diversi Ministri fascisti, che son rimasti di là, non so più se nemici o amici o perseguitati di Mussolini….” (28).
Questa affermazione, che poi Badoglio ammise di aver ricavato da quanto “probabilmente” gli aveva riferito Vittorio Emanuele, non è mai stata smentita da alcuno: ed anzi lo stesso Badoglio la ripeté, negli identici termini, davanti alla Commissione d’inchiesta per la mancata difesa di Roma, il 29 dicembre 1944. Se ne trova conferma anche nel “Diario” del generale Puntoni, Primo Aiutante di Campo del Re e – con alcune difficoltà di interpretazione – anche nella monumentale opera di Churchill, là dove egli, senza ancora conoscere il “Diario” del generale, dice espressamente: “Mussolini rispose (al Re, nel colloquio del 22 luglio) a quanto sembra, che sperava di svincolare l’Italia dall’alleanza dell’Asse per il 15 settembre” (29).
Del resto, questa notizia e questa data, già circolavano a Roma negli ambienti “bene informati” fin dalla sera del colloquio del 22. Va aggiunto quanto accoglie Deakin, traendolo da un testo apologetico posteriore al settembre 1943, redatto a Bari, dall’addetto stampa del Governo del Sud, ed intitolato “Il segreto dei due Re”.
Narrando del colloquio del 22 luglio, vien fatto dire dal Monarca: “Venne a parlarmene (Mussolini). Già sapevo del colloquio (di Feltre) anche per quanto mi aveva riferito, oltre al generale Ambrosio, il colonnello Montezemolo….La situazione era ormai tale che bisognava porre il dilemma ai tedeschi….Preferisco evitare rovine e dolori al mio Paese, piuttosto che sacrificare tutto ad una resistenza ormai inutile…(Mussolini) prese a parlarmi delle armi segrete tedesche. Lo interruppi: “Le migliori armi segrete sono quelle più conosciute”. Si congedò da me”. (30)
L’insieme di queste scarne testimonianze non autorizza affatto le conclusioni che ne sono state tratte poi, fino ad oggi. Intanto, perché non spiega il diverso livello emozionale dei due, sereno quello di Mussolini, nervoso ed irritato quello del Re. Ma poi, non dà conto della straordinaria fiducia nel Re che sorresse Mussolini per i due giorni successivi e durante tutta la prima parte della storica seduta del Gran Consiglio.
Una fiducia che egli poi definì “ingenua”: un aggettivo che tuttavia non vuol dire stupida, o irrealistica, nel senso – appunto – che Mussolini, recandosi al Gran Consiglio riteneva in buona fede che il colloquio del 22 luglio fosse stato per lui positivo. Salvo accorgersi durante la seduta, e son le uniche due ipotesi possibili, o che si era prodotto un “fatto nuovo”, o che il Re gli aveva mentito. In tutti e due i casi, però, non era nel conto il “fatto”, ma soltanto la valutazione di esso: o, addirittura, che alla prima valutazione il rapidissimo svolgersi delle cose, ne avesse resa obbligatoria una seconda. Che Mussolini fece soltanto alla mezzanotte del 24.
In sede di interpretazione, gli storici hanno adottato all’unanimità l’idea che nel colloquio del 22 Mussolini abbia avanzato l’idea di una proroga, ed hanno motivato questa convinzione con la supposizione che il dittatore fosse alla ricerca di un modo “onorevole” per trarsi d’impiccio. Ma questo castelletto di ipotesi non tiene conto del fatto che, in quel momento, Mussolini non era e non si sentiva ancora in pericolo, convinto com’era di poter riportare all’ovile i suoi gerarchi dissidenti e frondisti: e d’altra parte conscio del fatto che al Re, un Re costituzionale fino al formalismo, mancava sino a quel momento qualsiasi appiglio legale e morale per aprire una crisi.
Tutto quel che sappiamo milita appunto a sostenere l’idea che la convocazione del Gran Consiglio, nel pensiero di Mussolini, fosse finalizzata allo scopo di potersi presentare poi al Re, forte del suo vecchio sostegno politico. E che su questo contasse proprio in funzione dell’imminente “svolta” bellica che Hitler gli aveva prospettato. Non dovrebbe dunque esservi dubbio alcuno su quale fu la strategia sostanziale di Mussolini nel colloquio del 22 luglio. Egli non chiese nulla, ma si limitò a dire quanto sapeva: secondo ogni vista cioè, era altamente probabile che alla fine di agosto, e dunque di lì a quattro o cinque settimane, Londra sarebbe stata distrutta dalle nuove armi tedesche.
Quali che fossero i dubbi e le riserve in materia, sarebbe stato il colmo di una sinistra e beffarda ironia se l’Italia avesse deciso di abbandonare il combattimento “cinque minuti prima di mezzanotte”. Anche perché in tal caso, la vendetta tedesca sarebbe stata dieci volte più terribile di quella con la quale si dovevano fare i conti già in quel momento. Nel caso poi di una “pace bianca” generale, all’Italia sarebbe toccata la sorte peggiore, “a Dio spiacente e a li nimici sui”.
L’unica soluzione possibile era dunque quella di attendere: se al 15 settembre il “colpo” non si fosse verificato, si sarebbero prese altre decisioni, più facili in quanto si sarebbe potuto dire ai tedeschi, “ci avete ingannato una volta di più”. Proprio l’irritazione di Vittorio Emanuele, unita al fatto, indiscutibile, che al colpo di Stato non fece seguito un’immediata cessazione delle ostilità, né alcuna seria presa di contatto con gli Alleati almeno sino al termine della seconda decade dell’agosto, provano largamente che a quella strategia mussoliniana non v’erano alternative.
Già una volta il Re aveva detto che “la scelta del tempo era il problema essenziale”, ed ora si trovava proprio davanti a questo problema. Lo risolse nell’unico modo possibile, attendendo; ma procurò, con la defenestrazione di Mussolini, di allargare al massimo le sue possibilità di contrattazione con gli Alleati, se e quando si fosse rivelato necessario rivolgersi davvero a loro. Non li amava e ne diffidava: ma nelle guerre, amici e nemici non si scelgono, si subiscono.
E’ molto probabile che Vittorio Emanuele III, numismatico ferratissimo, ma tecnico e tecnico-militare di modestissima levatura, abbia davvero pronunziato la frase attribuitagli sulle vere armi tedesche, “che sono anche le più conosciute”.
Essa reca le stimmate della sua personalità scettica ed anche quelle della sua sostanziale incapacità a comprendere – come del resto accadde a quasi tutti – che il conflitto, nel 1943, era uscito da una sua “prima fase” per così dire artigianale, nella quale si era combattuto con armi di poco migliori di quelle “già conosciute”: ed aveva imboccato una “seconda fase” militarmente e scientificamente rivoluzionaria, che avrebbe lasciato in eredità alla seconda metà del secolo Ventesimo una terrificante serie di scoperte e ritrovati, la cui funzione di “arma” sarebbe stata soltanto una piccola parte di quella più generale, essenzialmente politica e persino filosofica.
I grandi razzi intercontinentali, accoppiati all’energia atomica, i radar e le calcolatrici ultrarapide, i gas nervini e le colture batteriologice, gli aerei a reazione ed i sommergibili velocissimi e pressoché inaffondabili, persino l’inevitabile avvento della Televisione avrebbero comportato uno sconvolgimento tanto tellurico nell’ordinario concetto di guerra, da richiedere strumenti intellettuali nuovi di zecca per valutarli appieno, e da vanificare addirittura il significato di “vittorie” e “sconfitte”: che sarebbero nate non più sul campo, ma molto prima, nei laboratori scientifici, nell’organizzazione industriale, nell’intelligenza dei gruppi-guida.
Se Vittorio Emanuele davvero non credette alle “armi segrete”, bisogna dire che si sbagliò, almeno sul piano teorico. Proprio in quel momento le dieci o dodici persone decisive del War Cabinet di Londra erano preda di un “freddo panico” conseguente a quanto un agente “sicuro ed autorevole” in Svizzera aveva segnalato col telegramma 189 del 23 giugno.
Giunto personalmente a Churchill, esso fu consegnato a Lord Cherwell, suo consigliere scientifico, il 1° luglio, recandolo a mano e sotto il vincolo del più assoluto segreto. Esso diceva: “I tedeschi annunziano per agosto un attacco aereo devastatore contro la Gran Bretagna, farebbero ricorso a bombe ad aria liquida di terribile forza distruttiva, così come ad altri mezzi non precisati, ma ancora non impiegati.
Non è precisato se si tratti di gas. L’attacco sarebbe di un tipo nuovo e di una violenza irresistibile ed avrebbe – si garantisce – per effetto un grande scacco per il nemico, e probabilmente una vittoria decisiva dell’Asse”. Nella settimana seguente, dunque al principio di luglio, un secondo rapporto dello stesso agente parlava esplicitamente, e per la prima volta, di un’arma atomica, con una portata teorica di 800 chilometri, pratica di 480, di 40 tonnellate di peso e lunga 20 metri. Il primo terzo – proseguiva l’informatore – era costituito da un’ogiva contenente un esplosivo “tipo disintegrazione dell’uranio”, e l’arma era in costruzione nell’isola di Usedom, a Brema, Friedrickshafen e Vienna. Sarebbe stata operativa per il 1° settembre. (31)
Questi due rapporti, e gli altri giunti a Londra, prima e dopo da fonti diverse non potevano non provocare un allarme eccezionale in Churchill e Lord Cherwell: essi erano tra i protagonisti al corrente di quanto si stava facendo negli Stati Uniti per giungere alla realizzazione di un ordigno atomico. Ma sapevano molto bene ed in più che anche la Germania poteva essere sulla stessa strada.
Otto Hahn e Lize Meitner avevano scoperto la disintegrazione dell’uranio dal febbraio 1939, e non c’erano ragioni valide per pensare che il primo, che poi era anche il miglior fisico a livello mondiale, nonché capo del celebre “Kaiser Wilhelm Institut” se ne fosse rimasto con le mani in mano. C’era Hahn e c’era in Cecoslovacchia tutto l’uranio che si voleva. E dunque il rischio era gravissimo, persino se gli attacchi non fossero avvenuti “al nucleare”, ma a gas, ed anche col comune esplosivo. (32)
Da questo “freddo panico”, nacque il convulso seguito degli avvenimenti, che dovemmo subire senza comprenderli appieno: né allora, né oggi.