di Luigi Geninazzi
E’ un anniversario glorioso che stavolta però s’accompagna a sentimenti di grande tristezza. In Polonia trent’anni fa nasceva Solidarnosc, il primo sindacato libero in un Paese del blocco sovietico, la prima breccia nel muro del comunismo che iniziò a sgretolarsi sul litorale baltico prima di crollare definitivamente a Berlino.
La vigilia di Ferragosto del 1980, un volantino stampato clandestinamente e appeso da mani furtive sotto l’orologio all’ingresso dei cantieri ne chiedeva la reintegrazione sul lavoro. Volto severo, temperamento forte e combattivo, spesso in polemica con gli stessi vertici del libero sindacato, Anna Walentynowicz è stata un’icona di Solidarnosc.
Nel 2007 è stato girato un film di ricostruzione storica dello sciopero che s’ispirava proprio alla sua figura. Un tragico destino ha voluto che fosse sull’aereo del presidente Lech Kaczynski caduto lo scorso 10 aprile nella foresta di Smolensk. Anche lei, come le altre 95 vittime della sciagura aerea, si stava recando a Katyn per rendere omaggio alla memoria degli ufficiali polacchi trucidati da Stalin. Nella sua morte, con sconvolgente simbolismo, si riassume l’intero arco della storia recente della Polonia, dal buio e dall’orrore di Katyn alla luce e al riscatto nazionale iniziato a Danzica.
Insieme alla Walentynowicz sull’aereo presidenziale c’era anche un altro protagonista degli scioperi nei cantieri, Arkadiusz Rybicki, Aram per gli amici. Nel 1980 era un attivista del Movimento della giovane Polonia, un gruppo di studenti anti-comunisti in contatto con le strutture clandestine del sindacato operaio. Fu lui, di suo pugno, a scrivere le famose 21 richieste del Comitato inter-aziendale di sciopero che l’Unesco nel 2003 ha inserito nell’elenco del patrimonio culturale dell’umanità.
Me la ricordo ancora quella lista “21 Tak!”, i ventuno sì, un ciclostilato sgualcito che gli operai si passavano di mano in mano con incredulità ed entusiasmo. La prima richiesta era la possibilità di costituire un sindacato libero e indipendente dal regime. Qualcosa d’assolutamente impensabile in un Paese del blocco sovietico dove i sindacati non erano altro che semplici cinghie di trasmissione del partito comunista.
L’Occidente, scosso nel bel mezzo del suo torpore vacanziero dalle vicende di Danzica, entrò in agitazione per paura di un intervento militare sovietico come già era avvenuto nel 1956 in Ungheria e nel 1968 in Cecoslovacchia. Inoltre, notavano con preoccupazione molti commentatori, le agitazioni sociali in Polonia erano sempre finite con una dura repressione. L’ultima, proprio a Danzica, dieci anni prima.
Tutt’altro clima invece si respirava in quel che veniva considerato l’occhio del ciclone, nei cantieri occupati del litorale baltico. Quel che stava avvenendo era chiaramente una rivoluzione diversa da tutte le precedenti. Una rivoluzione paradossale, fatta da operai contro un potere che si regge su un’ideologia rivoluzionaria e operaista. Una rivoluzione dalle salde radici popolari e cristiane contro un regime imposto da una potenza straniera nel segno dell’ateismo.
Quelle migliaia di tute blu inginocchiate durante la messa celebrata all’interno dei cantieri è uno spettacolo sconvolgente che rimbalza sui teleschermi di tutto il mondo. Uno spettacolo di fierezza e dignità, una forza tranquilla che rifiuta anche il più piccolo gesto di violenza, un movimento di popolo cui giunge con un messaggio pieno d’affetto il deciso sostegno di Giovanni Paolo II, il Papa polacco più che mai vicino alla sua nazione in lotta «per il pane e per la dignità».
Dopo 18 giorni di scioperi, che alla fine investono tutto il Paese, il regime cede. Il 31 agosto vengono firmati gli Accordi di Danzica, nasce Solidarnosc e si spalanca un’epoca nuova per la Polonia e per il mondo. Trent’anni dopo, come spesso accade quando si commemorano i grandi eventi che hanno cambiato la storia, è forte il rischio della retorica. Ma rivedendo quelle immagini la commozione è genuina: se a Danzica la storia è cambiata è perché lì stava gente con un cuore nuovo.
Con lo sciopero dei Cantieri Lenin, la trattativa con il governo e il primo sindacato libero in un Paese del blocco comunista, la storia cominciava a cambiare. E il mondo non sarebbe stato più lo stesso.
«Quando, finito lo sciopero, uscii dai cantieri navali una folla di persone davanti al cancello scandiva salutando gli operai: ‘Grazie, grazie!’. Alle mie spalle ho colto al volo il dialogo tra due di loro. Uno diceva: ‘Siamo liberi finalmente’. E l’altro: ‘Cosa dici! Liberi lo eravamo là dentro’, indicando il cancello spalancato dei cantieri» (Krystyna Jagiello, giornalista).
«Tagliammo una grande croce di legno, poi mettemmo un altare provvisorio su un rimorchio. Iniziata la messa, un’enorme massa di uomini in tuta si alzò in piedi e prese a cantare a voce alta. Avevo un groppo alla gola. Come avremmo mai immaginato di poter vivere una simile esperienza dentro i cantieri?» (Bernard Pogorzelski, operaio).
«Mi recai ai cantieri in tram, avevo sentito le sirene e mi ero reso conto che lo sciopero era già cominciato. La gente era ammassata al cancello n.2, ma gli uomini della sicurezza controllavano i pass, e a me era stato negato l’accesso. Girai a destra, in direzione del cancello n. 1; c’era una stradina laterale. Andai lì e saltai oltre il muro di cinta. Fu il più gran salto della mia vita…» (Lech Walesa).
«Quella folla davanti ai cancelli del cantiere era come uno scudo di protezione: i cancelli non dividevano la gente, la univano» (Wojciech Adamiecki, scrittore).
LA MOSTRA. L’OMAGGIO FOTOGRAFICO DEL MEETING
Nell’agosto del 1980 si teneva la prima edizione del Meeting di Rimini e tutti i partecipanti ebbero la chiara percezione che quanto stava succedendo sulle rive del Baltico li toccasse da vicino. A 30 anni di distanza il Meeting rende omaggio a Solidarnosc con una mostra di foto, video e racconti che delinea l’eroica esperienza del libero sindacato polacco. Per gentile concessione degli organizzatori pubblichiamo in questa pagina alcune immagini della mostra, realizzate dal fotografo Chris Niedenthal.