La Croce quotidiano 31 maggio 2016
Il suo studio più largamente riconosciuto fu quello sulla storia e sulla storiografia del fascismo: da studioso di sinistra, e ancora nel pieno di anni ideologizzati, riuscì ad esercitare un giudizio razionale e complessivo. Indipendente e serio, non ha ancora visto il suo Paese rendergli i dovuti onori
Giuseppe Brienza
Sono passati vent’anni dalla morte, il 25 maggio 1996, dell’insigne storico Renzo De Felice, la cui figura ed opera dovrebbe avere un maggiore spazio nei curricula degli studi superiori e universitari oltre che nella memoria pubblica del nostro Paese. E invece, per il suo essere andato, dopo l’abiura del comunismo, “contro i falsi miti del Progresso”, De Felice si aggiunge alla lista dei “martiri italiani della cultura”. Non fu ucciso fisicamente, per carità, ma dal punto di vista della vita personale e professionale (oltre che per la damnatio memoriae che ancora in parte dura), non se l’è passata di certo bene.
Le polemiche acerbe del Potere culturale, le contestazioni e i dispiaceri di chi per ignavia lo ha “tradito” o mancato di difendere, ne hanno minato infatti la già precaria salute e gli hanno causato la morte prematura quando aveva appena 67 anni e quando avrebbe potuto dare ancora moltissimo alla scienza storica ed alla cultura italiana. Addirittura, come ha testimoniato un suo ex allievo, «nel febbraio del 1996, ignoti figuri lanciarono una bomba incendiaria contro la sua abitazione causando, per fortuna, solo pochi danni mentre lo storico lottava con la morte che avverrà il 25 maggio» (Lino Di Stefano, Ricordo di un maestro: a venti anni dalla morte di Renzo De Felice, in “Il Giornale di Rieti”, 23 maggio 2016).
Ma un dato positivo di oggi va ricordato. Va reso omaggio, infatti, alla televisione pubblica italiana che, proprio il 25 maggio, ha mandato in onda sul canale “Rai Storia”, una pregevole puntata della trasmissione “Il Giorno e la Storia” tutta dedicata a lui.
Renzo De Felice nacque l’8 aprile 1929 a Rieti, figlio unico di Vittorio e Giuseppina Bonelli. La madre era originaria di San Marino, il padre, un funzionario delle dogane, era stato volontario e ufficiale di complemento nella Grande guerra, da cui gli rimase una grave invalidità permanente causata dai gas, e di nuovo volontario nella seconda guerra mondiale.
Dopo essersi iscritto all’università “La Sapienza” di Roma, «considerandosi marxista» come ebbe a rievocare più tardi, cominciò subito un’accesa militanza politica nel Partito comunista italiano. Partecipò a scontri con studenti neofascisti, nel 1950 fu fermato dalla Questura di Roma nel corso di una manifestazione contro la bomba atomica e, nel giugno 1952, fu arrestato per alcuni giorni in occasione di una contestazione organizzata dal PCI in occasione della visita a Roma del generale americano Matthew Ridgway, comandante delle forze NATO (North Atlantic Treaty Organization) in Europa.
Si laureò in lettere nel 1954 discutendo una tesi dal titolo “Correnti di pensiero politico nella prima repubblica romana”, preparata sotto la guida dello storico liberale Federico Chabod. Ancor prima di laurearsi, su invito dello stesso studioso crociano, pubblicò il suo primo saggio, “Gli ebrei nella Repubblica romana del 1798-99” (in “Rassegna storica del Risorgimento”, anno XL, Roma 1953, pp. 327-356). L’ebraismo e la Rivoluzione francese furono i primi temi storici studiati da De Felice, ai quali si dedicò nelle pubblicazioni giovanili.
Nel 1956, in seguito alla pubblicazione del rapporto Chruščëv sui crimini dello stalinismo e alla repressione sovietica dei moti popolari in Ungheria, De Felice uscì dal PCI con altri intellettuali, e rinunciò definitivamente alla militanza politica, pur collocandosi in un’area socialista democratica.
Nel 1959 sposò Livia De Ruggiero, figlia dello storico della filosofia Guido. L’erudito, editore e storico della religione Don Giuseppe De Luca celebrò il loro matrimonio, esercitando in seguito notevole influenza culturale su De Felice, oltre a essere l’editore dei suoi primi libri pubblicati nel 1960: “Note e ricerche sugli ‘illuminati’ e il misticismo rivoluzionario 1789-1800” e “La vendita dei beni nazionali nella Repubblica romana del 1798-99”, pubblicati entrambi nelle “Edizioni di Storia e Letteratura”, dirette appunto dal noto sacerdote romano.
In questi ed i successivi studi lo storico reatino ebbe il merito di polemizzare contro la vulgata che rappresentava il giacobinismo come un movimento idealistico, cogliendone invece l’espressione totalitaria di radicale movimento armato del democraticismo, animato da una fede nella rivoluzione come totale rigenerazione del genere umano, mosso da un fervore pseudo-religioso tendente a istituire un nuovo “culto laico”, attraverso il terrore e la massiva propaganda ideologica presso il popolo.
Già questi suoi primi esordi costarono negli anni Sessanta a De Felice il definitivo ostracismo degli ambienti culturali e politici comunisti e filo-comunisti. Questo gli creò naturalmente grosse difficoltà nell’avvio della sua carriera accademica. Dovette aspettare infatti il 1968 per vincere il concorso a professore ordinario di storia contemporanea ma, allora, fu chiamato all’Istituto universitario di Magistero a Salerno. Solo l’anno successivo, nel 1969, poté tornare a Roma per assumere l’incarico di “Storia dei partiti politici” nella facoltà di Lettere della Sapienza, insegnamento di cui divenne titolare però solo nel 1971.
Rimase stabilmente all’università di Roma nei decenni successivi, chiedendo nel 1979 il trasferimento alla cattedra di “Storia dei partiti e movimenti politici” a Scienze politiche, passando definitivamente nel 1986 all’insegnamento di “Storia contemporanea” (chi scrive, allora giovane studente a di questa facoltà, può testimoniare che, anche dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, la stanza di lavoro di De Felice nell’Ateneo romano è sempre stata la più risicata e scadente dal punto di vista “logistico”).
Come docente universitario, De Felice fu generoso nell’aiutare i giovani studiosi che riteneva più meritevoli, promuovendo la pubblicazione delle loro opere e seguendoli nella loro carriera accademica. Nel 1970, inoltre, fondò la rivista “Storia contemporanea”, che diresse per quasi trent’anni, fino alla morte.
Il più grande merito di De Felice, sul quale non ci soffermiamo perché per fortuna è ormai universalmente riconosciuto, è il suo contributo unico sulla storia e storiografia sul fascismo. Fin dal 1960, da giovane storico di sinistra (non comunista), si era fatto notare per il suo giudizio contro-corrente circa la vulgata liberal-cattolica-comunista sul fascismo italiano, definita «balbettante e ancorata a formulette e giudizi spesso solo politici e moralistici».
La storia che del regime mussoliniano “predicava” (e in parte ancora predica) la vulgata anti-fascista, infatti, era incapace secondo De Felice di far comprendere quanto «la realtà di questo fenomeno storico sia veramente prismatica e vada studiata e giudicata in tutte le sue componenti e non intesa come qualcosa di unitario». Per questo, lo storico reatino auspicò (e poi realizzò con gli otto tomi della monumentale biografia di Mussolini – il primo uscito nel 1965 -) una nuova storia e storiografia in grado di porre «la valutazione storica del fascismo su basi nuove e più rigorose» (queste e le precedenti citazioni sono tratte dalla sua voce “Fascismo”, pubblicata nella rivista “Il Nuovo osservatore”, novembre 1960, pp. 39-40).
La biografia mussoliniana di De Felice è un’opera che ha pochi riscontri nella storiografia italiana e internazionale per la mole (6284 pagine), per la quantità di documenti inediti sui quali si basa, reperiti in archivi pubblici e privati e, infine, per l’ampiezza dei temi trattati, che vanno oltre la vita del “Duce” per abbracciare la storia del fascismo europeo e internazionale e degli italiani nel periodo che va fra le due guerre (ma anche oltre). Personalmente, credo che uno degli aspetti poco indagati in questa opera fenomenale sia stato il poco spazio dedicato alle politiche familiari del fascismo e l’aspetto personale della conversione al cattolicesimo di Mussolini negli ultimi anni della sua vita.
Renzo De Felice ha lasciato una importante scuola formata da numerosi allievi i quali stanno continuando brillantemente la lezione del maestro, fra i quali vanno annoverati fra gli altri Francesco Perfetti, che è anche noto giornalista e divulgatore storico, ed Emilio Gentile. Proprio quest’ultimo, in una recente rievocazione, ha messo in luce uno degli aspetti che maggiormente rimangono dell’eredità defeliciano. «Ai riflettori della TV preferiva la penombra degli archivi», ha detto del suo maestro e, forse per questo, nell’Italia di oggi, proprio questo atteggiamento libero ed anticonformista gli ha provocato non pochi dolori ed amarezze.