Si è finalmente sgretolata la granitica (e mistificante) storiografia comunista sulla Liberazione. E pure l’antirevisionismo perde colpi. Che sia giunta l’ora di Bad Godesberg
di Ugo Finetti
Questo sesto decennale della Liberazione sta segnando anche da noi l’inizio del declino di quella che era stata l’interpretazione prevalente della Resistenza nel segno cioè della lettura classista della storia del Novecento come teatro di scontro tra capitalismo reazionario e movimento operaio, tra forze della conservazione a deriva fascista e schieramento democratico imperniato sul movimento operaio.
Ancora nel recente passato – con Luigi Berlinguer ministro della Pubblica istruzione e Luciano Violante presidente della Camera – le celebrazioni avevano avuto tra i momenti più solenni un convegno dell’aprile del 1998 presieduto dal leader dell’Anpi Arrigo Boldrini (il “leggendario” comandante partigiano comunista “Bulow”) e con la partecipazione del “gotha” dell’antifascismo accademico da Enzo Collotti a Claudio Pavone in cui veniva irrisa la lettura defeliciana non marxista: «La soluzione di Renzo De Felice è geniale: la cancellazione di tutti gli studi esistenti che non siano di matrice fascista, rifiutati appunto come “vulgata resistenziale”: un modo di procedere brutalmente politico e di stile fascista». Allo storico reatino era poi dedicata un’apposita requisitoria – Il ruolo di Renzo De Felice di Gianpasquale Santomassimo – in cui si spiegava che la polemica di De Felice contro «la storiografia di ispirazione antifascista» che fa capo all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione italiano (Insmli) è responsabile del «montare di un astio e di un rancore verso la tradizione antifascista» e quindi di una «rivisitazione benevola e giustificativa del fascismo».
L’attacco comunista-postcomunista a De Felice durava già da più decenni e nemmeno la morte (sopravvenuta due anni prima) lo aveva attenuato. La scomunica di De Felice da parte della “comunità scientifica” risale infatti al trentennale della Resistenza quando nell’aprile del 1975 l’organo ufficiale dell’Insmli, Italia contemporanea, pubblica un editoriale-manifesto che accomuna De Felice al movimento promosso da Edgardo Sogno: «Una storiografia afascista per la “maggioranza silenziosa”».
Una storiografia non schierata, non militante, non éngagé, non intruppata era “afascista” per cui “fascista”. L’editoriale è firmato Claudio Pavone, Guido Quazza, Ernesto Ragionieri, Enzo Santarelli, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Massimo Legnani. Per loro De Felice è su «posizioni qualunquistiche» che «finiscono per diventare oggettivamente filofasciste» e che «in ogni caso esercitano una funzione diseducativa».
In sostanza il male di cui è responsabile De Felice è solo di contrapporsi alla “storiografia antifascista”. Il modo di fare storia di De Felice essendo al di fuori del marxismo si traduce in una lettura «tendente a spogliare il fascismo dei suoi tratti di reazione di classe». Secondo l’editoriale di Italia contemporanea la ricerca di De Felice si caratterizza «essenzialmente sotto il segno dell’eclettismo», per «sociologismo» e «psicologismo», «mancanza di solide radici e scelte culturali».
Perdendo l’ancoraggio classista il risultato è «una sorta di deteriore neo-empirismo e neopositivismo, tutto nutrito di fatti e di documenti». La metodologia di De Felice è pertanto «avalutativa, accomodante, fatta soprattutto di accumulazione di fatti e di materiali che schiacciano il lettore».
Il poker d’assi di Longo
Quel trentennale nel ’75 segnò “la presa del potere” da parte della storiografia marxista. Nei decennali precedenti la Resistenza era stata variamente celebrata e studiata, ma non si giunse mai a posizioni tanto estremistiche. Ad esempio: i Cln fino ad allora erano stati mitizzati, mentre nel ’75 – sull’onda del “revisionismo-rivoluzionario” del Sessantotto – vengono presentati come lontani dalle masse, entità matrigne e frenanti.
Mentre negli anni Sessanta il PCI di Togliatti e Amendola brandiva la Resistenza per sostenere il ritorno all’unità antifascista, al tripartito del ’46-‘47, una maggioranza cioè tra i “partiti di massa” (comunisti, socialisti e democristiani), ora di fronte alla contestazione del ’68 avviene la “svolta”.
Longo che è succeduto a Togliatti emargina Amendola, l’“unità antifascista” dei partiti diventa un “freno” e si guarda ai movimenti nel segno della lotta rivoluzionaria: Longo si sposta a sinistra, incontra un gruppo di contestatori capitanati da Oreste Scalzone, chiede il loro voto – la “scheda rossa” – per le elezioni del maggio 1968 e in seguito conierà per il trentennale del ’75 l’espressione “Resistenza tradita”.
Si legge quindi la Resistenza italiana come lotta imperniata sui comunisti contro un “poker d’assi” (secondo una definizione di Roberto Battaglia). E cioè i nemici dei partigiani furono i nazisti e i fascisti, ma anche gli anglo-americani e la “destra” del CLN (democristiani, liberali e sinistra non filocomunista).
Questa lettura della Resistenza crebbe dal ’68 fino a imporsi negli anni ’70. Ancora negli anni ’90 la storiografia dominante trae radici da quel periodo di dominio incontrastato del pensiero marxista e dà vita a un’egemonia che non è frutto di complotti, ma di lavoro tradottosi poi in un fronte ideologico commerciale basato sulle strutture di ricerca e didattica.
La presa del potere sanzionata nel Trentennale avviene nel quadro della creazione di una serie di cattedre universitarie all’interno dei nascenti corsi di laurea in storia contemporanea. Questa ramificazione accademica si specchia in quella editoriale. Alla isolata Storia Contemporanea di De Felice si contrappongono la Rivista di Storia Contemporanea di Quazza e Salvadori, la trasformazione della rivista dell’Insmli Il movimento di liberazione in Italia in una testata rinnovata, come Italia contemporanea, mentre la rivista dell’Istituto Gramsci, Studi storici, creata da Mario Alicata nel 1959 viene ristrutturata e rilanciata affiancando i “giovani” Paggi e Lanaro a Ragionieri, Procacci, Villari e Manacorda e si apre ai temi della storia contemporanea.
Fondamentale in questo quadro è la concentrazione archivistica che vien fatta sui materiali della Resistenza scavalcando gli istituti statali sempre più imbalsamati (privi dei più elementari strumenti di catalogazione e di accesso) a favore delle fondazioni Feltrinelli di Milano e Gramsci di Roma. Ricerca e didattica hanno come sbocco le collane editoriali dedicate alla storia che in quegli anni sono rivolte soprattutto al pubblico scolastico-universitario: “l’Universale” Laterza, la “Piccola Biblioteca Storica Einaudi” e la “Biblioteca di Storia Contemporanea” Feltrinelli.
Il compito di Einaudi
Generale e condiviso è l’atteggiamento di ostracismo non solo nei confronti della tradizione liberale crociana, ma anche verso l’esperienza della Scuola degli “Annales” e le correnti cosiddette “sociologizzanti e americaneggianti”. Si studia e si imposta pertanto il rapporto tra “storiografia comunista” e “storiografia marxista”: cioè a) tra storia economica e storia politica, b) storia contemporanea e storia del movimento operaio, c) storia del PCI e storia d’Italia, d) storia dello Stato unitario italiano e Storia dell’imperialismo.
In tale contesto prende corpo il progetto della Storia d’Italia della Einaudi che secondo Leonardo Paggi avrà il compito di «una risistemazione istituzionale di tutto il complesso delle nostre conoscenze storiche, a partire dalla caduta dell’impero romano».
Dopo l’“inchiesta” sugli studi storici condotta nel 1971 dal settimanale del PCI Rinascita, nel 1973 dalle stesse colonne si apre il dibattito tra quegli storici i cui testi sulla Resistenza sono considerati nei manuali scolastici ancora oggi al di sopra delle parti. Un dibattito da ricordare. La storiografia marxista infatti secondo Rosario Villari è quella che «ha saputo meglio spaziare dalla storia antica a quella contemporanea».
Grazie a quella che viene definita «la spinta egemonica della cultura marxista» è stato possibile «difendersi dai tentativi di porre sotto il segno dello “stalinismo” (tra virgolette, ndr) una parte troppo grande del passato del Partito (il PCI, ndr) e dell’attività dei suoi organi dirigenti dal 1926 al 1933». E si conclude:«Lo sforzo di assimilazione della metodologia marxista caratterizza oggi – comunque – una parte importante che non esiterei a definire la più viva, della storiografia italiana».
Per Ernesto Ragionieri, patriarca della storiografia antifascista, «fuori dal marxismo – senza fare i conti con Gramsci – non si fa in Italia opera seria di cultura storica».
S’impone così una storiografia che nel segno di «una visione sempre il più possibile internazionale – spiega Enzo Santarelli – lega la Comune di Parigi alla tregua nel Viet Nam del 1973».
E Franco De Felice (non Renzo, ma il futuro inventore della teoria del “doppio Stato” e cioè del terrorismo di Stato contro il PCI) spiega che «la Terza Internazionale (il Comintern, ndr) costituisce il primo grande esperimento di interpretazione collettiva dei fenomeni del Mondo, un laboratorio analitico di eccezionale importanza».
È proprio da qui che trae origine quella che Renzo De Felice avrebbe definito nel 1995 con sprezzante bonomia nel libro intervista di Pasquale Chessa (Rosso e nero) la “vulgata della Resistenza”. In che senso? Nel senso che si studia la storia in funzione immediatamente strumentale guardando alle finalità della lotta politica contemporanea.
«La formula passato e presente – come ribadisce ancora nel 2001 Fiamma Lussana su Studi Storici – è destinata a sovvertire il vecchio sistema cronologico… Contemporaneo è ogni evento dell’oggi cui viene attribuito senso scavando sulle sue origini remote: si afferma un modello interpretativo che rende possibile un collegamento fra eventi cronologicamente lontani, ma culturalmente affini». E quindi: «La linearità consequenziale degli eventi storici non basta più a far luce sul presente: comprendere un evento contemporaneo vuol dire spiegare la sua genealogia procedendo a ritroso nel tempo». Abbiamo così il parto di una storiografia nel segno della cosiddetta “Nuova contemporaneità” che «spiega il presente attraverso il Passato». È così che il «Paradigma antifascista – prosegue la Lussana – rappresenta un vero e proprio agente di trasformazione sociale in tutto il Novecento fino ai nostri giorni». Pertanto, come osservava ultimamente Claudio Pavone, «la storiografia migliore è quella che non considera una parentesi l’antifascismo e si oppone a ritenerlo concluso ancora oggi»
Ma qual è stata la conseguenza di questo predominio storiografico? Due punti fermi: 1) l’espulsione dell’anticomunismo dall’antifascismo: ciò che si oppone al comunismo è dichiaratamente dalla parte dei nemici dell’avanguardia della classe operaia, e quindi è contro la classe operaia, e quindi indebolisce il movimento di massa in lotta per la sopravvivenza della democrazia contro il fascismo; 2) il fascismo non è un capitolo chiuso, ma è tema attuale di lotta politica, come categoria non ha limiti di tempo e di spazio, riguarda tutto il pianeta ed è un pericolo permanente.
Rispetto a Stalin c’è un cambiamento fondamentale. Mentre Stalin considerava il fascismo “uno stadio” dello sviluppo della borghesia, dopo la destalinizzazione soprattutto con Berlinguer che teorizza il “compromesso storico” e anche nelle formulazioni sullo “spessore reazionario” della società italiana da parte dell’esponente più moderato del PCI, Giorgio Amendola, il fascismo è inteso non più come “stadio”, bensì come “pericolo sempre incombente”, come “vocazione naturale” della borghesia italiana.
L’espulsione dell’anticomunismo dal panorama democratico e l’assunzione del fascismo come pericolo sempre attuale sono i capisaldi della lettura, rievocazione e celebrazione della Resistenza inventata dal PCI.
Per questo motivo i veri leader della Resistenza (il capo politico, Alfredo Pizzoni, presidente del CLNAI e il capo militare, il generale Raffaele Cadorna, capo del Corpo Volontari della libertà a cui facevano capo le brigate partigiane di vario colore) insieme agli artefici della lotta clandestina come il colonnello Montezemolo, sono oggi pressoché sconosciuti agli italiani; per questo motivo i 35.000 militari italiani morti in combattimento contro i tedeschi e i 78.000 che hanno perso la vita nei lager nazisti, dove furono internati i 600.000 che rifiutarono di schierarsi con i tedeschi, sono stati cancellati e gli anglo-americani che hanno liberato l’Italia vengono ricordati come gli importatori della Mafia.
Il tramonto degli anti
È prevalsa la lettura che propaganda l’eccezione d’infamia su chi non è stato comunista ovvero come ha sostenuto Giorgio Rochat: «La sottolineatura della continuità della società e della politica italiana da Giolitti a De Gasperi attraverso Mussolini: una continuità tra scelte moderate e nazionaliste in cui la resistenza rappresenta un momento di rottura democratica».
Si tratta però di una lettura ormai sul viale del tramonto. La polemica contro il “revisionismo” infatti rispecchia la rabbia di fronte al venir meno dell’architettura secondo cui il fascismo è un pericolo attuale, è una categoria da usare nella lotta politica quotidiana.
Ciò di cui si lamentano gli antirevisionisti non è la riabilitazione del fascismo, bensì la condanna del comunismo e la riabilitazione dell’anticomunismo democratico. In questo sesto decennale della Resistenza si moltiplicano le ricerche volte a riscoprire quella realtà. Tra le tante opere : la biografia di Alfredo Pizzoni (Il banchiere della Resistenza) di Tommaso Piffer, la ricostruzione della vicenda della Repubblica partigiana di Montefiorino di Ermanno Gorrieri (Ritorno a Montefiorino), 25 aprile di Roberto Chiarini e Soldati di Carlo Vallauri.
Soprattutto il libro di Gorrieri è illuminante. Gorrieri come partigiano cattolico partecipò in prima persona all’esperienza della lotta partigiana nel Modenese e alle vicende legate alla Repubblica di Montefiorino. Il suo libro nasce addirittura in aperta polemica con Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa. Perché il sangue versato dai comunisti non fu soltanto quello dei vinti: le vittime dei comunisti furono in gran parte non i fascisti, ma civili non schierati con il fascismo e partigiani di estrazione non comunista.
Gorrieri osserva appunto che «l’esaltazione acritica della Resistenza ne ha danneggiato l’immagine più della critica degli avversari». «Il nemico era comune – dice Gorrieri rievocando la lotta condotta con i partigiani comunisti – e si combatteva fianco a fianco. Ma le prospettive per il futuro che la Resistenza doveva preparare erano diverse: un regime democratico per gli uni, la conquista rivoluzionaria del potere per gli altri.
Non meno profonde erano le divergenze sui metodi di lotta: senza esclusione di colpi da parte dei comunisti, con maggiore attenzione, da parte degli altri, alle ripercussioni sulla popolazione e al giudizio che questa poteva farsi della nuova società proposta dai partigiani». Si sviluppò da parte del Pci una sorta di “Resistenza parallela” indipendentemente dal CLN.
E così Gorrieri riassume gli sviluppi: «La fine della guerra ebbe un seguito di intimidazioni, di violenze, di eccidi, da cui derivò un clima che si può definire “prerivoluzionario”». E precisa a proposito delle centinaia di persone ammazzate in quella zona dai comunisti a Resistenza conclusa: «Un’alta percentuale delle vittime non aveva precedenti fascisti: fra loro preti, democristiani, compresi due ex partigiani, proprietari agricoli, persone di particolare posizione sociale».
Quando si cominciò a dibattere sugli episodi di “Resistenza parallela” del PCI, Massimo D’Alema in un’intervista dell’8 settembre 1990 giudicava «mostruoso, aberrante, segno d’incultura e d’imbarbarimento la pretesa – tuonava – di processare il partito e la sua storia»; e aggiungeva:«Tra di noi non c’è vergogna del passato». «La svolta della Bolognina – scrive Gorrieri – c’era già stata da un anno, il congresso del PCI del marzo 1990 aveva già deliberato di “dar vita ad un nuovo partito di sinistra”».
Massimo D’Alema «scelse invece di definire “processo” qualsiasi riflessione critica sulla storia del PCI». Ed è quindi in modo amaro che Gorrieri (venuto a mancare nel 2004) sottolinea come ancora nell’aprile del 1998 il periodico dell’Anpi, Resistenza oggi commemorava un assassino come «intrepido combattente della libertà, vittima delle persecuzioni antipartigiane».
In realtà il panorama di questo sesto decennale non è più quello di una celebrazione mistificante. E le reazioni antirevisioniste sono oggi modeste. Esse si concentrano in tre interventi: la riedizione di Luciano Canfora del proprio libro, La sentenza, sull’uccisione di Gentile, il pamphlet di Sergio Luzzatto su La crisi dell’antifascismo e Cefalonia di Gian Enrico Rusconi.
E non si va molto lontano. Rusconi cerca di giustificare l’oblio di Cefalonia sostenendo che in definitiva si trattava solo di militari che volevano smettere di fare la guerra e tornare a casa. E anche se fosse così? Che cosa stava alla base della scelta di andare in montagna nella gran parte dei giovani se non il desiderio di sottrarsi alla leva obbligatoria di Graziani?
Ma la verità è che Cefalonia fu la più grande battaglia condotta in campo aperto dagli italiani contro i tedeschi con 1.250 morti, 5.155 trucidati dopo la resa, 2.966 annegati e altri 600 fatti morire nei lager. Nel complesso i militari e i partigiani presentano un tragico bilancio in cui le perdite si equivalgono: circa 35.000 in ognuno dei due “eserciti” in lotta contro i tedeschi e ciò aggrava il modo in cui la storiografia dominante ha voluto cancellare il ruolo dei militari che “fondarono” la Resistenza all’indomani dell’8 settembre 1943.
Luzzatto lamenta invece il venir meno dei sentimenti antifascisti quando quel che ha di fronte non è la rimessa in discussione del giudizio sul fascismo, ma di quello sul comunismo e, di conseguenza, il rifiuto di usare il termine fascista nella lotta parlamentare di oggi. Infine con Canfora abbiamo l’invenzione di un complotto di fascisti e inglesi contro Gentile. Il complottismo di Canfora è comunque un passo avanti.
Se in certi manuali scolastici sulla scorta del saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile, ancora si esalta l’assassinio di Gentile, almeno qui si comincia a prenderne le distanze e nel disperato tentativo di scagionare Togliatti si tradisce un po’ di orrore su un atto terroristico che fu all’epoca bollato come “assassinio” dagli altri due partiti di sinistra del Cln: il Partito d’Azione con Tristano Codignola e il Partito socialista con Pietro Nenni.
La Bad Godesberg della Resistenza italiana è ormai iniziata.