da Il Borghese n. 30 del 1998.
Marcello Veneziani
Bertold Brecht ha scritto molte oscene idiozie. Ma una più di tutte, quando ha detto “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”. Il popolo, ogni popolo, ha bisogno di eroi. Anche i regimi che amava il drammaturgo marxista hanno fatto ricorso a saghe eroiche, a icone di eroi. Stalin sopra tutti.
La lista è lunga e non è ancora spenta: pensate a Che Guevara. E quando gli eroi sono vietati, i popoli li adottano clandestinamente, ricorrono agli anti eroi, o addirittura li prendono a noleggio dagli altri popoli o da altri pianeti. Come quello della fantasia, della fiction, della letteratura. Da John Wayne a Dylan Dog. Noi italiani, per esempio, da mezzo secolo li prendiamo in affitto da altri popoli o da altri mondi.
Salve o popolo di eroi, cantava un po’ esagerando una generazione di italiani che visse sotto il fascismo (per la verità alcuni vissero sopra il fascismo, e poi magari sopra l’antifascismo; ma questa è un’altra storia). Ma non esistono popoli di eroi. L’eroe è sempre un’eccezione, un modello che torreggia sugli altri. Ci sono popoli che hanno generato più eroi di altri. Ci sono popoli fieri e popoli che non lo sono. Ci sono popoli guerrieri e popoli più commercianti, anche se non sono mancati popoli guerrieri e commercianti. Ma gli eroi sono una rarità.
L’eroe è sempre stato un ponte tra i popoli e gli dei, tra la terra e il paradiso, tra i vivi e i morti, tra i padri e i figli. L’eroe è un anello di congiunzione. Gli eroi riannodano le generazioni, la memoria storica, la voglia di avvenire e il culto del passato. Ma riannodano anche i legami tra terra e cielo: gli eroi sono semidei, come Achille, o conducono nel Walhalla, nel Paradiso, nel giardino di Allah. Godono l’apoteosi della mors triumphalis o del carro trionfale, nell’antica Roma. La loro nobiltà non è data dall’esito; l’eroe vinto desta ammirazione quanto l’eroe vincente, con un filo di nobiltà in più. Soprattutto se sapeva in partenza di combattere per una causa perduta.
In loro il popolo vede i messaggeri del sacro. Come i sacerdoti, come il pontifex dell’antichità: non c’è comunità, non c’è popolo che non riconosca padri comuni, eroi e martiri. Anche le democrazie, come gli antichi imperi, raccolgono i loro valori condivisi intorno alla celebrazione dei padri fondatori e degli eroi. Non c’è atto di fondazione che non regga sul culto degli eroi.
Persino la nostra Repubblica, sorta sulle rovine della morte della Patria, cresciuta nel servilismo internazionale e nel patriottismo delle patrie altrui, allergica all’eroismo per definizione, riconosce il suo atto di fondazione in quelli che vengono ancora chiamati “gli eroi della Resistenza”. Si ribellavano alla retorica fascista sugli eroi; ma per dare nobiltà d’origine e comune sentire, hanno dovuto costruire un po’ artificiosamente un’altra retorica sugli eroi dell’antifascismo. Non meno indigesta, anzi di più perché fuori dal suo habitat naturale e culturale. L’epica della Resistenza, celebrata da comunisti, socialisti e azionisti, era in assoluto ciò che più somigliava all’epica fascista.
Ma anche la letteratura è nata all’ombra degli eroi. Omero e Pindaro, ma anche la Chanson de geste e Cid campendo, Lancillotto e Re Artù, attingono alle saghe degli eroi. Un archetipo che il cinema, la tivù, il fumetto, lo sport, persino i video hanno ereditato. Non c’è racconto senza eroi. Gira e rigira, ogni società ruota attorno a tre figure: il saggio, il santo e l’eroe. Poi ci sono i surrogati, a volte stomachevoli, o le simulazioni; ma quei tre tipi ideali sono i prototipi dell’eccellenza. A differenza dell’Anarca, l’Eroe non è mai isolato; può agire in solitudine, può lottare contro masse, può stagliarsi in solitudine come il Cavaliere del Graal, ma è sempre organico a un popolo, è un modello pubblico che appartiene a noi, combatte anche per noi, vive e muore anche per noi.
Anche il giovane Jan Palach, nell’agosto di trent’anni fa, affrontò da solo la morte bruciandosi davanti ai carri armati sovietici che invadevano Praga. Ma quel gesto solitario fu esempio, paradigma e simbolo di una rivolta e di un amor di Patria e di libertà largamente condiviso. Gli eroi parlano agli altri e per gli altri anche quando sono muti e solitari. E sono simboli anche se non hanno nome e volto: il Milite Ignoto è l’espressione dell’Eroe Impersonale. E collettivo.
Per questo io dico che abbiamo ancora bisogno di eroi; e se non ci sono ce li fabbrichiamo, anche con materiali scadenti.
Gli eroi dei nostri anni non vanno con la spada e il cavallo; a volte sono soldati in prima linea contro la mafia, la criminalità, l’ingiustizia. A volte sono giornalisti che hanno scontato sulla pelle i loro reportage o hanno scritto libri con il proprio sangue. A volte sono i giovani che hanno giocato la bellezza dei loro vent’anni nella testimonianza di un’idea, nella fedeltà a una consegna, a un compito, a una missione. Ricordo alla rinfusa alcuni nomi; Paolo Borsellino, Vincenzo Muccioli, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giancarlo Siani, Sergio Ramelli, Padre Rastrelli, Gianfranco Paglia, l’ultima medaglia d’oro ancora in vita anche se immobilizzato. Ho citato solo italiani e contemporanei, gente dei nostri giorni, dei nostri anni. Altri ne ho dimenticati o semplicemente non li conosciamo. Ma gli eroi ci sono.
Beato un popolo che riconosce di aver bisogno di eroi. E li onora come Dio comanda.