Chiesa e culture

Litterae Communionis Anno VII – Ottobre 1980

EVANGELIZZAZIONE E POPOLI EMERGENTI

«La Chiesa vive della verità sull’uomo che le permette di pensare  con particolare amore e sollecitudine a tutto ciò che, nelle dimensioni della storia, incide sulla vita e sullo spirito dell’uomo» (Giovanni Paolo II)

Piero Gheddo

(direttore di Mondo e Missione)

«Se si chiederà ad uno storico del futuro di descrivere la caratteristica centrale della nostra epoca, egli non metterà in primo piano né i capovolgimenti sociali e politici, né le guerre o le catastrofi di cui parlano oggi le prime pagine dei giornali. Ma parlerà della realizzazione progressiva dell’unità umana, attraverso l’incontro e l’integrazione vicendevole delle culture».

Così diceva uno dei più grandi pensatori e filosofi del nostro tempo, il Presidente dell’India Sarvepalli Radhakrishnan, ad un incontro organizzato dall’UNESCO nel 1960. L’ultimo ventennio non ha fatto che confermare la giustezza di questa previsione profetica: il mondo sta camminando verso l’unità delle idee, verso l’integrazione culturale, anche se i contrasti e gli scontri possono a volte far temere il contrario.

Il tema «Chiesa e culture» è affascinante, perché pone a noi cristiani una sfida formidabile: secondo Arnold Toynbee, che ha dedicato tutta la sua opera a dimostrare questo assunto, l’incontro fra i mondi culturali dell’umanità sarà uno scontro disastroso se non interverrà la mediazione religiosa, e in particolare del cristianesimo, a far superare le divergenze e le difficoltà.

La missione della Chiesa, che è di ordine religioso (G.S., 42), ha anche un’innegabile e formidabile incidenza culturale. Le pagine che seguono vogliono appunto studiare, in modo necessariamente sintetico, l’influsso culturale che la Chiesa, il cristianesimo, hanno sulle culture dei popoli emergenti (cioè non cristiani).

Il discorso sulla presenza culturale della Chiesa in Asia ed Africa può anche correggere una certa visione distorta della missione, quasi che la sua efficacia si misurasse solo in termini di «conversioni», di «statistiche» sul numero dei cattolici battezzati: per cui si dice a volte, e anche si scrive sulla stampa missionaria, che la Chiesa ha avuto «successo» in Zaire ad esempio, o in Uganda, perché più del 40% degli abitanti sono battezzati; mentre non ha avuto «successo» in India o in Giappone, dove i cattolici sono appena l’1,5% e lo 0,4% …

Se la cultura, se la società giapponese, per ipotesi, risulta più vicina al modello evangelico di quella dello Zaire o dell’Uganda (e io personalmente credo che sia così), ciò significa che oltre al criterio delle «statistiche» c’è qualche altro criterio di giudizio sulla missione, che ha una sua validità. Appunto il criterio dell’influsso culturale.

La cultura concezione totale della vita

Cominciamo dal termine «cultura», a cui diamo normalmente due significati:

1 ) in senso umanistico, diciamo che un uomo ha cultura, è colto, quando è istruito, sa molte cose, ha fatto studi superiori, ecc.

2) In senso antropologico invece, qualsiasi uomo appartiene ad una determinata «cultura», cioè a «quella totalità complessa che abbraccia nozioni, credenze, arti, costumi, abitudini e tutti gli altri tipi di capacità e costanti attività che sono proprie dell’uomo in quanto membro della società» (1).

In questo senso antropologico, come noi la usiamo, la parola «cultura» non si oppone ad «ignoranza» ma a «natura». Cioè l’uomo, quando nasce, ha la natura umana che è uguale per tutti, in Italia come in Cina o in Africa. Però, fin dalla nascita subisce un processo di «inculturazione», cioè entra a far parte di una «cultura» umana, di un determinato popolo, e contribuisce a svilupparla: impara una lingua, a comportarsi in un certo modo, a credere in una religione, ad apprendere delle tecniche anche rudimentali, ecc.

Tutto ciò fa sì che un bambino nato in India, mentre è uguale per natura ad un bambino nato in Italia (ci può essere differente colorazione di pelle, ma è un fatto del tutto secondario, come il colore dei capelli o degli occhi), ne diventa progressivamente molto diverso per «cultura».

Il modo di mangiare, ad esempio (con le mani o con i bastoncini o con la forchetta) e il tipo di cibo fanno parte della cultura. Dal punto di vista sociologico, la cultura è un sistema ben ordinato di istituzioni (leggi, costumi, tecniche) e di valori (morali, filosofici, religiosi), che sono nel loro complesso il patrimonio comune e il segno distintivo di un determinato gruppo umano, danno un senso alla vita individuale e sociale.

La cultura quindi sta alla base dell’equilibrio psichico dell’individuo e del gruppo: quando una cultura subisce mutamenti sostanziali e rapidi, per causa d’una pressione esterna, tutta la società per cui quella cultura era il sostegno e la ragion di vita entra in crisi e può avere anche reazioni violente contro i dominatori stranieri.

Anni fa avevo visto, nel nord dell’Uganda, le reazioni piuttosto violente dei Karimojon (tribù di pastori fieri e nomadi) contro il governo ugandese che voleva imporre a uomini e donne di vestirsi, almeno quando entravano nella capitale della regione, Moroto. Queste reazioni potrebbero sembrare, a prima vista, inspiegabili, assurde, perché spesso si tratta di cambiamenti che sembrano superficiali (mettere il vestito invece di andare nudi, smettere di tatuarsi il volto…).

Ma questa resistenza si spiega facilmente se teniamo presente che la cultura è la «spiritualità totale» di un gruppo umano, cioè l’elemento più vivo e unificante, in cui ogni elemento è legato all’altro e se crolla uno, incominciano a crollare tutti!

La cultura infatti non è solo un «modo di vita», ma è una «concezione totale della vita», cioè abbraccia tutti gli aspetti della vita, tanto fìsica che intellettuale e spirituale, non solo individuale, ma comunitaria. Le culture sono risposte diverse ai problemi umani che sono fondamentalmente gli stessi: risposte diverse perché condizionate da vari elementi esterni che hanno influenzato il formarsi di una cultura, clima, ambiente geografico, distanze, difficoltà ambientali, ecc.

Ciascuna cultura (o società, consideriamo i due termini come sinonimi, almeno in questa sede) ha quindi una sua intima coesione che la rende funzionale per un dato gruppo umano in un certo ambiente e in un determinato tempo. Per questo tutte le culture hanno una loro sostanziale validità, poiché danno ad un gruppo umano la ragione di vita e gli garantiscono la sopravvivenza e l’adattamento all’ambiente in cui vive.

Tutti i popoli sono portati a valutare come valori assoluti quelli della propria cultura ed a disprezzare gli altri. S. Francesco Saverio era chiamato «il barbaro» in Giappone, perché mangiava con le mani come gli europei di quel tempo e non si lavava quasi mai, mentre in Giappone facevano il bagno ogni giorno e mangiavano con i bastoncini!

I cinesi, nel secolo scorso, chiamavano «barbari» gli europei ed i missionari per gli stessi motivi e in genere per la grossolanità dei loro modi. Così noi europei chiamiamo «barbari» altri popoli che non hanno i nostri costumi. Il razzismo nasce appunto da questo sentimento di superiorità culturale, mentre le culture hanno tutte una loro dignità e un loro profondo significato, come pure i loro valori umani e anche religiosi.

Un altro elemento importante nel discorso delle culture è che le singole culture non sono qualcosa di statico, ma si evolvono nel tempo e si influenzano a vicenda, man mano che i popoli si incontrano e imparano a conoscersi l’un l’altro.

Nel corso dell’ultimo mezzo secolo, le culture che si sono evolute più in fretta sono quelle d’Asia e d’Africa, appunto per l’incontro e scontro con il mondo occidentale. In genere quando si parla del colonialismo, lo si accusa di dominazione politica e di sfruttamento economico: ma questo è un modo superficiale di vedere la storia.

L’aspetto più profondo, e più nefasto, della colonizzazione occidentale in Asia ed Africa, è stato il violento impatto culturale, cioè l’imposizione anche violenta di una cultura del tutto estranea a quei modi, a quei popoli, la cui crisi è oggi, anzitutto, una crisi culturale.

Come ha scritto Senghor, il Presidente del Senegal: «Non siamo più quel che eravamo, non siamo ancora quel che vorremmo essere, abbiamo perso ogni senso di identità come popolo».

La religione anima delle civiltà

Maritain fa risalire il fondamento ultimo della cultura alla religione. La cultura, infatti, dice (1), «è lo sviluppo della vita propriamente umana, che comprende non solo lo sviluppo materiale necessario e sufficiente per permetterci di condurre una vita adeguata quaggiù, ma anche e anzitutto lo sviluppo morale, lo sviluppo delle attività speculative e delle attività pratiche (artistiche ed etiche) che merita propriamente d’essere chiamato sviluppo umano» (pa. 18). Ed ancora: «Poiché lo sviluppo umano non è solo materiale ma anche e principalmente morale, è logico che, di conseguenza, l’elemento religioso giochi il ruolo principale».

In altre parole, i valori pratici di una cultura sono orientati ai valori contemplativi, i valori della materia (tecnici ed economici) sono ordinati a quelli dello spirito (arte, letteratura, poesia, filosofia) ed i valori dello spirito sono ordinati a Dio e all’idea che ci si fa di Dio e dei rapporti fra uomo e divinità.

Non tutti i valori culturali possono essere spiegati con l’idea di Dio di un dato popolo. La cultura nasce per azione di molti influssi, dati dall’ambiente geografico, dal clima, dal soddisfacimento dei bisogni naturali dell’uomo, dai rapporti societari, ecc. Ma, come ha scritto il card. Koenig (3), «lo sviluppo e la crescita d’una cultura sono condizionati da una serie di comportamenti umani che hanno la loro origine nella religione … In questo senso la religione è, in effetti, la prima forza culturale», cioè la prima forza creativa poiché la cultura è creazione dell’uomo.

In passato, le varie religioni hanno profondamente influenzato le culture, fino al punto che i sistemi omogenei di civiltà si distinguevano a malapena dalla religione che li ispirava (si pensi alla civiltà indiana e all’induismo, a quella araba e all’islam, all’Europa unificata nel Medio Evo dal cristianesimo).

Nei tempi moderni l’omogeneità culturale dei grandi blocchi religiosi è stata sconvolta dalle scienze umane (scoperta dell’uomo: medicina, antropologia, psicologia, ecc.) e dalle scoperte scientifiche circa la natura (astronomia, scoperte geografiche, ecc.). In conseguenza di questi progressi delle scienze, due fenomeni culturali hanno trasformato profondamente le culture di ispirazione religiosa, anzitutto in Occidente e poi nel resto del mondo:

a) La secolarizzazione, cioè il tramonto dell’ epoca del sacro, la smitizzazione della natura, un’ idea meno antropomorfica di Dio: in una parola, la distinzione dei campi tra sacro e profano con una loro profonda autonomia.

b) L’idea di progresso, di cammino in avanti verso un’umanità migliore.

Il «progresso» (che assume vari nomi: liberazione, sviluppo, industrializzazione) è diventato il valore-chiave della civiltà d’oggi, che mette in crisi le credenze religiose così come le culture che ne derivano. Questa crisi è fortissima soprattutto nelle culture non orientali che non hanno maturato lentamente, come in Occidente, i cambiamenti attuali: lo scontro quindi fra progresso moderno e cultura basata sulla religione provoca esplosioni e reazioni devastanti. Si veda il caso emblematico dell’Iran: lo Scià si era impegnato a fondo per la modernizzazione del paese (scuole, industrie, strade, leggi moderne, liberazione della donna, consumismo …), ma aveva trascurato e schiacciato l’islam, che è alla base della civiltà persiana.

La «rivoluzione islamica» di Khomeyni sta ricuperando i valori religiosi antichi, ma distrugge tutto quel che di buono aveva fatto lo Scià per condurre il paese verso il tempo moderno.

L’avvenire delle culture sta nella mediazione fra tradizione e modernità, fra valori religiosi di fondo (spirituali, morali, comunitari) e retto apprezzamento del progresso moderno. La rottura troppo violenta con la tradizione crea dei popoli disorientati, sradicati, delle crisi d’identità.

L’uomo, per cambiare, ha sempre bisogno di tempo, di gradualità, di adattamento. Così le culture. L’errore delle rivoluzioni violente è proprio questo: di voler far compiere ad un popolo, ad un paese, un cambiamento (che richiede tempo) in un attimo, creando rotture traumatiche e perdita dei valori basilari della civiltà locale. Solo la religione può mediare i cambiamenti in modo che risultino umanizzanti e non disumani.

Da dove viene il progresso dell’Occidente?

Non mi dilungo su questo tema vastissimo, che credo sia già abbastanza conosciuto. Alcuni punti base:

1) Il cristianesimo trascende tutte le culture e non si identifica con nessuna cultura. I Pontefici moderni e il Vaticano II hanno espresso questo concetto in molti modi (GS, 62 ad es.), ma qui citiamo S. Agostino che nel «De Civitate Dei» scrive: «Questa città terreste, finché è pellegrina sulla terra, chiama a sé i cittadini di tutte le genti… non curando ciò che è diverso nei costumi, nelle istituzioni; non danneggiando né distruggendo nulla di esso, anzi piuttosto favorendone la conservazione e l’incremento». La Chiesa però, dice la G.S. (n. 58), «vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti».

2) Il cristianesimo si è incarnato in Occidente ed è diventato l’anima della civiltà occidentale. Non si può certo dire che i popoli occidentali (Europa, nord-America, Australia) siano cristiani praticanti, così come è finita l’epoca della «cristianità» intesa come blocco di stati e di popoli che obbediscono (o si sforzano di conformarsi) alle leggi evangeliche.

Però è indubbio che tutta la civiltà occidentale (marxismo compreso) è profondamente influenzata dalla Bibbia e dal Vangelo. Il filosofo Karl Jaspers scrive(4): «Ogni volta che si pone la questione di sapere se l’Europa potrebbe esistere e cosa potrebbe essere senza la Bibbia, unicamente a partire dalle sue origini pre-bibliche e greche, si deve sempre rispondere: quello che noi siamo, lo siamo per la religione biblica e per la “secolarizzazione” che risulta da questa religione, dalle basi dell’umanesimo fino alle motivazioni delle scienze moderne ed ai principi motori delle nostre grandi filosofìe. In effetti, senza la Bibbia noi scivoleremmo nel nulla».

Dawson, studioso della storia della civiltà, vede nel cristianesimo la causa prima del progresso moderno delle scienze e delle stesse scoperte geografiche, poiché il cristianesimo ha liberato l’uomo da una visione ristretta della propria esistenza e del mondo che lo circonda (5).

Lo stesso pensiero esprimono Max Weber e Arnold Toynbee. Newman pensa (6) che l’influsso decisivo del cristianesimo sulla civiltà occidentale risiede soprattutto nel fatto che la dottrina di Cristo ha portato l’uomo alla conoscenza della sua natura e della sua dignità, dandogli il senso dello sviluppo della persona umana.

Di qui è venuto il progresso dell’Occidente attraverso i secoli. Molti si chiedono perché solo l’Occidente cristiano ha compiuto tutte le rivoluzioni moderne che hanno dato origine al mondo attuale: scoperte geografiche e scientifiche, la tecnica e l’industrializzazione, la rivoluzione francese e il marxismo, lo studio del corpo umano e della medicina moderna, ecc.

L’interrogativo è ancora in gran parte da esplorare, ma è un dato di fatto che il progresso materiale è venuto da un progresso delle idee, da una rivoluzione delle idee: in particolare l’idea della dignità dell’uomo, della persona umana, e dei diritti dell’uomo; il dominio dell’uomo sulla natura; la fraternità e l’eguaglianza fondamentale di tutti gli uomini; la spinta verso il progresso in tutti i campi con un’idea della storia come «marcia in avanti» dell’umanità, ecc.

Ora, è fuori dubbio, come scrive Barbara Ward (7), che alla base di tutte le idee di fondo della civiltà moderna c’è la Bibbia e il Vangelo. Due studiosi di storia delle civiltà aggiungono (8): «Alle sue sorgenti greco-romane e soprattutto al cristianesimo, la civiltà occidentale è debitrice d’aver percorso, dal punto di vista dell’eguaglianza, della libertà e carità fraterna, una via totalmente ignorata dalle altre civiltà. La reazione antica e moderna contro la schiavitù, la lotta contro il dispotismo, l’avvento della democrazia politica e sociale, i “diritti dell’uomo”, le altre forme di rispetto della persona umana, rimangono delle acquisizioni originali dell’Occidente, malgrado le applicazioni spesso eccessive o sospette».

Il progresso moderno realizzato in Occidente non è però un fatto interamente positivo, perché non si identifica con lo «sviluppo integrale» dell’uomo, comportando anche aspetti decisamente negativi che contraddicono proprio quei principi biblici ed evangelici da cui la civiltà occidentale trae la sua fondamentale ispirazione (oppressione dell’uomo sull’uomo, egoismi personali e di razza e di classe, modello di sviluppo basato quasi unicamente sui valori materiali, ecc.).

Le cause culturali del sottosviluppo

In concomitanza con l’interrogativo di cui abbiamo detto poco sopra, eccone un altro sul quale gli studiosi battagliano spesso: perché il «terzo mondo» è rimasto povero, depresso, tecnicamente non evoluto, mentre l’Occidente cristiano conosceva, negli ultimi secoli, una costante e radicale rivoluzione.

Le risposte correnti nella cultura contemporanea non tengono conto dei fondamenti culturali del progresso moderno: il «terzo mondo», si dice, è rimasto arretrato rispetto all’Occidente, perché il colonialismo ha creato condizioni di povertà con lo sfruttamento economico (è la risposta di derivazione marxista); oppure, perché quei popoli sono inferiori a noi (risposta razzista); oppure, ancora, perché non hanno la tecnica né i capitali sufficienti per una rapida industrializzazione (risposta liberal-capitalista).

Ho risposto con un volume (9) a questo interrogativo, nel quale dimostro ampiamente come solo la risposta di carattere culturale è adeguata alla vastità e complessità del problema: la causa profonda del mancato sviluppo di gran parte dell’ umanità risiede nelle culture dei paesi poveri, che non sono culture dinamiche, ma statiche, mancando di quei germi di progresso dell’uomo che l’Occidente ha ricevuto dalla Bibbia. Ecco alcuni aspetti di questa realtà culturale, quasi del tutto ignorata (naturalmente sono costretto a semplificare molto: il tema richiederebbe ben altro spazio!):

1) Le culture non occidentali concepiscono Dio come immanente al mondo, divinizzano o mitizzano tutte le realtà naturali. L’uomo è al gradino inferiore del mondo soprannaturale, prigioniero della materia: il suo destino è liberarsi della materia per diventare spirito e perdersi nell’Assoluto (la divinità non personificata). Ecco la «lotta contro il desiderio» nel buddismo: la sfiducia nella materia, nel corpo, nella natura, visti come ostacolo al raggiungimento del fine (anche nel cristianesimo si sono avute eresie e tendenze del genere). Così pure nell’induismo, lo «yoga» (ascesi) per liberarsi dal desiderio; il principio del «maya», cioè che tutta la realtà non è che illusione; la metempsicosi che è la continua rinascita che libera l’uomo dal corpo fin che perde la sua identità nella divinità cosmica. In altre parole, le culture non occidentali non hanno avuto il retto concetto di cos’è l’uomo e dei rapporti fra uomo e Dio, proprio perché non hanno ricevuto la Rivelazione ed hanno un’idea inesatta di Dio (concepito non come Altro, come Persona, ma come assoluto indefinito e cosmico, cioè immanente al mondo e non trascendente).

2) In conseguenza di quanto sopra, manca nelle culture non occidentali un giusto rapporto fra uomo e natura. Per l’occidentale, la natura è un dono di Dio da scoprire, dominare, usare per l’elevazione dell’uomo (è il concetto biblico).

Per l’indiano o l’africano, la natura è da contemplare, da temere e subire, non da trasformare. Presso molte culture, la natura è divinizzata: trasformarla significa violentarla. «Gli africani — scrive un missionario (10) — prima che venissero tratti fuori dal loro isolamento, non cercavano il progresso, ma l’equilibrio, il mantenimento dello status quo. Si preoccupavano non di progredire, ma di non cambiare. Non si trattava di dominare la natura, ma di rispettarla, di adattarvisi. Voler trasformare o correggere la natura, all’africano sembra un atto di arroganza contro le forze misteriose che dominano la natura stessa».

3) Nella cultura occidentale l’uomo è al centro di tutto e la storia è concepita come un «cammino in avanti», dominando la natura e creando migliori condizioni di vita per tutti gli uomini (l’eguaglianza fondamentale di tutti gli esseri umani creati ad immagine di Dio).

Nelle culture non occidentali l’uomo è semplicemente uno dei tanti elementi della natura e la storia è concepita come un circolo, un continuo ritorno al passato, un ripetersi indefinito degli stessi atti e situazioni. La vita dell’uomo, sottomesso alla legge inesorabile del «Karma», è ben espressa in questi versi del «Sastra» (libro sacro dell’Induismo):

«Dai fiumi che vanno all’oceano vengono le nuvole.

Dalle nuvole vengono le piogge

e da queste nascono i fiumi.

Come questo ciclo è anche il ciclo del Karma.

Dall’origine del mondo

ino all’estinzione di ogni dolore».

Questa diversità di concetti basilari risulta in tutte le manifestazioni delle civiltà. Prendiamo l’arte. In Occidente al centro di tutta l’arte c’è l’uomo: si studia l’anatomia, il movimento del corpo umano, si fanno ritratti, nei quadri l’uomo è al centro della rappresentazione.

Nell’arte cinese, l’uomo è uno dei tanti elementi della natura, del paesaggio. L’anatomia umana è del tutto sconosciuta, il ritratto dal vero non esiste. Il capo-scuola Wang Wei diceva ai suoi scolari: «Nel dipingere un paesaggio, lasciate tre metri per le montagne, trenta centimetri per gli alberi, tre centimetri per i cavalli e tre millimetri per gli uomini».

L’artista cinese è minuzioso e vivificante nel riprodurre un filo d’erba, un fiore, un sasso, il bambù: l’uomo invece è goffo, il nudo è sconosciuto, la figura umana non viene riprodotta con realismo e spesso manca del tutto.

Questo discorso sull’arte cinese non significa che essa è «inferiore» all’arte occidentale, ma solo «diversa», come sono diverse le due culture da cui le due arti derivano: è chiaro che l’arte realistica e umanistica dell’Occidente presuppone tutta una visione dell’uomo e dei suoi rapporti con la natura, diversa da quella contemplativa dell’ arte cinese (è inutile aggiungere che parlo dell’ arte cinese tradizionale: il comunismo, dopo il 1949, ha imposto un’arte più realistica, ma di chiarissimo influsso occidentale).

Nehru, spiegando perché l’India è sottosviluppata, descrive tutte le gravissime colpe del colonialismo inglese, ma poi aggiunge che la causa fondamentale è la differenza fra lo spirito indiano e lo spirito europeo(11): «La differenza vitale era questa: in Europa forze invisibili ribollivano all’interno delle sue masse, facendole continuamente evolvere. In India invece, la situazione era statica. La natura statica della società indiana rifiutava di evolversi».

E uno studioso africano, Hamidou Rane, scrive (12): «Il più grave di tutti i difetti interni delle società africane mi sembra l’ignoranza del progresso da parte delle nostre culture. D’altronde è possibile che questa idea sia una creazione originale dell’Europa e la ragione del suo trionfo tecnico. Essa manca presso di noi… Il passato, un passato mitico e divinizzato orienta le nostre culture. Un amico mi diceva l’altro giorno: “Noi poniamo il nostro progresso nel nostro passato!”».

Alioune Diop, direttore di «Présence Africaine», scrive (13): «Le nozioni di progresso, di rivoluzione, dì cambiamento sono specifiche del genio europeo. Né la Cina né il mondo nero riescono a giustificare razionalmente i cambiamenti».

Benefico influsso del messaggio evangelico

Quale il rapporto tra cristianesimo e civiltà non cristiane? Nel mondo antico e medievale, l’abbiamo detto, il cristianesimo si è incarnato profondamente nella civiltà europea, unificando i popoli e diventando l’anima del progresso del continente (anche i movimenti in superficie anti-cristiani come il marxismo sono sbocciati su un fondo cristiano: impossibile e inconcepibile la nascita del movimento marxista-comunista nell’universo culturale indù o buddista).

Dopo le grandi scoperte geografiche e l’inizio dell’epoca moderna (sec. XVI), la missione ha avuto successo di conversioni in massa solo in America Latina e nelle Filippine (con la colonizzazione ispano-portoghese) e poi in alcune zone dell’Africa nera, ma qui solo nel corso dell’ultimo mezzo secolo. L’influsso culturale cristiano sulle civiltà non cristiane è appena agli inizi nei due continenti d’Asia e d’Africa, ed anche in America Latina (come nelle Filippine) esistono ancora due civilizzazioni sovrapposte e non integrate.

Ci sono due modi di valutare il risultato dell’ opera missionaria:

1) Il numero delle conversioni e l’istituzione della Chiesa locale con propri vescovi, sacerdoti, strutture ecclesiali. È il criterio usato di solito dalla stampa missionaria e cattolica e certo ha il suo valore, ma guarda solo agli aspetti esterni, numerici, istituzionali dell’evangelizzazione.

2) Il secondo criterio è quello dell’influsso culturale cristiano, cioè di quanto il messaggio evangelico ha influito sulle mentalità, sui costumi, sulle leggi; insomma, quanto profondamente ha modificato la cultura locale. È una valutazione più difficile di quella delle statistiche dei battezzati, ma certamente più profonda.

Portiamo un esempio concreto: il Burundi è ormai un paese di battezzati, i cattolici raggiungono il 70% della popolazione, la Chiesa è solidamente fondata e la sua presenza è ramificata a livello di villaggi in ogni regione. Ora, nonostante questa «conversione in massa» della popolazione (iniziata negli anni trenta), la cultura locale, i comportamenti, le mentalità, restano ancora profondamente pagane: non perché i cristiani siano tiepidi nella fede (anzi, sono più fervorosi di noi italiani), ma perché il Vangelo non è ancora penetrato nella cultura e non l’ha ancora cristianizzata.

Per cui, ad esempio, le lotte tribali hanno assunto, nell’ultimo decennio (specie a partire dal 1972), aspetti di violenza inaudita: nel 1972, su circa tre milioni e mezzo di abitanti, almeno 100.000 Hutu venivano massacrati legalmente dai Tutsi che hanno in mano lo stato e fra di loro tutti gli intellettuali, professionisti, studenti, anche seminaristi e sacerdoti Hutu che cadevano nelle mani dell’esercito nazionale Tutsi.

In alcune parrocchie sono stati arrestati e uccisi tutti i principali catechisti e collaboratori parrocchiali. Dal 1972 ad oggi vi sono stati ancora scoppi di rivalità tribali, con altre uccisioni in massa sebbene in misura più ristretta. Ora, se guardiamo al Giappone, dobbiamo dire che questo paese, in cui i cattolici sono lo 0,3% della popolazione, si presenta con una cultura più «cristianizzata» di quella del Burundi.

Non solo per l’enorme diffusione della Bibbia (il libro più letto dai giapponesi), ma perché l’uomo ed i diritti dell’uomo sono rispettati dallo stato e dal costume: naturalmente, anche in Giappone, come ovunque nel mondo, vi sono oppressioni, ingiustizie (sarebbe assurdo che non ci fossero), ma qui stiamo parlando delle tendenze dominanti della cultura locale, delle leggi, del costume, che vanno nel senso del rispetto dell’uomo.

Perché questa cristianizzazione della cultura giapponese? Per una precisa scelta al vertice dell’Impero, fin dall’inizio dei contatti fra Giappone e Occidente alla metà del secolo scorso: nello sforzo di imitazione dell’Occidente che si presentava militarmente e industrialmente tanto forte, gli imperatori giapponesi adottarono per il loro paese le leggi, la giustizia, la scuola, i principi fondamentali delle Costituzioni dei paesi occidentali; mandarono molti studenti nelle università americane ed europee; aprirono il Giappone ai missionari e alle scuole dei missionari cattolici e protestanti, ecc.

Il Giappone ha profondamente assorbito (e questo più ancora nell’ultimo dopoguerra, anche per imposizione dei vincitori americani) lo «spirito cristiano» delle nazioni occidentali, pur rimanendo autenticamente se stesso, cioè integrando queste novità rivoluzionarie nella cultura giapponese.

Scrittori e pensatori giapponesi riconoscono apertamente che il Giappone, fino alla metà del secolo scorso, era una società molto chiusa, rigidamente divisa in classi e caste, senza alcuna idea di progresso, ma vivente solo nel culto delle tradizioni.

Lo sviluppo del Giappone è venuto per l’imposizione, forzata, fatta dall’imperatore Meiji, delle leggi e dell’educazione occidentali che portarono la «rivoluzione delle idee» e poi tutte le altre rivoluzioni nel costume che il Giappone ha conosciuto. Il sociologo giapponese Kazuko Oka-kura (14) prendendo in esame la rapida evoluzione della società giapponese nel corso dell’ultimo secolo, afferma che, ad esempio, la liberazione della donna in Giappone è venuta solo per influsso delle idee cristiane e dei costumi occidentali.

Nel Giappone tradizionale la donna era in tutto e per tutto sottomessa all’uomo e non esistevano germi di evoluzione nella società giapponese, fino all’incontro con l’Occidente. Okakura scrive: «Questo (dell’evoluzione della donna) è uno dei più alti messaggi di umanità che il cristianesimo ha portato al nostro paese».

La missione è appena agli inizi

Il discorso fatto finora non significa affatto che solo la civiltà occidentale ha qualcosa da insegnare alle altre civiltà. Il mondo va verso l’integrazione culturale (non l’unificazione, che è altra cosa!), cioè verso la conoscenza e lo scambio reciproco di valori fra le varie culture, fra i popoli.

«Scambio» significa dare e ricevere, per tutti: anche l’Occidente ha molto da imparare dall’Africa, dall’India, dalla Cina, dal Giappone, dal mondo arabo. Non c’è bisogno di lunghi discorsi per convincersi di questa affermazione: basta guardare al nostro «modello di sviluppo occidentale», per vedere quanti aspetti disumanizzanti esso comporta, specie da un punto di vista spirituale-etico. «La vera cultura, ha affermato Giovanni Paolo II nel suo viaggio in Brasile  (15), è umanizzazione, mentre la non-cultura e le false culture sono disumanizzanti … L’umanizzazione, ossia lo sviluppo dell’uomo, si compie in tutti i campi della realtà in cui l’uomo è situato e si situa: nella sua spiritualità e corporeità, nel cosmo, nella società umana e divina. Si tratta di uno sviluppo armonioso, in cui tutti i settori cui appartiene l’essere umano si coinvolgono l’uno con l’altro: la cultura non concerne né il solo spirito né il solo corpo, né la sola individualità, né la sola socialità, né la sola cosmicità … La cultura deve coltivare l’uomo e ogni uomo nell’estensione di un umanesimo integrale e plenario, nel quale tutto l’uomo e tutti gli uomini vengono promossi nella pienezza di ogni dimensione umana».

Per questo il Papa ha messo in guardia i popoli poveri, specie durante il viaggio in Africa nel maggio scorso, dall’imitazione banale dell’Occidente e di tutti gli aspetti disumani dell’Occidente.

Paolo VI ha scritto (16): «I popoli poveri non staranno mai troppo in guardia contro questa tentazione che viene loro dai popoli ricchi, i quali offrono spesso, insieme con l’esempio del loro successo nel campo delta cultura e della civiltà tecnica, un modello di attività tesa prevalentemente alla conquista della prosperità materiale. Non che quest’ultima costituisca per se stessa un ostacolo all’attività dello spirito… tuttavia, “la civiltà moderna, non certo per la sua natura intrinseca, ma perché si trova soverchiamente irretita nelle realtà terrestri, può rendere spesso più difficile l’accesso a Dio” (G.S., 19, 2) … I popoli in via di sviluppo devono dunque saper fare una scelta: criticare ed eliminare i falsi beni che porterebbero con sé un abbassamento dell’ideale umano, accettare i valori sani e benefìci per svilupparli, congiuntamente ai loro, secondo il proprio genio particolare».

Uno dei nodi fondamentali del nostro tempo, già l’abbiamo detto, è l’incontro fra i popoli e le culture: incontro inevitabile in quanto il mondo va unificandosi in tutti i sensi, ma che deve essere un’integrazione e scambio fraterno, non uno scontro. Le conseguenze, per noi cristiani d’Occidente, sono due:

1) Avere la chiara coscienza del nostro dovere missionario, nel senso inteso dal messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale di quest’anno (17): «Le missioni sono strumenti di evangelizzazione e di promozione umana e si rivelano tuttora necessarie e insostituibili… senza di esse non potrebbe nascere e svilupparsi la civiltà nuova fondata — nel segno di Cristo — sulla giustizia, sulla pace e sull’amore, perché è nella missione che si plasma l’uomo nuovo, consapevole della sua dignità e del suo trascendente destino di creatura redenta … Le missioni sono centro di promozione umana, poiché, evangelizzando e aiutando l’uomo a comprendere se stesso in Cristo, (la Chiesa) ne promuove in tal modo anche la coscienza civile e il progresso sociale. Esattissimo appare, al riguardo, ciò che afferma il documento conclusivo della Conferenza di Puebla: “Il miglior servizio al fratello è l’evangelizzazione, che lo dispone a realizzarsi come figlio di Dio, lo libera dalle ingiustizie e lo promuove integralmente” (n. 1145)».

La crisi della missione è venuta da un annebbiamento dell’identità cristiana: la ripresa verrà da un approfondimento del dono della fede, vissuto con sincerità ed entusiasmo. Una certa «ideologia terzomondista», in auge nella cultura italiana qualche anno fa (ma ancor oggi non è affatto tramontata), accusava le missioni di aver «calpestato le culture» dei popoli evangelizzati ed ha finito per creare nei cristiani un complesso di colpa del tutto ingiusto.

Bisogna dire con chiarezza che la missione della Chiesa, pur avendo commesso errori dovuti ai singoli missionari (uomini come gli altri), ha sempre agito con amore e rispetto delle popolazioni evangelizzate e delle culture, nelle quali ha seminato i germi di una evoluzione nel senso dell’uomo. Senza la Rivelazione le varie culture dell’uomo sono incomplete: il compito della missione della Chiesa è quindi appena agli inizi, l’evangelizzazione ha ancora davanti a sé una lunga storia e sterminati spazi umani da avvicinare e coltivare.

Per concludere: la coscienza dell’importanza del dono della Fede e della Rivelazione, deve spingere il cristiano d’oggi (tutti i cristiani, non solo i sacerdoti ed i religiosi), ad essere missionari all’interno e all’esterno della propria cultura e del proprio popolo: con la convinzione che questo è il più alto contributo che possiamo dare all’incontro pacifico fra i popoli e all’edificazione di un mondo nuovo, più giusto e più fraterno.

2) L’idea missionaria implica però non solo il dare, ma anche il ricevere. Noi cristiani siamo coscienti dei nostri limiti umani e del fatto che nonostante il dono della Fede ricevuto e il modello di Cristo, la civiltà da noi costruita ha molti aspetti disumani. Quindi può e deve essere perfezionata e avverrà attraverso l’incontro con altri popoli, che ci porteranno i doni della loro umanità.

Tutti i popoli, anche i più «primitivi», anche i più poveri, hanno qualcosa da donare agli altri: il senso della gioia e della vita nei neri, il senso comunitario nelle popolazioni tribali, la preghiera e la presenza di Dio nella storia umana nell’islam, la non violenza nella tradizione indiana, l’immersione della persona umana nel cosmo e quindi il rispetto di tutta la vita nell’induismo e nel buddismo, la tradizione monastica e contemplativa di queste due grandi correnti religiose, ecc.

La missione della Chiesa ha quindi anche il compito, penetrando in altre culture, di stabilire un dialogo e uno scambio di ricchezze con queste culture: il missionario oggi è un «ponte lanciato fra i popoli», uno strumento di mediazione culturale, che non solo va in India a testimoniare ed annunziare Cristo, ma torna anche in Italia a comunicare le ricchezze spirituali, morali, religiose dell’India o di qualsiasi altro paese.

Questo tema è affascinante e apre prospettive nuove anche alla Chiesa ed agli istituti missionari: esso dimostra, anche da un punto di vista culturale, come è indispensabile oggi che molti giovani credenti si dedichino con entusiasmo alla missione.

Chi visita spesso e vive a contatto stretto con le frontiere più avanzate della Chiesa, come il sottoscritto, si rende conto che mai come oggi la missione è diventata esigente e indispensabile all’umanità e mai come oggi le forze missionarie sono state così inadeguate ai compiti del momento.

Chi dice che «l’epoca delle missioni è finita», semplicemente non sa cosa dice: è finito un certo modo di essere missionari, di fare la missione, ma la missione e il compito missionario della Chiesa sono appena agli inizi ! (18)

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1) TYLOR E.B., Primitive culture, London 1871, pag. 5.

2) MARITAIN J., Religion et culture, Desclée de Brouwer, Paris 1940.

3) KOENIG F., La religion et le culture, in «La Doc. Cath.», Paris 1965, pag. 905.

4) Cit. in KOENIG, art. cit., pag. 909.

5) DAWSON C, Religion and Culture, London 1948, pag. 47.

6) NEWMAN, Apologia, 1865, pagg. 245, 253. Essays criticai and historical, 1871, pag. 96.

7) WARD B., The rich nations and the poor nations, Norton, New York 1962, pag. 16.

8) LALOUP et NELIS, Culture et Civilisation, Casterman 1957, pag. 114.

9) GHEDDO P., Terzo mondo: perché povero? E.M.I. 1972, pagg. 190 (il volume è purtroppo esaurito).

10) BARTOLUCCI E., in «Nigrizia», Verona, ott. 1969, pag. 12.

11) NEHRU, The discovery of India, New York 1964, pag. 283.

12) KANE H., Camme si nous étions donné rendez-vous, in «Esprit», Paris, octobre 1961, pag. 382.

13) Cit. da Toaldo E., Fattori culturali e politici dello sviluppo, in «Primo corso studi terzo mondo», PIME ed., Milano 1969, dispensa n. 6, pag. 7.

14) In «The awakening of Japan», Tokyo 1956.

15) Discorso di Giovanni Paolo II agli uomini di cultura a Rio de Janeiro il 1° luglio 1980, vedi in «La Traccia», Milano, n. 7, agosto 1980, pag. 563.

16) «Populorum Progressio», n. 41.

17) Messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata missionaria mondiale del 19 ottobre 1980, 25 maggio 1980, vedi in «La Traccia», Milano, n. 5, giugno 1980, pp. 407-409.

18) Per completare lo studio del tema «Chiesa e culture», suggeriamo lo studio di Sergio Bocchini, «Il missionario di fronte alle culture», in «Mondo e Missione», giugno-luglio 1979, pagg. 387-409, che tratta l’argomento da un punto di vista più specificamente missionario.