di Massimo Magliaro
Tempo di covid, tempo di truffe. Di truffe e di bugie. Una di queste viene propalata sotto il marchio Antifa dei Black Lives Matter cioè dei razzisti antibianchi che dagli Usa si stanno allargando verso il resto dell’Occidente. Questi truffatori a libro paga dell’Open Society Foundations del signor Soros raccontano che i Confederati, cioè i sudisti, sarebbero stati i razzisti cattivi in rivolta contro i nordisti buoni perché costoro volevano abolire la schiavitù. Vero? Falso!
Furono parecchie migliaia i neri sudisti che, durante la guerra d’invasione yankee (1861-1865), si batterono nei ranghi dell’Esercito confederale fianco a fianco dei bianchi, sotto le stesse uniformi e soffrendo nelle stesse galere.
La guerra cominciò a metà aprile e già nell’autunno 1861 un afro-americano e fervente abolizionista, Frederick Douglas, scriveva: “Ci sono, in questo momento, parecchi uomini di colore nell’Esercito confederale, che servono come soldati, fucile in spalla e pallottole in tasca”.
Impensabile nell’Esercito nordista, l’Union army. Il gen. William Tecumseh Sherman, nordista doc, era stato categorico: “Niente armi ai negri!”. E quando, più tardi, arriverà il momento di coinvolgere i neri, il gen. Ulysses S. Grant, comandante dell’Armata del Potomac, non fece entrare nessun uomo di colore al fianco dei nordisti. Al più, vennero create, rigidamente a parte, le Colored Troops.
Dei soldati neri dell’Esercito confederale si conosce tutto, nome, cognome, origine, grado, specialità. Come nel caso di Horace King, nero, ingegnere specializzato in ponti e incaricato della costruzione di navi da guerra per la Marina sudista. Oppure Sam Ashe, passato ai posteri per aver ucciso il primo ufficiale nordista proprio all’inizio della guerra, il magg. Theodore Winthrop. O ancora John W. Buckner, ferito gravemente nel respingere un assalto del 54mo Massachusetts Regiment (quello delle Colored Troops).
Quando il gen. Robert Lee, comandante supremo delle Armate confederali, si arrese a Appomattox, al suo fianco c’era un suo fedelissimo, il nero George Wallace. Il quale verrà poi eletto senatore e onorerà il suo mandato opponendosi con coraggio nell’aula parlamentare alla politica degli occupanti yankees.
Coerenza esemplare che ebbero anche altri neri dopo la fine della guerra, come Stonewall Jackson e Jim Lewis. Wallace chiese e ottenne l’onore di condurre Sorel, il cavallo di Jackson, ai funerali di questo eroe nero, strenuamente sudista.
E fra i nordisti che accadde? Per aver liberato dalla schiavitù alcuni neri a St. Louis (Missuri), il gen. John Charles Fremont fu severamente sconfessato da Lincoln e buttato fuori dell’Union army. Gli schiavi presenti a Washington, capitale degli “emancipatori” e dei progressisti, dovettero aspettare fino al 1862, un anno dopo l’inizio della guerra, per essere liberati, e neanche tutti…
Durante tutta la durata del conflitto lo schiavismo rimase in vigore nei cinque Stati sotto il controllo dei nordisti, Delaware, Virginia occidentale, Kentucky, Missuri e Maryland. A differenza della Costituzione yankee, quella confederale proibiva la prosecuzione della vendita di schiavi. Su richiesta formale del gen. Lee, gli Stati confederali liberarono tutti gli schiavi che si erano voluti integrare nell’Esercito sudista.
Di tutte queste cose non si è parlato e non si parla. Omertà assoluta. Ma la Storia si riprende sempre lo spazio che è suo. A spezzare questa omertà e a ripristinare la verità sono stati spesso proprio gli afro-americani. Come Nelson W. Winbush, educatore di professione, che ha impegnato tutta la sua pensione per organizzare, a sue spese, conferenze su un suo antenato, il soldato nero sudista Louis N. Nelson.
Professore afro-americano all’Università di Baton Rouge (Luisiana), Leonard L. Hayes ha consacrato i suoi corsi di Storia ai soldati neri confederali. Edward Smith, anch’egli afro-americano, anch’egli professore universitario, ha girato un video tutto da vedere, “Black Southern Heritage”. Ernest A. Griffin, un nero di Chicago, ha fatto sventolare la bandiera sudista sulla sua proprietà fino all’ultimo giorno della sua esistenza ed ha fatto erigere, a sue spese, un monumento alla memoria dei seimila soldati confederali tenuti prigionieri su quella proprietà allorchè si chiamava Camp Douglas ed era conosciuto come “il campo della morte”.
Va ricordato infine che quando il gen. Lee firmò la resa, a rifiutare di arrendersi furono proprio dei cavalieri neri, come il gen. Stand Watie, un Cherokee, che continuò per settimane a combattere dopo Appomattox. “Lee si è arreso? Non noi!” diceva. Storielle? No. Storia, con la esse maiuscola che ripristina pezzo su pezzo la verità oggi negata. Quella dei neri che non si arrendono in nome della Patria confederale è la Storia più meritevole di attenzione.
Ricorda quella dei rumeni e dei lituani e degli ungheresi e dei finlandesi anticomunisti che combatterono contro i sovietici per molti mesi (in alcuni casi: anni) dopo la fine ufficiale della Seconda Guerra mondiale. E che sono stati, e tuttora sono, miti da custodire. Sono: la generazione che non si è arresa
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