La Nuova Bussola quotidiana 21 Luglio 2021
L’Africa vuole la Cina come partner, perché non chiede nulla in termini di trasparenza e diritti umani. Ora l’Unione Africana indica la Cina come modello di sviluppo. Non è un bell’esempio: la Cina è ancora un Paese povero (oltre che represso). In compenso i maggiori investimenti cinesi in Africa rischiano di essere perduti in Stati al collasso.
di Anna Bono
L’Africa da tempo ha scelto la Cina. Gli africani hanno apprezzato fin da subito che non ponesse condizioni per concedere prestiti e finanziamenti. «La Cina – ribadiva il presidente cinese Xi Jinping inaugurando a Pechino nel 2018 il settimo Forum sulla cooperazione Cina-Africa, evento che si tiene ogni tre anni dal 2000 – non intende interferire negli affari interni dell’Africa né imporre la propria volontà». È esattamente quello che i capi di Stato e di governo africani desiderano: niente critiche per i diritti umani violati, per le istituzioni democratiche ridotte a simulacri.
Adesso però della Cina sostengono di apprezzare non soltanto la “discrezione”, ma anche il modello di sviluppo che ha sconfitto la povertà, secondo quanto annunciato lo scorso febbraio dal presidente Xi Jinping, e sembrano intenzionati ad adottarlo. Lo hanno dichiarato con enfasi i partecipanti a un seminario virtuale di alto livello svoltosi il 22 giugno, dal titolo “Il modello della Cina per la riduzione della povertà a sostegno dell’agenda 2063 dell’Unione Africana”, evento organizzato dalla Commissione economica dell’Onu per l’Africa (UNECA), dalla Missione Cinese presso l’Unione Africana e dall’Istituto Cina-Africa.
Il Commissario dell’UA per il commercio e l’industria Albert Muchanga, nel suo intervento, si è congratulato con il Partito Comunista Cinese e con la popolazione cinese per aver sradicato la povertà: «il modello cinese – ha detto – dimostra che uno sviluppo inclusivo forte e sostenibile è decisivo per ridurre la povertà. Cina e Africa devono intraprendere un programma strategico di cooperazione per la riduzione della povertà in Africa facendo tesoro dell’esperienza e degli sforzi cinesi intrapresi». Ricordando che l’Agenda UA 2063 prescrive che le economie africane crescano come minimo del 7% all’anno a partire dal 2023, Muchanga ha sottolineato il fermo proposito dell’UA di perseguire questo risultato grazie alla partnership con la Cina. Ha concluso affermando che, per ridurre la povertà, occorrono inoltre un impegno e una volontà politica forti e anche di questo l’Africa ha bisogno.
Un mese prima, in occasione della Giornata dell’Africa che cade il 25 maggio e celebra la fondazione nel 1963 dell’Organizzazione dell’Unità africana (dal 2002, Unione Africana), il ministro degli esteri cinese Wang Yi aveva riaffermato solennemente i legami tra Cina e Africa: «abbiamo combattuto fianco a fianco – aveva detto – nella grande lotta per conquistare l’indipendenza e tutelare la nostra dignità. Abbiamo collaborato nella ricerca dello sviluppo economico e di una vita migliore per i nostri popoli». Continueremo a farlo, aveva promesso, uniti contro «l’unilateralismo, il protezionismo, gli atti di prepotenza che hanno pregiudicato l’equità e la giustizia internazionali e gli interessi condivisi dei paesi in via di sviluppo».
Prima di decidere di adottare il “modello cinese”, i leader africani però farebbero bene a prendere tempo, innanzi tutto per accertarsi che davvero abbia funzionato. Pur essendo un Paese emergente, collocato nell’Indice di sviluppo umano tra gli Stati ad alto livello di sviluppo, la Cina, per determinare la posizione economica della sua popolazione, continua ad applicare i parametri che la Banca Mondiale ha stabilito per i Paesi più poveri, parametri che fissano la soglia di povertà a 1,90 dollari al giorno per persona.
Dimostrare i progressi compiuti usando questi parametri è uno dei motivi che inducono molti osservatori a mettere in discussione i successi cinesi. Secondo l’economista Indermit Gill della Brookings Institution, anzi, «nel 2021 misurare i progressi della Cina usando i parametri ufficiali dei Paesi più poveri equivale a dichiarare di aver fallito». Se poi nella definizione di “vita migliore” si vogliono includere, come è necessario, parametri fondamentali quali il rispetto delle libertà personali, la tutela dei diritti umani, l’assenza di discriminazioni allora sorgono ben altri dubbi sulla validità, oltre che sull’efficacia, del “modello cinese”.
L’impressione finora è di una alleanza tra Pechino e i governi africani per sfruttare irresponsabilmente le risorse naturali del continente al costo di danni ambientali – alla fauna, alla flora, ai terreni e alle acque – incalcolabili e talvolta senza rimedio. Altrettanto irresponsabile appare la disinvoltura con cui negoziano finanziamenti miliardari a titolo di prestito. Si calcola che tra il 2000 e il 2017 la Cina abbia prestato ai Paesi africani circa 143 miliardi di dollari, per la maggior parte destinati a progetti di grandi opere infrastrutturali, e nel frattempo è diventata lo Stato primo partner economico del continente.
Il governo cinese magnifica i positivi effetti della propria presenza ormai pluridecennale in Africa. Ma i Paesi che hanno stipulato le alleanze più strette e, sulla carta, proficue con la Cina versano in condizioni critiche, disperate: Etiopia, Sudan del Sud, Repubblica Centrafricana, travolti da guerre per il controllo dello Stato e delle sue risorse rese feroci dal tribalismo tanto da far temere nuovi casi di genocidio e pulizia etnica. In Etiopia il conflitto è iniziato nel novembre del 2020, in Sudan del Sud nel 2013, nella Repubblica Centrafricana nel 2012. Il governo cinese proprio a proposito del Centrafrica parla dei grandi benefici apportati al paese: sviluppo industriale, salute, pace e sicurezza… forse è così, ma in qualche universo parallelo.