La revisione storica di Michele Brambilla
di Fausto Gianfranceschi
Per il trentennale, c’è la speranza che la fantasticheria sarà ricondotta al reale, perché la grande svolta politica di questa primavera consentirà tra l’altro di rivedere e di riscrivere, finalmente con obbiettività, quella parte di storia d’Italia che è sfociata in Tangentopoli e nella crisi della partitocrazia. Lo stordimento, la rabbia l’agitazione nevrotica degli sconfitti ha anche questa componente: la paura che si smontino i miti all’ombra dei quali si pasceva l’Italia della spartizione del potere in tangenti politiche ed economiche.
Intanto il libro cui accennavo apre una breccia. Si intitola Dieci anni di illusioni, (Rizzoli) e ne è autore Michele Brambilla, giovane giornalista del Corriere della Sera già noto per l’eccellente Eskimo in redazione.
Il titolo appare piuttosto edulcorato rispetto all’aspro contenuto ma suppongo sia frutto di un compromesso editoriale (ancora si teme di chiamare le cose con il loro nome).
E’ una storia del Sessantotto, come del resto dice il sottotitolo, asettico ma più veritiero, meno romantico. Certo, nel Sessantotto furono in gioco, tra i giovani contestatori, parecchie illusioni, anche generose, ma il fenomeno non avrebbe assunto le sue caratteristiche eclatanti e progressivamente sempre più violente senza le viltà, le astuzie, le riserve mentali, le strumentalizzazioni, le demagogie di altri attori sulla scena, più o meno mascherati.
Brambilla offre una ricostruzione accurata, sulla base di cronache dell’epoca, di racconti dall’interno, di documenti ineccepibili. Il quadro che ne risulta è impressionante, anche per chi come me ha vissuto quegli anni con inquietudine e prendendo posizione, ma senza riuscire evidentemente a trattenere nella memoria tutti i particolari degli errori e dei misfatti che non sono da dimenticare per il formarsi di una giusta consapevolezza storica.
L’autore afferma nell’introduzione che la sua è «una lunga cronaca, non un trattato, non un tentativo di analisi». Tuttavia un’osservazione iniziale è preziosa, dando il senso principale, la tesi di fondo della ricerca: solo in Italia il Sessantotto durò dieci anni, fino al settembre del 1977, d ebbe poi, ancora per molto tempo, una tragica appendice con la lotta armata. Perché questo record di durata? L’autore non pretende di fornire una risposta, ma spera di aver disseminato tracce e indizi utili per trovarla.
Per quanto mi riguarda, la speranza risulta fondata. Leggendo il libro sul filo di quell’interrogativo, mi sono formato un’idea: in Italia il Sessantotto è stato così longevo – a differenza di altri Paesi dove, come in Francia, si manifestò anche con maggiore veemenza ma venne rapidamente e fermamente spento – durò così a lungo perché fu uno speciale capitolo del “consociativismo”, fenomeno politico tipicamente nostro, anche per la presenza del maggiore e più abile partito comunista d’Occidente.
Esaminiamo il comportamento degli attori per così dire “esterni”. I disordini e le violenze non si sarebbero ripetuti e gonfiati negli anni se i poteri governativi non avessero mostrato una incredibile debolezza, un’arrendevole tendenza al compromesso, mancando di sostenere i pochi responsabili che nelle università e nelle scuole cercavano di resistere, poi intervenendo per mitigare se non addirittura cancellare i provvedimenti di polizia, permettendo l’illegalità delle promozioni “politiche”, ignorando le segnalazioni di prefetti che conoscevano la situazione e prevedevano gli eventi criminosi destinati puntualmente a verificarsi. Un ministro degli Interni, Taviani, arrivò al punto di negare qualsiasi matrice di sinistra del terrorismo quando era già cominciata l’offensiva delle Brigate Rosse.
Perché questo comportamento? Secondo la teoria cinica, il disordine giovava elettoralmente alla Dc; ma agiva anche un altro motivo: la pressione e il ricatto della sinistra politica-culturale capeggiata dal Pci. Oggi si tende mitologicamente a sottovalutare questo aspetto o addirittura a contrapporgli la favola di un Pci formidabile garante dell’ordine e della democrazia.
Chi ha vissuto quegli anni sa bene che non fu così; e d’altronde Brambilla documenta il favore ufficiale di Botteghe Oscure per le agitazioni sessantottine. Certo, vi furono anche polemiche intestine, che però non intaccarono sostanzialmente la protezione (e la volontà di sfruttamento) del partito nei confronti di un movimento che comunque era permeato di ideologismo marxista, anche se magari a Stalin preferivano Mao (il che, malgrado le illusioni, non era davvero un miglioramento democratico).
La pressione garantista sui poteri governativi, che si lasciarono volentieri condizionare, venne meno quando, nella seconda metà degli anni Settanta cominciò la fase matura del “consociativismo” – con la “non sfiducia” , con la “solidarietà nazionale” – ossia quando il Pci, incassando il premio del ricatto, arrivò alla stanza dei bottoni e prese a condividere con il governo parecchie leve di potere. Allora diventò partito d’ordine, di un ordine sfasciatosi con Tangentopoli.
Brambilla introduce nella sua cronaca un altro importante elemento: la secolarizzazione favorita da una parte consistente del mondo cattolico, della Dc e da altri settori della Chiesa, che ha avuto una rilevante influenza sulla politica e sul costume (dal permissivismo all’impennata della diffusione della droga, al nichilismo) Si deve a questa ingombrante eredità se oggi si levano qua e là voci di singoli peti e di centri ecclesiastici che criticano con preoccupazione la cultura della destra, senza alcuna vergogna per le passate complicità, dirette o indirette, con il materialismo marxista.
Il libro di Michele Brambilla è tutto da meditare, non per la mania di voltarsi indietro, m per affrontare meglio il futuro, perché certamente fra gli ultimi sogni degli sconfitti di marzo campeggia quello mirabolante di un altro Sessantotto.