Juan Donoso Cortés
Marchese di Valdegamas
Stimatissimo signore,nel numero del 1 novembre della Revue des Deux Mondes è stato pubblicato un articolo pieno d’impegno, nel quale il signor Albert De Broglie entra in polemica con me su materie di altissima importanza. Anche se per istinto e convinzione sono poco portato a conversare con il pubblico, tuttavia ho creduto, in questa occasione, di non poter tacere, senza correre il pericolo di far ritenere avallati da me gravissimi errori.
Questo non vuole dire che entrerò in discussione, né tanto meno che intavolerò una polemica con quell’insigne scrittore. Tutti quelli che mi conoscono sanno bene che ritengo pericolose le polemiche e vane le discussioni; per questa ragione posso affermare di me stesso, e facendolo do testimonianza alla verità, che ho discusso poche volte e mai disputato.
Mi piace, non lo nego, e l’ho dichiarato altre volte, esporre semplicemente le mie opinioni; ma in generale non cerco né accetto la discussione, persuaso come sono che facilmente essa degenera in disputa, la quale finisce sempre per raffreddare la carità, accendere le passioni e indurre i contendenti a mancare a tre grandi doveri che ogni uomo ha verso gli altri uomini, verso la verità e verso se stesso.
Le parole sono come le sementi: io le getto al vento e lascio che cadano come piace a Dio, secondo la sua volontà, o sulle rocce sterili o sulla terra feconda. Non volendo il mio animo né discutere né disputare, le scrivo questa lettera solo per contrastare alcuni errori di apprezzamento nei quali, contro la sua volontà, è incorso il signor Albert de Broglie nel brillante articolo che dedica, in parte, all’esposizione delle mie dottrine.
Il primo consiste nell’affermare che io sono un idolatra del Medio Evo. Nell’Età Media ci sono molte cose: ci sono, da una parte, distruzioni di città, cadute d’imperi, lotte di razze, confusione di genti, violenze, gemiti; ci sono corruzioni, barbarie, istituzioni cadute e istituzioni nascenti; gli uomini vanno dove vanno i popoli, e questi ove altri vuole e loro non sanno; e c’è luce sufficiente per vedere che tutte le cose stanno fuori del loro posto e che non c’è posto per alcuna: l’Europa è il caos.
Ma oltre al caos c’è un’altra cosa. C’è la Sposa immacolata del Signore, e c’è un grande evento, mai visto dalle genti: una seconda creazione, fatta dalla Chiesa. Nella Età Media non c’è nulla che mi sembri meraviglioso quanto la creazione, e nulla tanto degno d’adorazione quanto la Chiesa. Per operare il grande prodigio, Dio scelse quei tempi oscuri, eternamente famosi sia per l’esplosione di tutte le forze brutali, sia per la manifestazione dell’impotenza umana.
Niente è più degno della Divina Maestà e grandezza che operare lì, dove uomini, popoli e razze, si agitano confusamente, e nessuno opera. Volendo Dio dimostrare in due grandi occasioni che solo la corruzione è sterile, e la verginità feconda, volle nascere da Maria e sposarsi alla Chiesa; e la Chiesa fu madre di popoli, come Maria madre di Cristo.
Si vide allora quella Vergine Immacolata adoperarsi come il suo divino Sposo, a sollevare gli animi dei caduti e a moderare l’impeto dei violenti, distribuendo agli uni il pane dei forti e agli altri il pane dei mansueti. Quei feroci figli del polo, che umiliarono e schernirono la maestà romana, caddero presi d’amore ai piedi dell’inerme Vergine; e tutto il mondo vide, attonito e stupito, per molti secoli, rinnovato dalla Chiesa, il prodigio di Daniele uscito incolume dalla fossa dei leoni.
Dopo aver amorosamente calmato quelle grandi ire, dopo aver rasserenato con un solo sguardo quelle tempeste furiose, si vide la Chiesa trarre fuori un monumento da una rovina, una istituzione da un costume, un principio da un fatto, una legge da una esperienza; e, per dirlo brevemente, l’ordine dal caos, l’armonia dalla confusione.
Senza dubbio tutti gli strumenti della sua creazione, ed il caos medesimo, esistevano già nel caos; ma essa dette loro la forza vivificatrice e creatrice. Nel caos c’era, come in embrione, tutto ciò che doveva essere e vivere. Nella Chiesa, priva di tutto, non vi era se non l’essere e la vita; ma tutto fu, ed ebbe vita, quando il mondo ascoltò attento le sue amorose parole e guardò la sua risplendente bellezza.
No, gli uomini non avevano visto una cosa simile perché non avevano assistito alla prima creazione, né torneranno a vederla, perché non ci saranno tre creazioni. Si direbbe che Dio, pentito di non aver fatto l’uomo testimone della prima, abbia permesso alla sua Chiesa la seconda creazione solo perché l’uomo potesse vederla.
Il secondo errore sta nel supporre che io consigli alla Chiesa un dominio universale e assoluto. Io non ho mai avuto, e mai l’avrò, la superba e insensata pretesa di consigliare Colei che ascolta e segue i consigli dello Spirito Santo. Ho gettato uno sguardo intorno a me ed ho visto le società civili inferme e decadute, e tutte le cose umane confuse e sconvolte; ho visto le nazioni ubriache con il vino della sedizione, e la libertà assente dalla terra; ho visto i tribuni incoronati, e i re senza corona.
Giammai gli uomini hanno presenziato a cosi grandi mutamenti e rovesci, a così prodigiosi alti e bassi della fortuna.
Nel vedere tutto ciò ho chiesto a me stesso se tutta questa confusione, e questo sconvolgimento, e questo disordine, non provengano per caso dall’oblio in cui sono caduti quei princìpi fondamentali del mondo morale, dei quali è pacifica depositaria ed unica posseditrice la Chiesa di Gesù Cristo. Il mio dubbio si è convertito in certezza nell’osservare che solo la Chiesa oggi offre lo spettacolo di una società ordinata; che essa sola sta quieta in mezzo a questi tumulti; che essa sola è libera, perché in lei il suddito obbedisce amorevolmente all’autorità legittima, che a sua volta comanda con giustizia e moderazione; che essa soltanto è feconda di grandi cittadini, che sanno vivere da santi e morire da martiri.
Ed alla vista di questo grande spettacolo ho detto alla società civile: “Tu sei derelitta e povera, e la Chiesa ricchissima: chiedile ciò che li manca, ed essa non te lo negherà, perché la sue mani sono piene di grazia ed il suo cuore colmo di misericordia. Cerchi l’ordine? Chiedine il segreto a chi è ben ordinata. Cerchi la libertà? Imparala nella scuola di Colei che è libera. Cerchi il riposo? Lo troverai solo nella Chiesa, e mercé la Chiesa, che ha la meravigliosa virtù di rasserenare tutto, e dare pace agli animi. Cerchi la nozione cristiana dell’autorità pubblica? Studia le grandi opere dei suoi grandi Pontefici. Cerchi il segreto delle gerarchie sociali? Chiedilo alla gloriosa moltitudine dei suoi vescovi e dei suoi patriarchi. Cerchi il segreto della dignitosa obbedienza e della dignità obbediente? Chiedilo alla nobilissima falange dei suoi sacerdoti. Vuoi essere feconda di figli che vivono e muoiono per la loro patria? Chiedile il segreto della santificazione e quello del martirio“.
Come si vede, non si tratta qui di accertarsi se la supremazia corrisponde al sacerdozio o all’Impero.
Si tratta solamente di accertare se conviene o no alla società civile di prendere dalla Chiesa i grandi princìpi dell’ordine sociale, e se le conviene o no essere cristiana. Il grande peccato di questi tempi mi sembra consista nel vano intento delle società civili di formare per loro proprio uso un nuovo codice di verità politiche e di principi sociali; nel vano intento di sistemare le proprie cose attraverso concezioni puramente umane, facendo una assoluta astrazione delle concezioni divine.
I governanti delle società civili hanno detto: “Dividiamo la creazione in tre imperi indipendenti. Il cielo sarà di Dio, e vi si concentreranno le divine concezioni: il Santuario della Chiesa, e vi si raggrupperanno le concezioni religiose; l’uomo impererà su tutto quello che c’è tra il santuario e il cielo, ed in questo vastissimo impero tutto si ordinerà attraverso le concezioni umane“.
Da qui quella grande esplosione di attività intellettuale per la quale l’uomo ha tentato di uguagliarsi da una parte alla Chiesa e dall’altra a Dio, e di elevare le sue concezioni al livello altissimo delle concezioni religiose e divine. Di qui il ritorno all’idolatria della propria grandezza, la più pericolosa di tutte, perché satanica. Da qui questo culto che le genti hanno verso gli uomini che con il loro ingegno hanno conquistato un trono nelle sfere intellettuali.
Da qui questa fiducia insensata dell’uomo negli altri uomini e in se stesso, che mi fa fremere per la sua imperturbabilità, anche dinanzi al naufragio universale di tutti i suoi vani pensieri e di tutte le sue vane illusioni.
Contate uno per uno, se potete, i fallimenti e le catastrofi dei nostri giorni, ed osserverete, pieni di stupore, che l’orgoglio è sempre punito con catastrofi ed è sempre causa di fallimenti. Dio suscita i tiranni contro i ribelli, ed i popoli ribelli contro i tiranni; è Lui che castiga l’orgoglio con un altro orgoglio, fino a che rimane soltanto il più grande, la cui umiliazione ha riservato a se stesso.
Le società dei nostri tempi, tornate all’infanzia, avevano finito per credere che avrebbero potuto evitare gli sguardi di Dio tappandosi gli occhi per non vederlo. Vano intento! Dio è venuto loro incontro da tutte le direzioni e ha tagliato loro il passo in tutte le strade.
Ed era veramente molto difficile non incontrare mai in alcuna parte Colui che vive in tutte le parti dall’eternità.
Come la sottomissione ai precetti divini non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la istituzione di un Governo teocratico, così il riconoscimento, in teoria e in pratica, delle verità fondamentali di cui è depositaria la Chiesa, non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la sua dominazione negli affari temporali.
La Chiesa giammai ha confuso queste due cose, così differenti fra loro. Per questa ragione, mentre cerca e chiede per i suoi dogmi, ed anche per i suoi princìpi, l’impero del mondo, perché questo non può sussistere senza sottomettersi a quelli, ha mostrato non solo indifferenza, ma orrore, ad ingerirsi nella direzione temporale delle cose umane.
Ci fu un tempo in cui l’Italia, abbandonata dai suoi imperatori e dai suoi capitani, e inondata dal diluvio dell’invasione, mise lo scettro, la corona e la porpora ai piedi dei suoi Pontefici, salutandoli pii, felici, trionfatori, come In altri giorni i suoi Cesari. La Chiesa tuttavia, e la Storia lo dice, ricevette il saluto popolare come Maria aveva ricevuto il saluto evangelico. Quae cum audisset, turbata est in sermone eius.
Né le lodi angeliche né i clamori popolari poterono insuperbire l’umile madre e sposa di Colui che il profeta chiama ludibrio delle genti e uomo dei dolori. Quando, coll’andare dei tempi, vediamo questi stessi Pontefici definire le lotte tra i popoli ed i re (fuori dei casi di aperta rivolta), piuttosto come padri amorosi che come giudici inesorabili, non bisogna chiedere loro perché esercitino quell’altissimo ministero e quel sovrano arbitrato. Ai re ed ai popoli tocca dire quale fu la forza invincibile e il poderoso istinto che li mosse a rivolgersi, per ottenere giustizia e pace, agli unici che allora erano sulla terra pacifici e giusti.
A noi tocca affermare senza tema di essere smentiti, che senza quella suprema giurisdizione. conferita per consenso universale alla Chiesa. l’Europa e la civiltà sarebbero perite insieme. Consci come siamo tutti, dei danni che possono operare le rivoluzioni e le tirannie in questi tempi in cui non c’è braccio che non sia debole né volontà che non vacilli, non ci può essere difficile calcolare le gigantesche catastrofi che sarebbero cadute sull’Europa se la Chiesa non fosse stata una diga, in quei tempi violentissimi, contro lo straripamento delle grandi tirannici; e contro il furore delle grandi rivoluzioni.
Comunque sia, l’epoca memorabile ed eccezionale della sua gloriosa dittatura sul popolo cristiano è ormai passata, simile sotto diversi aspetti a quella che Dio ha personalmente e direttamente esercitato sul popolo giudeo. Oggi tutte le cose sono tornate al loro stato normale; e nello stato normale delle cose la Chiesa non opera sopra la società che attraverso una influenza segretissima, così come Dio opera sull’uomo segretamente e tacitamente attraverso la sua grazia.
Questa meravigliosa analogia tra la maniera di operare della Chiesa sulla società e di Dio sull’uomo è una prova di più della straordinaria semplicità che Dio pone nei suoi mezzi e dell’inconcepibile profondità ed estensione che dà ai suoi disegni.
Tuttavia, lasciando da parte le importanti e curiose osservazioni che si potrebbero trarre da questa meravigliosa analogia, non permettendolo i ristretti limiti di una lettera, mi accontenterò di osservare che tra Dio e la Chiesa c’è un’altra somiglianza, e cioè che entrambi amano esser sopraffatti dall’uomo.
Dio è conquistatore solo di quelli che, sollecitati dalla sua grazia, conquistano il cielo, e la Chiesa è conquistatrice soltanto di quelli che, vinti dalla sua influenza, conquistano violentemente il suo santuario. Che le nazioni cristiane entrino da padrone nella Chiesa; che si vestano con le sue spoglie divine; che mangino il suo pane fino a saziare la loro fame; che bevano tutte alle sue fonti sorgive fino a dissetarsi; questo è ciò che io chiedo, ciò che Essa vuole, ciò che io intendo per dominio della Chiesa.
Veniamo ora all’accusa più diffusa e, sotto un certo aspetto, più grave: consiste nell’affermare che io aspiro ad inculcare negli animi la necessità di una restaurazione del Medio Evo.
Nell’Età Media vi sono da considerare due cose: quei fatti, quei princìpi e quelle istituzioni che ebbero origine nella civiltà propria di quell’età; e quei fatti, quei princìpi e quelle istituzioni che, sebbene realizzati allora, sono la manifestazione esteriore di certe leggi eterne, di certi princìpi immutabili e di certe verità assolute. Io condanno all’oblio tutto ciò che gli uomini istituirono in quella Età perché passasse con quella Età e con quegli uomini, e reclamo con insistenza la restaurazione di tutto ciò che, come fu tenuto per certo in quella Età, è certo perpetuamente.
Il catalogo di ciò che bisogna lasciare e di ciò che bisogna prendere nell’Età Media riempirebbe le pagine di questa Rivista, e la dimostrazione dell’esattezza di quel catalogo basterebbe a riempire alcuni volumi. Avendo in animo, nello scrivere questa lettera, di esporre piuttosto che dimostrare le mie dottrine, per evitare che mi si attribuiscano quelle che non ho, basterà per il mio proposito dare un’idea sommaria di quello che vorrei vedere restaurato nell’ordine politico.
Una cosa richiama vivamente la mia attenzione nell’Età Media, ed è la sua costante tendenza, anche se quasi sempre infruttuosa, a costituire la società e il Potere conformemente ai princìpi che formano come il Diritto pubblico delle nazioni cristiane; così mi spaventa la tendenza della società attuale a costituire se stessa e il Potere pubblico conformemente a certe teorie ed idee che porterebbero i popoli, attraverso cammini sconosciuti, fuori dalle vie cattoliche. Il risultato finale di quella felice tendenza fu la costituzione della Monarchia ereditaria; il risultato delle tendenze presenti sarà infallibilmente la realizzazione di un Potere demagogico, pagano nella sua costituzione, e satanico nella sua grandezza.
L’avvento di questo Potere colossale potrà essere ritardato dall’incoscienza degli uomini e dalla misericordia divina; ma se la società non muta direzione, il suo avvento in un futuro non molto lontano, nonostante i venti contrari che oggi regnano in Europa, mi sembra inevitabile.
Io mi propongo di esporre qualche cosa, delle molte che potrei dire, intorno agli opposti princìpi che sopra la costituzione del Potere e della società sono come l’anima di queste contrarie tendenze.
C’è una legge sovrana che Dio ha imposto al mondo: in virtù di questa legge, è necessario che l’unità e la varietà, che sono nello stesso Dio, si trovino, in un modo o nell’altro, in tutte le cose. Perciò l’insieme di tutte le cose porta il nome di universo, parola che, scomposta, vuol dire unità e varietà unite in uno. Nella società l’unità si manifesta attraverso il Potere, e la varietà attraverso le gerarchie; ed il Potere e le gerarchie, come l’unità e la varietà che rappresentano, sono inviolabili e sacre, come la loro coesistenza è allo stesso tempo il compimento della legge di Dio e la garanzia della libertà del popolo.
La Monarchia ereditaria, così come è esistita nei tempi che passarono tra la Monarchia feudale e l’assoluta, è l’istituzione più perfetta e compiuta del Potere politico e delle gerarchie sociali. Il Potere era uno, perpetuo e limitato: uno nella persona del re, perpetuo nella sua famiglia, limitato perché dovunque trovava una resistenza materiale in una gerarchia organizzata. Le assemblee di quei tempi non furono mai un Potere.
Quando la Monarchia, senza essere assoluta, fu tuttavia forte, quelle furono una diga, e niente più; ai tempi della debolezza dei troni furono un campo di battaglia. Coloro che hanno voluto vedere in esse l’origine dei Governi parlamentari, ignorano ciò che è un Governo parlamentare e non sanno qual è la sua origine. Indicherò più avanti ciò che costituisce la sostanza di questo Governo, e quale è la sua origine.
A questa Monarchia, che non esito a qualificare il più perfetto di tutti i possibili Governi, è succeduta, con il volgere dei tempi, la Monarchia assoluta, ed il suo avvento ha coinciso con due avvenimenti memorabili: con la restaurazione del paganesimo letterario e con l’insurrezione religiosa.
La civiltà moderna non poteva venire al mondo sotto auspici più tristi. Guardatela bene, e vedrete che questa civiltà non è altro, nell’ordine religioso, politico, e morale, che una costante decadenza.
La Monarchia assoluta ebbe questo di buono, che conservò l’unità e la continuità del Potere; ebbe di cattivo che soppresse e disprezzò le resistenze e le gerarchie, violando così la legge di Dio. Un Potere senza limiti è un Potere essenzialmente anticristiano, ed un oltraggio alla maestà di Dio e alla dignità dell’uomo. Un potere senza limiti non può essere mai né un ministero, né un servizio; e il Potere politico, sotto l’impero della civiltà cristiana, non è altro che questo. Il Potere senza limiti è, d’altra parte, una idolatria, così nel suddito come nel re: nel suddito perché adora il re, e nel re perché adora se stesso.
Nelle rovine monumentali d’Egitto non è raro trovare insieme due statue che rappresentano una medesima persona: una di esse nell’atto di adorare e l’altra nell’atto di essere adorata. Ciò significa che Ramses re è in adorazione di Ramses dio. Queste due statue potrebbero simbolizzare le nostre Monarchie assolute, se gli uomini del nostro tempo avessero il genio simbolico degli Egizi. Cosa si può sperare da una civiltà che restaura la civiltà dei Faraoni quando può avere a modello la Monarchia cristiana!
Il parlamentarismo ha la sua origine in una reazione contro la Monarchia assoluta. Io non conosco nella Storia una reazione più funesta. La Monarchia assoluta, che è la negazione della Monarchia cristiana in una delle sue condizioni fondamentali, è, tuttavia, l’affermazione di questa stessa Monarchia in due delle sue condizioni essenziali. Il parlamentarismo la nega in tutta la sua essenza ed in tutte le sue condizioni.
La nega nella sua unità, perché converte in tre ciò che è uno con la divisione dei Poteri; la nega nella sua perpetuità, perché pone il suo fondamento in un contratto, e nessuna potestà è ammissibile se le sue basi sono variabili; la nega nella sua limitazione, perché la trinità politica nella quale la potestà risiede, o non opera per impotenza, infermità organica causata dalla divisione, o opera tirannicamente, non riconoscendo fuori di sé ne trovando intorno a sé alcuna resistenza legittima. Per ultimo, il parlamentarismo, che nega la Monarchia cristiana in tutte le condizioni della sua unità, la nega nella sua varietà e in tutte le sue condizioni, mercé la soppressione delle gerarchie sociali.
Questa soppressione è, in primo luogo, un fatto. Dove il parlamentarismo prevale, lì vanno scomparendo le corporazioni e tutte le gerarchie, senza lasciare nessuna traccia né memoria di sé. In secondo luogo, è un principio. Infatti, secondo la teoria parlamentare, non bisogna ammettere nessuna influenza tra il re e le assemblee deliberanti, se non quella dei ministri, che sono i suoi ambasciatori; né tra il Parlamento e le masse, se non quella del corpo elettorale, aggregazione arbitraria e confusa che si forma ad un segnale convenuto e che, ad un altro segnale, si scompone, mentre i suoi membri restano dispersi fino a che torni a risuonare la voce che ordini loro di riunirsi.
Debbo ripeterlo: io non concepisco una negazione più radicale, più assoluta, più completa, di quella legge che impone l’unità e la varietà a tutte le cose, e le sue condizioni speciali a ciò che è vario ed a ciò che è uno; così come non concepisco una affermazione di tale legge, più bella e solida di quella che il Medio Evo, ispirato dal genio cattolico, trovò al termine del suo affannoso cammino nella monarchia cristiana.
Da ciò che si è detto si vede quanto grande sia l’errore di coloro che, paragonando il parlamentarismo con il socialismo, credono che questo sia una negazione estrema e quello una negazione mitigata. La differenza tra l’uno e l’altro non è nel radicalismo della negazione, dato che entrambi negano tutto e radicalmente, bensì è nel fatto che, mentre l’uno nega tutto nelle sfere politiche, l’altro porta la sua negazione fino nelle sfere sociali.
Considerando soltanto le apparenze e le forme, il parlamentarismo dei nostri giorni ha modelli ed antecedenti in tutti i tempi ed in tutte le parti. Li ha in Inghilterra, dove si governa tutto attraverso due Camere d’accordo con la Corona; li ha nei tempi passati in tutte le nazioni europee, dove il clero, la nobiltà e le città erano chiamati a deliberare sugli interessi pubblici.
Ma se, lasciando da parte le apparenze e le forme, andiamo diritti all’intima e profonda sostanza della questione, se insistiamo perché queste forme, identiche tra loro, ci rivelino lo spirito nascosto che le anima, troveremo che il parlamentarismo che anni addietro prevalse nel continente è una cosa nuova nel mondo, senza che sia possibile trovare né il suo antecedente ne il suo modello nella Storia.
Se, incominciando dalla Costituzione britannica; ci mettiamo ad esaminare non solo la sua organizzazione esterna ma anche, e principalmente, la sua struttura interna prima delle ultime riforme, troveremo che lì la divisione del Potere ha mancato sempre di ogni realtà, essendo solo una vana apparenza. La Corona non era un Potere, nemmeno una parte costitutiva del Potere: era il simbolo e l’immagine della nazione, la quale, incoronando il re, incoronava se stessa.
Essere il re non significava né regnare né governare: era, puramente e semplicemente, ricevere adorazioni. Questo stato passivo della Corona esclude di per sé l’idea del Potere e del Governo, incompatibile con l’idea di una perpetua inazione e di un perpetuo riposo. La Camera dei Comuni non era altro, nella sua composizione e nel suo spirito, che la sorella minore della Camera dei Pari.
La sua voce non era una voce, ma un’eco. La Camera dei Pari era, con questo modesto titolo, il vero, l’unico potere dello Stato. L’Inghilterra non era una Monarchia, ma una aristocrazia, e questa aristocrazia era un Potere uno, perpetuo e limitato : uno, perché risiedeva in una persona morale, animata da un solo spirito; perpetuo, perché questa persona morale era una classe dotata, per la legislazione, dei mezzi necessari per vivere perpetuamente; limitato, perché la Costituzione, le tradizioni e i costumi l’obbligavano ad adattarsi in pratica alla modestia del titolo.
Da ciò che è stato detto si vede come la nazione inglese ha sempre riconosciuto, nella pratica della sua costituzione, le condizioni essenziali, e come tali divine, del Potere pubblico; condizioni che sono implicitamente o esplicitamente negate da ciò che nel continente porta il nome di Governo parlamentare. Le riforme introdotte nella Costituzione inglese in questi ultimi tempi sono una vera rivoluzione colma di catastrofi.
La Provvidenza, che si compiace di confondere la sapienza dei saggi e la prudenza dei prudenti, ha permesso che l’Inghilterra sia conquistata dal nostro parlamentarismo, nello stesso momento in cui aveva ritenuto di averci conquistato con le sue istituzioni. Questa conquista dell’Inghilterra da parte dello spirito continentale sarà il grande argomento di meditazione delle generazioni future e degli storiografi che verranno, a meno che, per uno sforzo gigantesco del buon senso, che ha sempre prevalso in quella bella e potentissima razza, non riesca ad espellere il molesto ospite che si è introdotto nella sua casa.
Per quel che riguarda le assemblee, che con differenti titoli anche se con uguale scopo, si costituirono nell’Età Media per deliberare negli affari pubblici, è impossibile trovare nella loro originale e pittoresca fisionomia le caratteristiche delle nostre assemblee deliberanti.
Nell’Età Media, considerata dal punto di vista che ci interessa, bisogna distinguere due periodi storici: il primo, e il più lungo, è quello della nascita vigorosa, spontanea, ma disordinata e confusa, delle grandi forze sociali; il secondo è quello in cui queste forze si subordinano le une alle altre ed in cui prevalgono definitivamente nella società le nozioni della gerarchia, dell’ordinamento, della giustizia e del diritto.
Il primo di questi due periodi storici affronta e circoscrive un grande problema che tenta invano di risolvere, mentre è il secondo che ne trova la soluzione. Il problema era di trovare il modo di fare uscire il diritto dalla forza, trasfigurandola in autorità legittima. A questo grande e unico fine si indirizzano i giganteschi sforzi della società in quegli agitatissimi tempi.
La soluzione di questo problema era oltretutto difficile e scabrosa in una Età in cui, essendo molte le forze, tutte aspiravano al principato. Da ciò quelle alleanze interessate ed effimere, quelle scorrerie devastatrici, quei saccheggi sanguinosi, quelle ostilità senza risultato e senza scopo, quella inquietudine diffusa in tutti gli animi, quella instabilità di tutte le condizioni e di tutte le cose.
II Trono non è abbastanza alto per dominare il castello feudale; e mentre questo si veste di ferro per resistere al Trono, l’umile Comune scende ai piedi della collina per combatterlo ed emanciparsi. C’erano due mezzi per uscire da tale situazione: vincere o venire a patti, combattere o intendersi. Questo spiega perché, vista la sterilità delle contese, le genti di quella Età scelsero istintivamente il mezzo delle transazioni.
Le assemblee furono appunto il mezzo di transazione, così come le guerre civili furono il mezzo per arrivare ad una soluzione attraverso una vittoria. Ma era scritto che tutto dovesse avere un risultato opposto a quello che speravano; perché dalle assemblee, mezzo di transazione, spesso nacque la guerra, come dalle contese civili, cominciate e proseguite con l’intento di trionfare, nacquero spesso transazioni.
Venendo al paragone tra l’indole, lo spirito ed il proposito delle assemblee di quei tempi ed il proposito, lo spirito e l’indole di quello dei nostri giorni, troveremo che sono non soltanto differenti tra loro, ma del tutto opposte. In effetti, quelle apparvero in tempi in cui la società cercava da tutte le parti un Potere senza trovarlo, e gli uomini si riunirono in assemblee solo per tentare se con questo nuovo mezzo potevano trovare ciò che cercavano.
Al nostri giorni avviene tutto il contrario, perché la società è governata da un Potere già organizzato e costituito, ed i rappresentanti del popolo si organizzano solo per eliminarlo attraverso una trasformazione che lo distrugge. In mezzo al disordine universale il Medio Evo si rivolge infruttuosamente ma costantemente, con una inclinazione invincibile, e come obbedendo alla legge di gravitazione, verso la costituzione cristiana del Potere, fine di tutte le aspirazioni legittime, centro di tutte le gravitazioni sociali.
In mezzo all’ordine universale ed all’universale armonia, le società moderne, come corrose da una segreta inquietudine e da un male oscuro nelle sue cause, misterioso nella sua essenza e satanico nei suoi risultati, fuggono il tedio e il riposo, e, abbandonandosi alla mercé di tutte le forze centrifughe, cercano non so quale centro in un so quali abissi.
Ciò avviene perché il Medio Evo, anche se in mezzo alla disarmonia totale, era dominato dal principio cattolico; mentre le società moderne, anche se in mezzo all’ordine materiale, sono dominate dallo spirito rivoluzionario. Era il principio cattolico che nell’Età Media traeva il bene dal male; ad esso furono dovute, in quei tempi oscuri, tutte le tendenze salutari; mentre dallo spirito rivoluzionario hanno origine tutte le nostre tendenze distruttrici.
L’uno e l’altro hanno prevalso in queste due grandi epoche con un dominio assoluto. Sarebbe stato impossibile riunire allora una assemblea che da qualche lato non fosse stata cattolica, come sarebbe impossibile oggi riunire un’assemblea che non fosse da qualche lato rivoluzionaria.
Mi sembra che Albert de Broglie cada in una grande illusione quando propone al cattolicesimo una alleanza con la libertà, bel frutto, anche se un po’ acerbo, della civiltà presente, La sua illusione nasce da due errori, dal credere che il cattolicesimo e la libertà siano cose che per stare insieme abbisognino di trattati e di alleanze, e che la civiltà attuale e la libertà siano una stessa cosa.
La verità è che, lì dove il cattolicesimo domina, l’uomo è libero, e che il genio che presiede allo sviluppo e alla crescita della civiltà attuale non è il genio della libertà, ma quello delle rivoluzioni. Non nego che ci siano spiriti nobili e generosi, come quell’illustre scrittore, che innalzano al cielo le loro proteste in nome della libertà vinta ed umiliata; ma affermo che questi nobili condottieri di una causa nobile, chiedendo la libertà, chiedono esattamente alla civiltà ciò che ad essa ripugna, e alla loro epoca ciò che essa non può dar loro.
Due volte hanno tentato di instaurarla: la prima, per mezzo dell’iniziativa reale; la seconda, per mezzo dell’iniziativa parlamentare. La rivoluzione del 1830 venne a chiedere conto alla Monarchia di ciò che aveva fatto, e distrusse la Monarchia, esiliando il re e la famiglia reale. Il 24 febbraio una frenetica demagogia venne a chiedere conto alla Camera attonita dell’iniziativa che essa aveva preso.
Quando vedo la Monarchia legittima tra la prima rivoluzione e quella del 1830, e la Monarchia di luglio tra la rivoluzione del 1830 e quella del 1848, chiedo a me stesso se chiamare libertà ciò che sta tra queste due rivoluzioni non sia la stessa cosa che chiamare libero l’uomo che sta tra due gendarmi. Gendarmi e rivoluzioni: questa è l’unica cosa che vi ha dato e che vi prepara l’epoca che chiamate vostra e la civiltà che ammirate.
Tornando a riallacciare il filo del mio discorso, dirò che se tra le assemblee moderne e quelle dell’Età Media, nel loro periodo anarchico, non è possibile trovare punti di contatto o relazioni, è ancora più impossibile trovare alcun genere di somiglianza tra le assemblee che .fiorirono quando il potere reale era già cresciuto, ed era robusto, e le assemblee attuali. E infatti, la loro differenza essenziale salta agli occhi.
Le prime non erano altro che una forza sociale, vale a dire che, considerate in rapporto al Potere pubblico, il quale risiedeva esclusivamente nel re, formavano una resistenza organica ed un limite naturale alla sua espansione indefinita. Le assemblee attuali, che non sempre sono una forza né un limite, costituiscono sempre un Potere nello Stato, e, quel che è peggio, un Potere in lotta ed in concorrenza perpetua con gli altri Poteri. Non è possibile alcuna illusione; cercare una qualsiasi somiglianza tra queste due istituzioni mi sembrerebbe una forma molto singolare di pazzia.
Ed ora domando: se il nostro parlamentarismo non ha origine dall’Età Media né dal parlamentarismo della Gran Bretagna dov’è la sua ragione di essere e da dove ha avuto origine?
Il nostro parlamentarismo ha origine esclusivamente nello spirito rivoluzionario, che è lo spirito proprio della civiltà moderna, o per meglio dire, lo spirito rivoluzionario stesso considerato nella sua prima evoluzione. Questo serve a spiegare perché esso va, naturalmente, diritto contro il Potere e perché, per essere sicuro di ucciderlo, comincia con il dividerlo.
No, il parlamentarismo non è ispirato dalla libertà. Se così fosse, cercherebbe la limitazione del Potere e avrebbe in orrore la sua divisione, che è poi il suo annientamento. Se cosi fosse, rispetterebbe nel Potere la sua augusta unità e la sua santa perpetuità. Se il parlamentarismo fosse la libertà, rispetterebbe le gerarchie sociali, queste robuste cittadelle dalle quali i popoli liberi difendono contro i tiranni la loro libertà.
Chiedere la libertà al parlamentarismo è chiederla alla rivoluzione, e la rivoluzione non ha mai portato nelle sue sterili viscere la libertà, figlia del cielo e consolazione della terra. Il parlamentarismo, sopprimendo le gerarchie, che sono la forma naturale, e per conseguenza divina, di ciò che è vario, e togliendo al Potere quello che ha di indivisibile, che è la condizione divina, naturale e necessaria di ciò che è uno, si pone in aperta ribellione contro Dio, in quanto è creatore, legislatore e conservatore delle società umane.
In tale stato di ribellione permanente, è obbligato a trovare la soluzione di un gran problema sotto ogni punto insolubile. Il problema consiste nel cambiare con i suoi sforzi la natura intrinseca delle cose, in modo tale che possano sottomettersi e si sottomettano all’impero delle idee umane, e che possano sottrarsi e si sottraggano all’impero delle leggi generali ordinarie, stabilite dall’intelligenza divina. Il suo intento è di rinnovare, nell’ordine politico e sociale, la guerra dei Titani, guerra seguita dalla stessa fine e dalle stesse punizioni; per scalare il cielo mettono invano un monte sopra un altro monte, Ossa su Pelio, Pelio su Ossa. II fulmine toccherà la fronte del titano prima che la sua mano empia possa toccare la cima.
Ho detto che il problema è grande e insolubile. La sua grandezza serve per spiegare la magnifica fioritura di forze intellettuali che si osservano sempre nei Governi parlamentari. L’uomo sente istintivamente che dinanzi ad essi è solo e che per non perire deve compiere prodigi; per continuare nella sua impresa è necessario che sia a un tempo stesso Dio e uomo: Dio, per mutare le cose e le sue leggi; uomo, per applicare le nuove leggi alle cose nuove.
È legge del mondo morale che la divisione generi la discordia e che questa sfoci nella guerra. Il parlamentarismo sconvolgerà il mondo morale, le sue condizioni e le sue leggi; compirà la divisione, e in essa collocherà i tabernacoli della pace, attraverso una legge che Dio aveva indicato e che si chiama legge di equilibrio.
La discordia, perduto ad un tempo il suo nome e la sua natura, si chiamerà vita: e, governata dai moderni taumaturghi, si trasformerà in movimento ordinato ed in agitazione salutare. La soppressione delle gerarchie sociali porta con sé, secondo l’ordine stabilito da Dio, l’uguaglianza nell’anarchia comune e nella comune servitù.
Da oggi in poi, tutto in un altro modo: l’uomo, invece di trarre il somigliante dal somigliante, l’analogo dall’analogo, l’identico dall’identico, trarrà il contrario dal contrario. In virtù di questa nuova legge egli trarrà dall’eguaglianza che cerca uno stesso livello, la libertà che, essendo una disuguaglianza ed un privilegio, cerca livelli distinti. Dio aveva voluto che gli uomini potessero scegliere tra l’essere liberi, o uguali: l’uomo concepirà un intento più alto, e correggendo l’opera imperfetta di Dio, farà i suoi fratelli di colpo, uguali e liberi.
Come la grandezza del problema che si tratta di risolvere spiega sufficientemente il grandioso fiorire delle intelligenze nei Governi parlamentari, così questo stesso fiorire delle intelligenze spiega tanti altri fenomeni. Sotto l’impero del parlamentarismo, l’ingegno, strumento atto a risolvere il grande problema, è tutto, ed il resto è nulla; da qui l’idolatria dell’ingegno in cui stanno cadendo, una dopo l’altra, tutte le nazioni. Supposta questa idolatria, non c’è nulla di più ragionevole del fatto che tutti aspirino ad essere sapienti per essere adorati: da ciò uno spaventoso disordine nelle vocazioni individuali. Tutti devono prendere la medesima strada e tutti devono essere i primi sulla strada comune.
Supposto quest’ordine di cose e questo genere di aspirazioni e di impulsi, si osservi ciò che infallibilmente accadrà. Tutte le cose umane perdono subitamente la loro sicurezza ed il loro equilibrio. Più sono in auge le intelligenze, più sono svalorizzati i caratteri morali: segno infallibile di decadenza. Nessuno sa dire, in mezzo al generale squilibrio e all’universale sconcerto, se il mondo è in guerra o in pace.
Da una parte c’è troppa agitazione e troppa inquietudine perché questo stato di cose meriti il bel nome di pace; dall’altra, non si scorge in nessun luogo quell’apparato bellico, quegli ordinati tumulti, quei grandi movimenti e quelle grandi evoluzioni di gente armata che porta con sé la guerra. Il mondo sta quasi sui confini di queste due grandi cose: non è in pace perché gli animi sono inquieti, non in guerra perché le braccia stanno ferme; si trova in uno stato permanente di discordia e di disputa, la quale, senza essere la pace degli uomini, è la guerra tipica delle donne.
Per essere pace le manca ciò che essa ha d’invidiabile e di augusto, la tranquillità inalterabile degli animi, e per essere guerra le manca ciò che essa ha di fecondo e di espiatorio, cioè il sangue. Il parlamentarismo, trasportando la guerra dal campo di battaglia alla tribuna, e dalle braccia agli spiriti, l’ha tolta dal luogo dove si esalta e si fortifica, per portarla dove s’indebolisce e si prostra. Dio ha sempre dato l’impero alle razze guerriere ed ha condannato alla servitù le razze litigiose.
Quello che c’è di grande in questo problema serve a spiegare, da un lato lo sviluppo anormale della intelligenza umana, e dall’altro le conseguenze disastrose che questo stesso sviluppo, per quanto ha di anormale e di gigantesco, trae con sé. Allo stesso modo quello che c’è di insolubile in questo problema serve a spiegare la fine miserabile a cui giungono necessariamente tutte queste cose.
Nella lotta dell’uomo contro Dio, né l’uomo poteva essere vincitore, né Dio vinto, perché se Dio per rispetto della sua libertà gli ha permesso il combattimento, gli ha però negato la vittoria. È scritto che ogni impero diviso deve perire. II parlamentarismo, che divide e turba gli animi, che disperde tutte le gerarchie, che divide il Potere in tre Poteri e la società in cento partiti, che è la divisione di tutto, ed in tutte le parti, nelle regioni alte, medie, e basse, nel Potere, nella società, nell’uomo, non poteva sottrarsi, non si è mai sottratto e non si sottrarrà giammai all’impero di questa legge inesorabilmente sovrana.
Per un certo tempo, non molto lungo, il parlamentarismo riesce a mantenersi in piedi incantando le orecchie con il prestigio della parola e offuscando gli occhi con la porpora dell’eloquenza; ma ben presto precipita a terra, perdendo la sua sicurezza ed il suo equilibrio.
Il parlamentarismo può morire di morte naturale o di mano violenta. La sua morte naturale avviene in questa maniera. Poiché il problema da risolvere consiste, da una parte, nel costituire un Governo vigoroso per mezzo dell’accordo di tre Poteri differenti, e dall’altra, nel dare la libertà agli uomini, resi uguali dalla soppressione delle gerarchie, il Potere comincia, naturalmente, col passare nelle mani di quelli che per la loro grande intelligenza si trovano nella possibilità di dare la soluzione di questo difficile problema, traendo la libertà dall’uguaglianza ed un Governo vigoroso da un Potere diviso.
Arrivati al Potere, messi faccia a faccia con il terribile problema e con il pauroso enigma, la loro base comincia a vacillare, la loro testa soffre di vertigini, e la loro intelligenza si indebolisce; le azioni non corrispondono alle parole, il problema non si risolve e la promessa non si compie.
Allora vengono i grandi tornei parlamentari, e si cerca di appurare perché l’enigma non si scioglie, perché non si risolve il problema, perché non si compie la promessa, e perché le cose dette non sono state fatte. Ecco quindi le crisi ministeriali, i frazionamenti della maggioranza, il rancore degli animi, l’accendersi delle passioni. Le maggioranze diventano incerte, i Ministeri stabili diventano impossibili; un Ministero si sussegue a un altro, un oratore a un altro, e tutti avanti così, in un rapido e vorticoso turbine.
Il parlamentarismo comincia con l’offrire alla società un Governo vigoroso, ma fin dai primi passi la abbandona senza protezione perché la lascia senza Governo.
Frattanto incominciano ad agitarsi ed a fare il loro ingresso in scena i muti spettatori di questo grande spettacolo. Tra questi, alcuni stanno più vicini a quella fornace incandescente ed altri più lontano. I primi sono generalmente uomini di scarso intendimento e di debole volontà, condannati da Dio ad una perpetua mediocrità; gli altri sono abitanti di non so quale inferno, in cui la società li relega, timorosa dei loro istinti violenti.
La società, turbata in tutti i suoi strati (da quelli altissimi ai più bassi), dallo strepito delle liti parlamentari, si scuote tutta in una volta, ed i cuori, con ansiosa incertezza per l’avvenire, sono colti da timore e spavento. Allora per l’atmosfera si spargono vaghi e timorosi rumori contro coloro che da soli occupano il campo di battaglia. Udite attentamente ciò che si dice di essi. Di uno si afferma che è poeta e che serve solo per conversare con le muse; di un altro, che è filosofo e che non s’intende d’altro che della sua filosofia; di questo, che è inadatto all’azione, e che risolve tutto con le chiacchiere; di quello, che è ambizioso e vecchio; di tutti, che sono Burgravi, cioè li si condanna al maggiore di tutti gli obbrobri ed alla più grande delle ignominie.
Quando ciò avviene, allora i fondatori ed i sostenitori del Governo parlamentare, e anche lo stesso Governo parlamentare, sono perduti senza rimedio. Il problema li uccide perché non hanno potuto risolverlo; e non avendo potuto trovare la soluzione dell’enigma, vanno a cadere nella gola della sfinge. Se non muoiono per mano violenta, come di solito accade, l’invidiosa mediocrità si impadronirà di essi, e li strapperà dalla tribuna, teatro della loro eloquenza, e dalle loro sedie curiali, mute testimoni delle loro glorie.
Questa evoluzione mi sembra logica, necessaria, inevitabile, lì dove il parlamentarismo ha la disgrazia di non morire violentemente. Io non so se vi sia sulla terra uno spettacolo più solennemente triste e un insegnamento più grande di quello della mediocrità che guarda l’intelligenza dall’alto in basso, e di quello del silenzio, signore della tribuna da cui parlò l’eloquenza.
Questo somiglia nell’ordine morale a ciò che succederebbe nell’ordine fisico se vedessimo il monte posto sotto la valle e la valle in cima al monte. Tremendo, ma giusto castigo di coloro che tentarono, nella loro pazzia, di scalare il cielo e cancellare nella creazione l’impronta augusta delle concezioni divine!
Che il parlamentarismo muoia per mano violenta è cosa risaputa. Muore quando si presenta un uomo che ha tutto ciò che manca al parlamentarismo; che sa affermare e sa negare, e perpetuamente afferma e nega le stesse cose: muore quando le moltitudini, giunta la loro ora provvidenziale, chiedono avidamente di assistere, ed assistono, al festino parlamentare; muore lasciando la società nelle mani della rivoluzione e nelle mani della dittatura, che ne prendono l’eredità, ad un tempo, e per la forza del diritto e per il diritto della forza. Per il diritto della forza perché sono le più forti; per la forza del diritto, perché sono sue figlie.
Non ignoro che questa progenitura è sconosciuta e negata, ma io l’affermo risolutamente, e la dimostro in tale modo che in futuro non potrà essere né negata né disconosciuta. Questa grande questione non ha bisogno, per essere risolta, che di essere ben impostata. Cosa fa il parlamentarismo? Divide il Potere e sopprime le gerarchie. Quando muore cosa lascia dietro di sé? O un Potere armato della forza sociale dinanzi ad individui dispersi o una massa furiosa dinanzi a un Potere diviso.
Ora io chiedo: cos’è questo secondo potere se non una rivoluzione? Cos’è il primo se non una dittatura? E cosa sono la rivoluzione e la dittatura se non figlie della sua volontà, ossa delle sue ossa e carne della sua carne? Conosciuto il parlamentarismo nella sua origine, nella sua natura e nella sua storia, mi manca solo definirlo, e lo definisco così: il parlamentarismo è lo spirito rivoluzionario nel Parlamento.
La mia condanna non cade sul Parlamento, che è il bicchiere, ma sullo spirito rivoluzionario, che è il liquore. Spandete il liquore che contiene, ed io accetterò il bicchiere; ma quando dico: spandete il liquore che contiene, voglio dire: datemi un Parlamento che non sia un Potere, ma una resistenza al Potere, che è per sua natura limitato, perpetuo ed uno; datemi un Parlamento che non sopprima le gerarchie, perché esse sono per la società ciò che l’unità è per il Potere, cioè la condizione necessaria della sua esistenza.
Nel combattere il parlamentarismo compio il più santo, ma allo stesso tempo il più doloroso dei miei doveri. Sì, il più doloroso, perché ho molti e buoni amici che furono astri nel firmamento parlamentare; stelle cadute dal cielo e oggi spente da un nuovo sole che ha fatto il suo ingresso trionfale all’orizzonte.
Questi re della parola e della tribuna sono sempre dei re, per me, sebbene i loro blasoni siano caduti e screditati. Il raggio che toccò le loro fronti li santifica ai miei occhi, perché la maestà dell’infortunio rialza e santifica anche le maestà più eccelse.
Io lo giuro: se il parlamentarismo non avesse condannato a morte la società con una condanna inesorabile, essi l’avrebbero salvata; per salvarla iniziarono quei nobili combattimenti, dei quali la storia ricorderà perpetuamente la grandezza. Io li ho visti nella loro eroica sfida contendere la società all’abisso che la reclamava come cosa sua; io li ho visti tenerla sospesa tra l’abisso e il ciclo per molti anni e sono rimasto attonito davanti al divino potere dell’eloquenza e al miracolo della parola…
E perché non debbo dire tutto ciò che sento nel mio petto, anche se in esso non v’è che debolezza e miseria? Io non ho coraggio per condannare l’eloquenza, anche se è colpevole. La condannino i giusti; quanto a me, non so come avvenga; ma, quanto più il suo peccato mi offende, quanto più ella pecca, tanto più io continuo ad amare questa bella peccatrice.
Il suo affezionato e rispettoso
Marchese di Valdegamas