Dietro i sì alla clonazione umana il vecchio spettro dell’eugenetica

Articolo pubblicato su Avvenire

Nel ’32 New York ospitò gli studiosi che sostenevano la selezione delle nascite. In America molti Stati praticavano la sterilizzazione dei «meno adatti alla vita»

di Maurizio Blondet

Nell’agosto del 1932 (attenti alla data: un anno prima che Hitler andasse al potere a Berlino) si tenne a New York il terzo Congresso internazionale di Eugenetica. Sede dell’evento il Museo di storia naturale della metropoli, trasformato per l’occasione in una sfarzosa esposizione dei “progressi dell’eugenetica”.

Numerose vetrine illuminate esibivano per lo più teschi di “razze inferiori” estinte o viventi, paragonate con l’ampia nobile scatola cranica dell’Uomo Bianco. Le relazioni scientifiche che vi furono presentate sono del più grande interesse anche oggi.

Il presidente del Museo, lo zoologo Henry Fairfield Osborne, spiegò che la «crisi mondiale in corso» non era dovuta, come credeva il volgo, al crack di Wall Street del 1929 e alla selvaggia speculazione finanziaria degli anni precedenti, bensì alle seguenti cause: «Sovradistruzione delle risorse naturali; sovrameccanizzazione dell’industria; eccessiva produzione di mezzi di trasporto; sovrapproduzione di cibo e altri beni; e sovrappopolazione, con conseguente con conseguente disoccupazione dei meno adatti. Il solo rimedio permanente – concludeva lo zoologo – è la selezione delle nascite sostenuta da un umano controllo delle nascite».

La «sovrapproduzione» era, in realtà, una conseguenza della deflazione seguita al crack della Borsa: le merci restavano invendute non perché erano troppe, ma perché milioni di potenziali consumatori, disoccupati, erano privi di reddito. Ma era già completa l’ideologia di quegli ambienti anglo-americani che anche oggi propugnano la crescita – zero economica e demografica, confezionandola in allarmi ecologici.

Dopo l’americano Osborne salì sul podio l’inglese sir Bernard Mallet, presidente della British Eugenics Society. Il titolo della sua relazione: «Riduzione della fecondità dei socialmente inadeguati». Si trattava, spiegò l’aristocratico scienziato, dei «pazzi, epilettici, poveri, criminali specie se recidivi, non-impiegabili, barboni abituali, alcolizzati, prostitute». Di cui occorreva «limitare la fertilità» attraverso «la sterilizzazione volontaria» (sic).

Il demografo W. A. Pecker, commissario per le statistiche vitali in Virginia, riferì su «Lo sforzo dello Stato della Virginia per preservare la Purezza Razziale». Pecker elogiò le leggi del suo Stato, e deplorò quelle vigenti in Germania «dove un negro può sposare senza ostacoli Tedesche dai capelli chiari e dagli occhi azzurri».

Solo in Usa la legislazione aveva pienamente accettato i progressi della scienza eugenetica. Dal 1924 era in vigore la legge federale (Immigration Restriction Act) che limitava l’immigrazione su basi razziali. Molti Stati Usa adottavano la sterilizzazione dei «meno adatti alla vita».

Nel 1935, il totale delle sterilizzazioni eseguite in America giunse a 21.539, di cui la metà in California, come ha scoperto l’epistemologo francese Pierre Thuillier (La Tentation de l’eugénisme, su La Recherche, maggio 1984).

Un anno dopo il Congresso di New York, il professor Pecker non aveva più motivi di deplorazione: la Germania s’era dotata della sua legge sulla sterilizzazione. In lieve ritardo.

Ma Eugenics News, la rivista degli eugenetisti americani, pubblicò nel settembre del ’33 il testo della legge tedesca additandola a modello per gli Stati della Federazione. Un anno prima a New York, Charles Davenport (le cui ricerche scientifiche erano finanziate dai banchieri Harriman), aveva aperto il Congresso con una profezia: «Attraverso gli studi genetici, possiamo aprire la strada al superuomo e al superstato».

Ora la profezia si stava avviando a Berlino. Non senza il sostegno di precisi ambienti americani. Davenport, presidente uscente della Società Eugenetica, presentò a New York con lodi adeguate il professor Ernst Ruedin, suo successore. Psichiatra svizzero, Ruedin dirigeva allora l’Istituto Kaiser Wilhelm per l’Antropologia, l’Eugenetica e l’Eredità Umana di Monaco di Baviera.

Generalmente si crede che questo centro sia stato il propulsore culturale della “scienza razziale” nazista. La nozione va integrata. In realtà, questo istituto tedesco stentò ad operare (con il nome di Istituto Kreapelin) fino al 1925, quando le sue ricerche ebbero nuovo impulso dalla munificenza di un finanziatore di vasti mezzi.

Quell’anno la Fondazione Rockefeller fece all’Istituto di Monaco una donazione di 2,5 milioni di dollari. Nel 1928 sborsò altri 325 mila dollari per la costruzione di una nuova sede. L’impulso era dato. Ernst Ruedin, succeduto a Davenport alla testa della Federazione Eugenetica Mondiale, sarà in seguito nominato presidente della Società per l’Igiene Razziale voluta dal Reich, e magna pars del «gruppo di studio sull’eredità» presieduto da Himmler, che elaborò i testi di legge nazisti sulla sterilizzazione. Ruedin contava su due promettenti collaboratori.

Uno, Franz Kallmann, si illustrò durante il Congresso di Scienze della Popolazione tenutosi a Berlino nel ’35 nella sede del Ministero dell’Interno (Gestapo) perché propugnò la sterilizzazione non solo degli schizofrenici, ma anche dei loro familiari. Purtroppo, identificato come mezzo-ebreo, Kallmann dovette privare del suo apporto scientifico il terzo Reich: nel ’36 trovò lavoro (come dubitarne?) in Usa.

L’altro collaboratore di Rubin, Otto Verschuer, diventò nel ’43 il direttore dell’Istituto di Monaco. Esiste una sua lettera alle autorità naziste in cui segnala «il mio collaboratore, antropologo e medico Joseph Mengele», per agevolare le ricerche che costui stava conducendo «sui gruppi razziali concentrati ad Auschwitz». Mengele è braccato da decenni dai cacciatori di nazisti.

Verschuer, suo superiore, nel 1946 sarà accolto dal Bureau of Human Heredity di Londra, dove ha potuto continuare gli “importanti studi scientifici” iniziati sotto il Reich. Poco dopo si stabiliva in Danimarca, dove il Bureau trasferì la sua nuova sede grazie a una donazione della Fondazione Rockefeller. Insomma: il sì britannico e americano alla clonazione di embrioni umani per scopi scientifici ha profonde radici storiche. Non naziste, sia chiaro; perfettamente anglosassoni, ossia liberali e mercantili.

Nel ’32, all’entrata del Museo di New York dove si teneva il cruciale Congresso, furono posti i busti marmorei di Charles Darwin e di suo cugino Francis Galton, inventore del termine “eugenetica”. Darwin aveva scritto: “Mentre tra i selvaggi i deboli di corpo sono prontamente eliminati, noi civilizzati facciamo ogni sforzo per arrestare il processo di eliminazione: costruiamo ospedali per gli idioti e gli infermi, emaniamo leggi per soccorrere i poveri”.

Galton (1822-1911), scienziato di poco talento, è passato alla storia soprattutto come un metrologo maniacale: passò la vita a misurare scatole craniche, e allineare statistiche sulla criminalità fra le “classi meno dotate” inglesi. Galton considerò apertamente l’eugenetica una scienza politica, volta a salvaguardare le “classi più dotate”. Il darwinismo sociale. La sopravvivenza del più ricco.

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