di Giovanni Cantoni
Ho fra mani Per la scuola. Lettera agli studenti, ai genitori, a tutte le comunità educanti, della Commissione Episcopale per l’Educazione Cattolica, la Cultura, la Scuola e l’Università della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana (1). Per intenderci, il documento di “denuncia dell’”egemonia marxista” sulla scuola italiana”, al cui proposito i mass media hanno ampiamente intrattenuto i rispettivi utenti nell’ultima settimana di maggio del 1995 e hanno “incrociato le penne” notisti di fama (2).
Inoltre tale pratica – una sorta di prudenza intellettuale alla scuola di san Tommaso, non però quello d’Aquino, bensì di san Tommaso apostolo, quello che “non ci crede se non ci mette il naso” – paga. Infatti, nel documento episcopale dell’egemonia gramsciana non vi è neppure l’ombra.
Quindi, l’avvenimento ampiamente e variamente commentato si riduce a una considerazione personale di S. E mons. Pietro G. Nonis, vescovo di Vicenza e presidente della Commissione episcopale ricordata, un’osservazione enunciata il 23 maggio 1995 in occasione della conferenza stampa di presentazione del documento: “L’egemonia marxista sulla scuola per 40 anni, a partire dal ’45, è stata una realtà – ha detto il presule – la dimensione della quale non si è estinta con il mutare del tempo. Basta guardare ad esempio i testi di filosofia e di storia che dimostrano come la scuola può essere ideologizzata da laici e da laicisti”; poi, con evidente ironia, ha aggiunto: “Se è lecito a un vescovo complimentarsi con qualcuno, allora debbo complimentarmi con questa egemonia che forze politiche ben determinate sono riuscite a stabilire per loro fortuna nel nostro Paese, realizzando il progetto di quel piccolo grande uomo che fu Antonio Gramsci, piccolo di statura ma grande per il pensiero” (4); e ha ribadito i concetti e i termini in un’intervista raccolta da Mimmo Muolo per Avvenire del 24 maggio (5).
Dunque, mons. Pietro G. Nonis ha espresso un’opinione personale, per certo non condivisa nella percentuale adeguata da altri componenti ed esponenti della CEI, diversamente è lecito pensare che sarebbe probabilmente entrata a far parte integrante del documento Per la scuola; inoltre questa opinione, nella seconda parte della sua formulazione, nonostante l’ironia, mi pare tale da suscitare perplessità.
Che si tratti di un’opinione personale è provato anche da un’intervista rilasciata da S. E. mons. Alberto Ablondi, vescovo di Livorno e neo-eletto vicepresidente della CEI, raccolta il 26 maggio da Ignazio Ingrao per l’agenzia della stessa CEI, la SIR, il Servizio di Informazione Religiosa (6). In tale intervista il presule ammette: “Abbiamo certamente assistito, negli anni passati, al tentativo politico di imporre un’egemonia della cultura marxista sulla scuola italiana”; ma ritiene di dover immediatamente precisare: “Non direi però che i risultati di questo tentativo siano stati particolarmente eclatanti. Infatti, se si fosse realizzata una vera e propria egemonia di questa cultura sulla scuola, ci sarebbero state anche delle reazioni, si sarebbe potuta produrre una dialettica tra cultura cattolica e cultura marxista, ad esempio” (7).
Quindi, quanto per il vescovo di Vicenza è un’operazione realizzata e ancora attiva, per quello di Livorno è stato un tentativo fallito; e, a prova del fallimento, quest’ultimo adduce la mancata reazione della cultura cattolica e la conseguente mancata dialettica fra la cultura cattolica e la cultura marxista.
Mi chiedo di quale cultura cattolica intenda parlare mons. Alberto Ablondi, anzitutto intenzionata a contrastare, quindi in condizioni operative tali da contrastare l’eventuale egemonia marxista: senza assolutamente la pretesa di esaurire lo spettro penso, in primo luogo, a quella cattocomunista, “fredda” e “razionale”, strutturalmente fiancheggiatrice del marxismo; in secondo luogo a quella terzomondista, “calda” e “passionale”, echeggiante in Italia la “teologia della liberazione” di stampo marxista; in terzo luogo a quella pacifista, nata dagli sponsali fra l’”utilità”, cioè il servizio propagandistico al nemico socialcomunista, e l’”idiozia”, perciò l’indifferenza non solo ai suoi errori ma pure alle sue vittime; infine, per completare in qualche modo il rapidissimo giro d’orizzonte, a quella benpensante, da comitato civico, tanto clerodipendente da far “sbiancare” il guelfismo più nero e, perciò, praticante la più radicale delle censure, cioè l’autocensura.
Francamente, in questo quadro non trovo protagonisti né per la reazione né per la dialettica evocate da mons. Alberto Ablondi. Quindi, di fronte alla rilevazione storica della mancata reazione e dell’altrettanto mancata dialettica, piuttosto che il sospetto di un fallimento avanzo quello di un successo perfetto, tanto perfetto da non insospettire neppure con la sua celebrazione, analogo al “suicidio dei popolari”: infatti, l’induzione al suicidio non è forse l’omicidio perfetto, in cui il colpevole non lascia tracce di sorta?
Proseguo e vengo al “piccolo grande uomo che fu Antonio Gramsci, piccolo di statura ma grande per il pensiero”, di cui ha parlato mons. Pietro G. Nonis. Sono francamente contrario alla squalificazione polemica dell’avversario quando infondata: anzi, sono assolutamente convinto che molte sconfitte di una certa parte siano frutto di una infondata – questa sì – presunzione di superiorità; ma “grande” mi sembra troppo, soprattutto se riferito al pensiero di chi, il 25 maggio 1916, scriveva sull’Avanti! che “il socialismo è precisamente la religione che deve ammazzare il cristianesimo” (8).
Se la qualificazione di Antonio Gramsci mi lascia perplesso, non minore perplessità suscita in me quanto ha detto lo stesso mons. Pietro G. Nonis nella citata intervista ad Avvenire: “Quando parliamo di progetto culturale della Chiesa che è in Italia non vogliamo arrivare a una nostra egemonia per riguadagnare il tempo perduto” (9).
Non capisco proprio perché apprezzare il pensiero di Antonio Gramsci, certamente da respingere a prescindere dal risultato che perseguiva, cioè dal fatto che sia o meno riuscito ad “ammazzare il cristianesimo”, e rifiutarne il metodo, la pratica egemonica, se – come ebbe a dire Papa Pio XII il 7 settembre 1947 – “nell’arte di guadagnare gli uomini voi potete apprendere qualche cosa anche dai vostri avversari” (10).
Se non si vuole confessare, come fece lo stesso Papa Pio XII il 7 settembre 1955, che “la Chiesa non nasconde […] che essa ritiene come un ideale l’unità del popolo nella vera religione e l’unanimità di azione tra essa e lo Stato” (11), cioè la piena realizzazione dell’egemonia culturale cattolica, credo si debba almeno meditare su una notazione del sociologo Giuseppe De Rita, fatta ad Arezzo nel mese di aprile del 1995, in occasione della presentazione dei risultati dell’inchiesta del CENSIS – il Centro Studi ed Investimenti Sociali di cui è segretario generale – sulla famiglia nella diocesi: “Abbiamo vissuto un secolo di verità pubbliche – l’ideologia del progresso illimitato, del comunismo, del fascismo e del nazismo, della psicanalisi – il secolo delle verità ideologiche a cui uniformarsi, e ora abbiamo di fronte un mondo di verità private. E la Chiesa, di fatto per secoli portatrice della verità pubblica, si è ritrovata in difficoltà perchè le è stato imposto un confronto in cui si è ritrovata ad essere una agenzia valoriale tra le altre”; e “oggi la verità pubblica – ha aggiunto – non esiste di fatto più, ognuno cerca la sua verità, ma la società non può vivere come una semplice somma di verità private. L’unica realtà che può riproporre oggi una verità pubblica non ideologica, ma che si esprime nel senso di appartenenza sociale da vivere è la Chiesa” (12). Se della condizione descritta il documento episcopale fa stato – infatti si legge al paragrafo 4: “Viviamo […] in un pluralismo culturale povero di evidenze condivise, caratterizzato dalla “convivenza” passiva dei diversi orientamenti e talora dalla pretesa della “neutralità” della scuola circa i valori” (13) -, non altrettanto mi pare si possa dire quanto alla proposta.
Nei Quaderni del carcere – precisamente nel Quaderno 16 (XXII), datato 1933-1934 – Antonio Gramsci scrive che “la filosofia della praxis – è il nome con cui indica il materialismo dialettico e storico – presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale […]. Corrisponde al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese” (14).
Nel 1991 l’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi rendeva pubblica la dichiarazione Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato in cui affermava: “Oggi in Europa il comunismo come sistema è crollato, ma restano le sue ferite e la sua eredità nel cuore delle persone e nelle nuove società che stanno sorgendo. Le persone hanno difficoltà nel retto uso della libertà e del regime democratico; i valori morali radicalmente sovvertiti debbono essere rivivificati. […].
“Il crollo del comunismo mette in questione l’intero itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista, e mostra coi fatti, oltre che in linea di principio, che non è possibile disgiungere la causa di Dio dalla causa dell’uomo” (15).
Il 12 ottobre 1992, parlando a Santo Domingo, Papa Giovanni Paolo II ha detto: “[…] non possiamo dimenticare che la storia recente ha mostrato che quando, sotto la copertura di certe ideologie, vengono negate la verità su Dio e la verità sull’uomo, si rende impossibile costruire una società dal volto umano. Con la caduta dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” nell’Europa orientale si deve sperare che […] si traggano le deduzioni pertinenti sul valore effimero di tali ideologie” (16).
Ebbene, credo di poter affermare che, fino a quando non si ammetterà che il popolo italiano sta uscendo, né più né meno delle nazioni di oltre cortina, da un regime socialcomunista, anche se non marxista-leninista ma marxista-gramsciano; quindi non si trarranno le deduzioni pertinenti sul valore dell’itinerario culturale cui è stato sottoposto, mettendo radicalmente in questione tale itinerario e facendo di questa messa in questione il quadro – possibilmente esplicito – in cui inserire ogni problematica culturale, a essa dunque rispondendo con una serena, pubblica e forte “coscienza di verità” cattolica e storica, ogni speranza di mutamento è decisamente infondata. Anche, se non soprattutto, Per la scuola.
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* Articolo anticipato senza note in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLIV, n. 145, 24-6-1995, pp. 1 e 14, dove è comparso con il titolo redazionale L’egemonia catto-comunista nella scuola.
Note:
(1) Cfr. Commissione Episcopale CEI [Conferenza Episcopale Italiana] per l’Educazione Cattolica, la Cultura, la Scuola e l’Università, Per la scuola. Lettera agli studenti, ai genitori, a tutte le comunità educanti, del 29-4-1995.