22 ottobre 2014
di Massimo Introvigne
A proposito della relazione finale del Sinodo, si è molto discusso su tre paragrafi – 52 e 53, sulla comunione ad alcune categorie di divorziati risposati, e 55, sull’accoglienza delle persone omosessuali – che, non essendo stati votati dai due terzi dei padri sinodali, a norma dell’articolo 26 comma 1 del regolamento del Sinodo come riformato da Benedetto XVI nel 2006 non vanno considerati espressione ufficiale dell’assise sinodale.
Minore attenzione ha attirato il fatto che c’è un paragrafo che ha raggiunto la prescritta maggioranza per un pelo, ed è passato per soli due voti. È il paragrafo 41, che invita a «cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze». Dal momento che tutti siamo invitati dal Papa a riflettere e contribuire in vista del Sinodo del 2015, possiamo certamente dire che l’espressione si presta a equivoci.
Non è meno vero che i documenti vanno letti nella loro integralità. Il paragrafo 41 va letto insieme al paragrafo 27, che invita a «prestare attenzione alla realtà dei matrimoni civili tra uomo e donna, ai matrimoni tradizionali e, fatte le debite differenze, anche alle convivenze. Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio. Molto spesso invece la convivenza si stabilisce non in vista di un possibile futuro matrimonio, ma senza alcuna intenzione di stabilire un rapporto istituzionale».
Ne risulta con chiarezza – ancorché rimanga il carattere ambiguo del n. 41 – che il fatto che alcuni siano sposati civilmente o convivano da anni con «notevole stabilità» e «vincolo pubblico», educando bene i figli, ha un suo valore rispetto a chi semplicemente passa instabilmente da una relazione all’altra o convive senza alcuna intenzione «istituzionale» di stabilità, ma la Chiesa prende in considerazione questo elemento «come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio» e non per lasciare le cose come stanno.
Lascio volentieri ai teologi moralisti il compito di precisare le cose, spiegare come sia il paragrafo 27 che interpreta il 41 e non viceversa, e magari trovare formulazioni più chiare che evitino, come è stato detto al Sinodo, di scambiare la «legge della gradualità» per una indebita «gradualità della legge». Ma non sono un teologo, lo spettacolo dove qualunque editorialista di Repubblica o di altri giornali si reinventa come come specialista di teologia mi sembra perfino un po’ ridicolo e vorrei dare il mio contributo parlando di cose di cui sono esperto, cioè di sociologia.
Parto dalla controversa affermazione del numero 41 secondo cui nei matrimoni civili e, sia pure in misura minore, nelle convivenze stabili e protratte per lunghi anni ci sono «elementi positivi». Leggendo insieme i numeri 27 e 41, sembra di capire che i padri sinodali, nella loro maggioranza, pensino che queste forme di unione vadano peggio del matrimonio sacramentale – per cui le persone che le praticano vanno invitate, se ne hanno i requisiti e se ci credono, a sposarsi in chiesa – ma vadano meglio delle semplici convivenze effimere e instabili.
La sociologia parte sempre dai numeri. Il mio maestro e amico Rodney Stark mi ha ripetuto tante volte che in sociologia «chi non conta non conta», cioè chi non conta i numeri e le quantità conta poco tra i sociologi seri. Che cosa ci dicono i numeri in materia di matrimoni civili e di convivenze?
Anzitutto, un’ovvietà. Il matrimonio religioso dura di più, con meno divorzi, e fa più figli del matrimonio civile. Ci sono statistiche anche di altri Paesi, ma in Italia l’alternativa fra matrimonio in chiesa e in comune è particolarmente chiara a causa della situazione legislativa. Basta leggere gli studi del demografo Roberto Volpi per trovare numerosi dati relativi alla maggiore tenuta nel tempo, resistenza al divorzio e fecondità del matrimonio religioso rispetto a quello civile.
Proviamo ora a paragonare matrimonio – religioso o civile – e convivenza. Qui gli oppositori del matrimonio citano spesso studi marginali o riferiti a campioni limitati, senza rendersi conto che esiste un’immensa miniera di dati demografici, gli Stati Uniti, dove lo U.S. Census Bureau raccoglie statistiche dettagliate su matrimonio e figli da oltre cento anni.
Da questi dati risulta in modo inequivocabile che le donne non sposate hanno un tasso di fecondità più basso rispetto alle donne sposate. Lo dicono i numeri, e non c’è ideologia che riesca a cambiarli. Per limitarci ai dati più recenti, dal censimento americano del 2008 emerge come la percentuale di donne senza neppure un figlio era del 77,2% fra le non sposate e del 18,8% fra le sposate. Il numero medio di figli per ogni gruppo di mille donne sposate era di 1.784, per ogni gruppo di mille donne non sposate di 439. Le nascite medie all’anno su mille donne sposate erano 83,6, su mille donne non sposate della stessa coorte di età 41,5.
E il dato statistico non è poi così sorprendente. Fare un figlio non è un semplice fatto biologico. Senza prospettive di stabilità e sicurezza per allevarlo ed educarlo, è più difficile che una donna decida oggi d’intraprendere quest’avventura, ed eventualmente resista alle sirene dell’aborto. Dal momento che il problema demografico è il più drammatico problema culturale, economico e sociale dell’Occidente, se ne può concludere che il matrimonio è uno stato demograficamente preferibile a ogni forma di non-matrimonio.
Ma che dire delle convivenze «stabili»? Dagli stessi dati statunitensi, e da quelli di altri Paesi – in modo peraltro meno univoco – si ricava che, in linea generale ma non ovunque e non sempre, le donne che vivono in convivenze protratte per un certo numero di anni sono meno feconde di quelle sposate (parliamo ovviamente di fecondità sociale e non biologica), ma più feconde di quelle sessualmente attive che non sono però impegnate in una regolare convivenza. Se prestiamo attenzione alla demografia – che è un parametro sociologico non secondario, specialista di teologia mi sembra perfino un po’ ridicolo e vorrei dare il mio contributo parlando di cose di cui sono esperto, cioè di sociologia. ma fondamentale – il Sinodo ha le sue ragioni.
Le convivenze sono più feconde dei legami effimeri, ma meno dei matrimoni. I matrimoni civili sono più fecondi delle convivenze, ma meno dei matrimoni religiosi. C’è dunque effettivamente un «aspetto positivo» demografico – insisto, da sociologo non mi occupo qui di problemi morali – nei matrimoni civili, e in misura minore nelle convivenze stabili, rispetto a un’attività sessuale condotta regolarmente ma al di fuori di forme stabili di convivenza.
Attenzione, però. Fin qui abbiamo parlato di convivenze stabili e protratte nel tempo, cioè di coppie che vivono la convivenza come alternativa al matrimonio. Completamente diversa è la questione delle convivenze cosiddette prematrimoniali, cioè di quella percentuale di giovani – che in alcuni Stati degli Stati Uniti e anche in alcune regioni italiane sembrerebbe maggioritaria – che «prova com’è» andando a convivere prima del matrimonio. Questi giovani non stanno praticando un’alternativa al matrimonio, cui si dichiarano contrari, a differenza delle «vecchie» e stabili coppie di conviventi.
Non è necessario essere sociologi per conoscere dei ragazzi che ci raccontano che «per evitare di divorziare dopo» preferiscono provare a convivere prima. Lo raccontano anche ai preti nei corsi prematrimoniali, ormai in molte parrocchie frequentati in maggioranza da già conviventi. Occorre invece essere sociologi per rispondere a questi giovani che si sbagliano.
Se c’è un dato certo, che gli studi sociologici mettono in luce costantemente da almeno venticinque anni, è che la convivenza prima del matrimonio non fa diminuire i rischi di divorzio ma li aumenta. Il testo base è un famoso studio di David E. Bloom pubblicato sulla «American Sociological Review» nel 1988. Bloom conosceva le obiezioni relative alla popolarità del matrimonio (allora) negli Stati Uniti rispetto alla più «avanzata» Europa del Nord e analizzò principalmente i dati di un Paese in questo senso al di sopra di ogni sospetto, la Svezia.
Concluse che le coppie che arrivavano al matrimonio dopo avere coabitato avevano un tasso di divorzio superiore dell’ottanta per cento rispetto alle coppie che non avevano coabitato. Qualcuno potrebbe pensare che il problema fosse che questi giovani svedesi avevano coabitato per un tempo insufficiente a conoscersi a fondo. Tutto il contrario, rispondeva Bloom: entrando nel campione delle coppie che avevano coabitato, chi aveva coabitato per tre anni e più una volta sposato mostrava un tasso di divorzio superiore del cinquanta per cento rispetto a chi aveva coabitato per periodi più brevi.
Siccome i dati di Bloom cozzavano contro l’opinione comune, parecchi ricercatori hanno cercato di inficiarli ripetendo la sua analisi decine di volte sui campioni più svariati. Con pochissime eccezioni – a loro volta criticate e criticabili sul piano metodologico – le ricerche non hanno smentito ma confermato i risultati di Bloom. A distanza di venticinque anni il dato sembra acquisito. La maggioranza dei sociologi non si chiede più «se» la convivenza prematrimoniale renda il successivo matrimonio più esposto al divorzio – la risposta positiva è ormai evidente – ma «perché» questo avviene.
Qui i sociologi potrebbero a loro volta imparare dal Sinodo, cioè da quelle ampie parti della relazione finale di cui nessuno parla, perché non affrontano i temi «caldi» che attirano di più l’attenzione dei giornalisti ma celebrano la bellezza dell’impegno matrimoniale indissolubile. Chi non si abitua già prima del matrimonio a rispettare regole e a resistere a tentazioni non lo farà neppure dopo il matrimonio, dunque chi non resiste alla tentazione di convivere oggi non resisterà alla tentazione di divorziare domani.
I sociologi, a meno che siano sacerdoti (capita), non confessano nessuno. Non spetta a me valutare il grado di responsabilità dei giovani che convivono prima del matrimonio e le complesse ragioni per cui fanno questa scelta. È però non solo diritto ma dovere di chi si occupa di scienze sociali spiegare ai giovani che scelgono la convivenza – ed eventualmente, con tutto il rispetto, anche a qualche padre sinodale che non lo sapesse – che le convivenze prematrimoniali non sono un antidoto al successivo divorzio ma al contrario lo preparano.