Un saggio revisionista di Karl Ferdinand Werner
di Massimo Caprara
Da uomo libero quale era, si sentiva estraneo alla nostra era dell’homo liber, che non riconosce altro che l’occupazione, preferibilmente professionale, per definire l’uomo e la donna e concedere loro il diritto morale all’esistenza Alla domanda «chi sei?», si è sostituita senza che ce ne rendessimo conto la domanda «che fai?».
Con questo aneddoto pregnante, Karl Ferdinand Werner disegna il passaggio dall’età della nobiltà europea a quella delle professioni, ossia della borghesia. che nella grande rivoluzione del 1789 trova il documento delle sue origini, l’anno zero del suo mondo nuovo, fondato sull’eguaglianza.
Egli è uno dei più profondi conoscitori della civiltà carolingia, docente nelle Università di Ildelberg e Mannheim, direttore dell’istituto di storia tedesca di Parigi dai 1968 al 1989, autore del primo torno dell’Histoire de France quindi uno storico prevalentemente antichista, medievalista, che riscrive, invece, un’affascinante, inconsueta, sorprendente narrazione dello Sviluppo delle élite politiche in Europa con il suo recente libro Nascita della nobiltà (Einaudi, pagg. 575, lire 65.000). Titolo e tema a prima vista peregrini, specialistici, dotti, ricchi però di spunti e metodi comuni per un affresco revisionista del mondo, nostro, contemporaneo e dei suoi stereotipi.
Il vocabolo «nobiltà» provoca oggi un senso di rifiuto in qualcuno, di nostalgia in qualcun altro e di entrambi i sentimenti in altri ancora. Ma non sarà arrivato il momento di parlare con serenità di questo tema votato alla partigianeria e capire l’evoluzione di un fenomeno che ha dominato per più di un millennio la storia politica e sociale del nostro continente? Partendo da questa domanda, Werner incalza.
Davvero la nobiltà europea, oggi spesso associata a idee di privilegio, di sopruso, di illegalismi impuniti, di inconsistente esistenza, è solo un’antagonista delle libertà civili? Il furore giacobino che su di essa si abbatté dal 1789 al ‘93 fu legittimato dal ruolo di vendicatore degli oppressi e degli sfruttati, senza macchia e con ogni gloria, che la storia gli ha affidato? L’Europa deve alla «frattura rivoluzionaria» (e perciò ai suoi eccessi) l’unico modo possibile del suo sviluppo, l’unica forma di modernità, l’unica chiave sociale che sia giusto ricordare come degni di menzione nelle nostre radici cristiane?
Niente affatto, sostiene l’autore, con un volume densissimo e documentato, dedicato alla genesi del potere politico in Europa. I concetti di Stato, servizio pubblico (quello prestato, cioè, dagli individui alla collettività), unità nazionale, vincoli imposti al potere, umanizzazione del Signore, rispetto dei sentimenti altrui come base dei rapporti sociali (ecco ciò che distingue la civilitas romana dalla barbaritas): questa somma di valori fu garantita all’Europa da una continuità laica ed ecclesiastica, a Roma come ad Aquisgrana e a Parigi, che il Princeps e la sua élite conservarono ai nostri Paesi. Questa élite fu ininterrottamente addestrata a servire in nome e in vece del Princeps e fu dotata di un maggior numero di diritti appunto perché titolare della maggior parte dei doveri e delle responsabilità.
«I nostri pregiudizi negativi sul Medioevo e sulla nobiltà sono tardi e indotti. La cattiva fama di cui la nobiltà fu a lungo oggetto non è che un portato della Rivoluzione francese e di chi la promosse: la borghesia ambiziosa e in piena ascesa, desiderosa di sbarazzarsi di una scomoda concorrenza. Non vi è chi non legga in questa affermazione una solida leva per ribaltare l’ordine costituito della storiografia ufficiale e dissipando le nebbie dei luoghi comuni, lasciare «apparire un’Europa fatta di solide e articolate istituzioni politiche, amministrative e religiose, certo in continuo divenire, dall’impero di Augusto ai principati carolingi, profondamente fedeli a se stesse e a un radicato concetto di ordine statale».
Esiste dunque un evo pre-rivoluzionario, e successivamente contro-rivoluzionario, cioè anti 1789, che è un fattore della nostra evoluzione e vi conferisce la dignità che viene solitamente riconosciuta alla celeberrima e sanguinante triade «Liberté, Egalité, Fraternité». L’insurrezione infatti della Vandea, le gesta dei capi insorti Charrette, Bonchamps, La Rochejaquelein, d’Elbee, dei popolani Cathelineau e Stoffiet hanno dignità pari a quelle di capi girondini, cordiglieri e giacobini.
Essi si battono dal 1793 al 1801 «Pro arìs, rege et focis» (per gli altari, il re, i focolari), in nome cioè della tradizione, della nobiltà e della religione: in una parola per la libertà di culto, opinione, istituzione. Werner ci aiuta a ricostruire questa sostanza storica. ininterrotta. ma presente anche nei secoli non illuminati dalle teorie volterriane della Ragione.
Simboli e costumi, mentalità e cartiere, lo aiutano a tratteggiare questa riscrittura epocale, questa diversa e medita scansione dei secoli, a partire dall’XI, XlI e XIII. soprattutto in Francia, nei quali l’aristocrazia e I’episcopato, che di essa faceva parte, esercitarono una sorta di «monopolio del potere diretto».
L’equità storiografica vuole che a questi materiali si faccia spazio. Tanto più che in un mondo ordinato da Dio, la monarchia e la nobiltà diedero il grande vantaggio di strutture stabili e adeguate: un territorio omogeneo, una nazione consolidata. una gerarchia acquisita dalla nascita, un patriottismo pressoché uniforme, alcuni ideali di «onore», «rango», «dignità» tramandati fino a Chateaubriand, Hugo e De Gaulle.
Nell’epoca del dominio dei nobili, vi furono miserie e misfatti che non è lecito ignorare, né perdonare. Ma chi può sostenere che non ve ne furono di simili nei secoli successivi e nell’età moderna? Guerre di religione, strumenti di repressione legale ma crudele, giganteschi guadagni estorti con pratiche illiberali come la schiavitù, affollano i secoli successivi a quelli della nobiltà imperante. La storia, in questo senso, crocianamente, è un dibattito un contrasto ininterrotto tra bene e male, libertà e suoi nemici.
Cessano, così, gli schemi avveniristici, palingenetici, ossia salvifici, che Marx ed Engels assegnano alla loro dottrina dello stato e del diritto pubblico. Il libro di Karl Ferdinand Werner marcia in rotta di collisione con il marxismo della storia che fa del socialismo l’unica via di sopravvivenza e di liberazione. La fine dello Stato, come della nobiltà sua servitrice, non equivale alla vittoria dei Buoni Sentimenti che Robèspierre intravedeva nell’orgia del Terrore nel 1794.
Come il comunismo reale non significa la promozione delle masse che Stalin asseriva esservi nel suo mondo di violenza. Werner ci insegna a pensare che del passato vanno colti anche i titoli di merito, alla nobiltà i suoi sforzi. «Essa merita di essere il modello delle élite presenti e future, perché la perfezione alla quale tese resterà sempre un ideale di vita».