La leggenda del golpe imperialista (e un paragone odioso di Ken Loach) stroncati da un articolo coraggioso
Per Loach fu semplice. Se Pinochet e gli americani hanno stuprato il Cile con un colpo di Stato per avidità e sete di dominio, e lo hanno fatto trent’anni fa in una data diventata oggi simbolica per altri, noti motivi, tutto il conto ideologico torna a posto. Il paese che fa le odiose guerre contro Saddam è lo stesso che ha fatto di Salvador Allende un martire della libertà per gli stessi motivi che guidano oggi l’occupazione di Baghdad e motivano la “resistenza” dei baathisti e dei terroristi: imperialismo. I morti delle Torri seppelliscano i loro morti, e non se ne parli più.
Ma Roberto Ampuero non è d’accordo. Ampuero aveva vent’anni quando Allende imbracciò il fucile che gli aveva regalato Fidel Castro e si uccise nel palazzo della Moneda. Era un giovane comunista. Espatriò, trascorse sei anni a Cuba, capì come stavano le cose e adesso che ha cinquant’anni scrive romanzi, lavora e studia in una piccola università dello Iowa.
Il Washington Post, che non è un bollettino degli anticastristi di Miami con il coltello tra i denti, ha pubblicato domenica un suo articolo che Diario aveva lodevolmente anticipato. Una ricostruzione e un’opinione che stroncano la leggenda sulla quale la sinistra ideologica ha educato una o più generazioni di ragazzi, quelli che marciano per la pace con la maglietta di Ernesto Che Guevara e Diario sottobraccio, prevalendo di molte lunghezze sulla fragile sinistra politica che invece aveva compreso la realtà (fu Enrico Berlinguer, ancora lucido, a scrivere subito dopo la caduta di Allende: la lezione del Cile è che non solo non è attuale la rivoluzione, ma che perfino una maggioranza risicata è insufficiente a governare in Occidente nell’èra della Guerra fredda).
Ampuero dice che Allende “lo abbiamo ammazzato tutti”. Il generale Augusto Pinochet, appoggiato dagli americani e da Henry Kissinger in persona, impose con molti lutti e molta disperazione una soluzione violenta e degradata dall’uso della tortura della crisi cilena, e su questo non sussistono ragionevoli dubbi.
Ma della violazione del patto costituzionale cileno e della tragica fine del governo Allende furono responsabili le componenti di Unidad Popular che avevano dichiarato “defunta” la democrazia cilena e che hanno lavorato attivamente per seppellirla in nome del solito mortifero “ideale”: importare in Cile un modello economico-sociale-ideologico antidemocratico e illiberale che aveva già compiuto il suo storico fallimento in Unione Sovietica, in Cina, nell’Est europeo e a Cuba.
Ampuero nota che, per ironia della storia, i soli comunisti cileni, realisti e moderati sostenitori della cauta politica estera sovietica, cercarono invano di contrastare il disastro. Allende fu combattuto da sinistra, prima di tutto e sistematicamente. Lo scopo dell’ala estrema e girotondina della sua coalizione era quello di impedire un esito riformista e gradualista dell’esperimento politico nato con la sua elezione risicata alla presidenza (Allende fu eletto con il 36,6 per cento del voto popolare).
Invece di puntare sulla leva istituzionale, e di unire il paese, la coalizione fu spinta dalla sua ala estrema a rompere con la classe media, “decretando l’espropriazione arbitraria e massiccia di fabbriche e proprietà agricole, esigendo l’instaurazione di un sistema di istruzione unico e di Stato, promuovendo una giustizia ‘popolare’ e un esercito ‘democratico’ “.
Furono questi settori dell’izquierda cilena a far sfilare milizie armate incapaci al momento giusto di combattere ma perfette per spaventare la maggioranza moderata del paese e per inquietare un esercito di antica tradizione lealista, furono loro a battersi per la cancellazione unilaterale dei debiti internazionali e a sventolare le bandiere di Cuba, di Ho Chi Minh e del Che soffocando il riformismo socialista di Allende, già venato di massimalismo.
Ampuero segna un punto decisivo in questo, che fu la componente trainante ed estremista di Unidad popular a smantellare un “sistema democratico funzionante”, fino a portare lo stesso Parlamento che aveva eletto Allende a decretare “l’illegalità” del suo governo tre settimane prima che l’esercito intervenisse (22 agosto 1973). E una parte cospicua di quella classe dirigente, che “aveva già rinnegato la democrazia cilena dopo le elezioni del 1970”, tre anni prima del golpe, svanì poi nel nulla lasciando militanti e resistenti e popolo nelle mani della repressione.
Oggi hanno lo status di un ceto neoliberal, di centro sinistra, e se ne stanno ben installati nel potere delle consulenze e del lobbismo in favore delle multinazionali che volevano espropriare trent’anni fa, senza il minimo senso della dignità e senza il minimo accento critico verso il passato.
Ampuero è rimasto giovane e moralista, ma in un senso diverso da quello di molti giovani lettori del Diario, che ora hanno di che pensare. E il fucile? Ampuero dice che “la morte di Allende è carica di simbolismo”. Si uccise letteralmente e metaforicamente con il fucile che gli aveva regalato quel cinico Caudillo di Fidel.
Castro posava come amico di Allende, ma come poteva amare un presidente eletto, lui che “non aveva vinto – nemmeno le elezioni studentesche nei suoi anni prerivoluzionari” e che “in 44 anni di dittatura ha vinto tutte le elezioni con il 99 per cento dei voti”? Il suo ruolo nella caduta di Allende fu “decisivo”. Finanziò e armò il Movimento della sinistra rivoluzionaria, il Mir, che pensava di risolvere la faccenda a colpi di bombe e rapine, e sostenne materialmente la corrente estremista del Partito socialista cileno.
La sua visita in Cile di tre settimane, nel 1971, fu il trionfo parodistico del castrismo in salsa cilena, e si chiuse con una manifestazione allo stadio alla quale Allende rifiutò di partecipare dopo giorni e giorni di campagna provocatoria che contribuì all’insurrezione della classe media.
Della leggenda canterina e nera sui fatti del Cile Castro si occupò, secondo il resoconto spietato di Ampuero, anche in sede di istantaneo revisionismo storiografico. E il 28 settembre del 1973, davanti a un milione di cubani nella piazza della Rivoluzione, il Caudillo dipinse la sua icona di un presidente cileno che era morto sparando contro il nemico con il suo fucile, avvolto nella bandiera della sua patria: “Non si limitò a molestare Allende in vita, volle anche sottoporre a controllo la storia della sua morte”.
Prima che un losco trionfo della Realpolitik, quando tutto è perduto e si fa avanti il dio ineluttabile che abita ogni tragedia, la storia dell’altro 11 settembre è l’ennesimo paradigma di una sanguinaria illusione. Allende fu eroico, ma fu tragicamente un golpista a restaurare in Cile la democrazia che ancora manca a Cuba.
Pubblicando, Diario è stato intellettualmente onesto, e la logica manipolatoria della comparazione tra i due 11 settembre non esclude l’inizio di un ripensamento sulla violenza portata da sinistra alla democrazia cilena. Diciamo che è un progresso