La guerra in Libano (1975-1990)

I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale

Voci per un Dizionario del Pensiero Forte

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di PierLuigi Zoccatelli

1. Dall’indipendenza alla guerra

Il Libano accede alla piena indipendenza e sovranità – entrando così ufficialmente nel consesso delle nazioni – il 22 novembre 1943, con la stipula di un Patto Nazionale – conferma di un’antica intesa fra cristiani e musulmani -, che sancisce le modalità di coesistenza fra le diverse realtà etniche, politiche, sociali e religiose del Paese dei Cedri. Ma una maggior presenza operativa sia del blocco occidentale che di quello orientale in Medioriente, dagli anni 1950, produce il frazionamento dell’area in blocchi ostili.

In questo clima esplosivo nel 1958, durante la presidenza di Camille Chamoun (1900-1987), si verifica una prima insurrezione, risolta in extremis il 15 luglio dello stesso anno con lo sbarco a Beirut di alcuni battaglioni di marine americani.Ancora più drammatica è la situazione che il Libano deve fronteggiare dopo la Guerra dei Sei Giorni arabo-israeliana del giugno del 1967, conclusa fra l’altro con l’afflusso in territorio libanese di circa quattrocentomila palestinesi, pari al 15% della popolazione ivi residente.

Per ricomporre le tensioni originate dalle attività militari dei palestinesi, che stanno realizzando in Libano un autentico Stato nello Stato, il 3 novembre 1969 – dal capo di stato maggiore dell’esercito libanese generale Émile Boustani e dal leader dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat – vengono siglati gli Accordi del Cairo. Fatalmente, essi non sono rispettati da parte dei palestinesi, che anzi usano le loro basi per addestrare, oltre ai propri fedayn, “i redentori” della patria, terroristi comunisti delle più diverse nazionalità.

Nel maggio del 1973 – dopo che, nel 1970, i sanguinosi avvenimenti di Settembre Nero, in Giordania, hanno fatto crescere la presenza armata palestinese in Libano – il conflitto libano-palestinese si riaccende, temporaneamente scongiurato con un’ennesima trattativa, conclusa dal Protocollo di Melkart, inteso a regolare nel dettaglio le attività dell’OLP nel paese.

Ma ormai, invece di una rivendicazione palestinese nei confronti di Israele, prende corpo un contenzioso libano-palestinese che innescherà una guerra dai connotati sempre più internazionali – “una guerra per gli altri”, come l’ha puntualmente definita il giornalista, politico e diplomatico libanese Ghassan Tueni – della quale il Libano sarà il tragico e muto scenario, i libanesi le vittime principali e i palestinesi una semplice miccia.

2. “Una guerra per gli altri”

Il 13 aprile 1975 ad Ain Remmaneh, un quartiere di Beirut, una piccola folla di fedeli assiste alla consacrazione di una chiesa. Da un’automobile con quattro uomini a bordo partono raffiche di mitra accompagnate dall’urlo “Siamo combattenti palestinesi”: al termine dell’attacco si contano quattro vittime e sette feriti. La notizia si sparge in un baleno e una seconda provocazione, poco dopo, trova una reazione immediata. Un autobus carico di fedayn armati, di ritorno da una parata, passa nel quartiere dopo l’attacco che ha provocato le vittime cristiane e ventisette palestinesi sono crivellati dai colpi: è l’inizio della guerra.

Nella fase iniziale del conflitto le parti in causa sono sostanzialmente due. Da un lato i palestinesi – abbondantemente integrati da soldati siriani -, al fianco dei quali, circa l’80% musulmani, è schierato il Fronte dei Partiti e Forze Progressiste Nazionali, diretto dal leader druso nonché presidente del Partito Socialista Progressista Kamal Joumblatt (1917-1977): un movimento sotto la cui bandiera combattono organizzazioni politiche e militari di sinistra e, in generale, islamiche o filo-siriane; nell’altro campo le organizzazioni maronite – ma non solo – del Fronte Nazionale, raccolte nel movimento politico Fronte Libanese, formato dal Partito Kataeb – i cosiddetti “falangisti”, fondati da Pierre Gemayel (1905-1984) -, dal Partito Nazionale Liberale, dai Guardiani dei Cedri, dall’Ordine dei Monaci Libanesi e dalle Brigate Marada.

E l’esercito nazionale, nell’impossibilità di svolgere la propria funzione normalizzatrice, di fatto si disgrega: durante il 1976 la metà dei suoi effettivi – circa diciottomila soldati – diserta. Il conflitto si estende rapidamente e già nel 1976 si combatte nella Bekaa, a Tripoli e nell’Akkar. Iniziano anche i tristemente famosi massacri: il 31 gennaio è la volta del villaggio cristiano di Damour – dove i miliziani palestinesi ammazzano un migliaio di abitanti -; segue immediatamente la non meno violenta rappresaglia nel quartiere musulmano della Quarantine, a Beirut.

L’indebolimento progressivo della resistenza cristiana all’offensiva palestinese porta – sempre nel 1976 – a un grave stallo, preludio di una spartizione del paese. Allora, per la prima volta, emergono con chiarezza le autentiche cause della guerra libanese, perlopiù esterne al pur fragile equilibrio interno del paese, riconducibili in gran parte alla politica regionale di Israele e della Siria: il primo mira alla soluzione definitiva del problema palestinese, fors’anche all’annessione del Libano Meridionale; la seconda, che non ha mai riconosciuto pienamente la sovranità libanese, punta alla costruzione della Grande Siria; infine, le grandi potenze internazionali vedono nella complicità fra i due Stati teoricamente antagonisti la possibilità di una ricomposizione globale del conflitto arabo-israeliano.

In tale clima si produce un primo voltafaccia siriano: preoccupato di mantenere il Libano sotto controllo, nel giugno del 1976 il governo di Damasco si allea di fatto al fronte cristiano, in veste di FAD, Forza Araba di Dissuasione, e introduce così nel paese un contingente di venticinquemila soldati. Ma la strategia del presidente siriano Hafez el-Assad, intesa a orientare i maroniti verso la Siria, non riesce, e nel febbraio del 1978 avvengono i primi massicci bombardamenti siriani contro i villaggi cristiani. Il nuovo atteggiamento siriano rompe l’unità nel Fronte Libanese: si verificano la tragica guerra fra i falangisti e i cristiani filo-siriani dell’ex presidente Soleiman Frangié (1910-1992), e i primi rapporti strategici fra i cristiani, ormai isolati, e l’esercito di Tel Aviv.

All’inizio del 1981 la nuova situazione – aggravata il 17 marzo 1978 da una prima invasione israeliana nel Libano Meridionale, che provoca la reazione immediata dell’ONU e lo schieramento di forze d’interposizione, le FINUL, Forze Interinali delle Nazioni Unite in Libano – diventa particolarmente delicata quando Zahlé – una città in prevalenza greco-cattolica – viene assediata dall’esercito siriano per impedire la costruzione di un “corridoio” da parte dei falangisti.

Nell’occasione Israele e Siria – che fino a quel momento non hanno mai oltrepassato una tacita Linea Rossa, delimitante le rispettive zone d’influenza – si confrontano per la prima volta apertamente provocando una grave crisi internazionale, esplosa dopo pesanti incursioni aeree israeliane in soccorso della Resistenza cristiana e lo spiegamento di missili sovietici nella valle della Bekaa da parte dei siriani.

Ma è solo l’inizio del precipitare degli avvenimenti. Il 6 giugno 1982 parte l’operazione Pace in Galilea: sessantamila soldati israeliani varcano il confine del Libano e in breve – con un’azione congiunta artiglieria-marina – accerchiano Beirut, intenzionati a distruggere l’apparato militare dell’OLP e a mostrare la propria supremazia sui siriani.

Per circa tre mesi la capitale è teatro di un’atroce guerra casa per casa fra l’esercito israeliano e le milizie palestinesi, sciite di Amal – acronimo di Battaglioni della Resistenza Libanese, che significa “speranza”, movimento fondato da Mussa Sadr (1928-1978), poi diretto da Nabih Berri -, musulmane sunnite e i rinforzi della FAD: avrà fine il 19 agosto con l’arrivo di contingenti d’interposizione degli eserciti statunitense, francese e italiano, dopo aver causato decine di migliaia di morti. La sconfitta dei fedayn obbliga Arafat a evacuare circa sedicimila miliziani, imbarcandoli per la Grecia.

Nel frattempo si rende necessaria la rielezione del presidente della Repubblica, e così Bechir Gemayel (1947-1982) – leader della Resistenza cristiana, ma che prudentemente ha evitato di schierare i propri uomini in occasione dell’invasione israeliana – accede alla massima carica istituzionale il 23 agosto 1982, dichiarando subito la propria intenzione di far evacuare dal Libano gli eserciti israeliano e siriano.

L’audacia del giovane presidente gli costa cara, e il 14 settembre – tre settimane dopo la sua elezione – viene ucciso in un attentato che provoca altri venti morti. In un clima esasperato dai tragici accadimenti alcune frange di falangisti, abilmente manipolati dalle forze israeliane, si lasciano andare alla ferocia, e nei campi palestinesi di Sabra e Chatila trovano la morte oltre mille civili.

Nel 1983 si verificano i massacri drusi nei villaggi maroniti dello Chouf; la guerra minaccia di riprendere su grande scala e perciò il nuovo presidente Amin Gemayel – fratello minore di Bachir – convoca a Ginevra un Congresso di Riconciliazione Nazionale. Ma, secondo uno schema noto, la prospettiva di pacificazione accende gli animi degli estremisti del fronte musulmano che, il 23 ottobre 1983, sferrano alcuni attentati suicidi contro gli edifici occupati dalle forze d’interposizione francese e americana, provocando quasi trecento vittime.

L’indebolimento dell’OLP iniziato da Israele viene portato a compimento dalla nuova strategia siriana, che lancia la milizia sciita alleata dell’Amal – dal giugno del 1985 al marzo del 1988 – all’assedio dei campi palestinesi: un’ulteriore fase della guerra, che si conclude il 23 dicembre 1988 con la stipula di un armistizio finalizzato alla ripresa congiunta delle operazioni contro Israele dalla città di Sidone.

3. Il Libano occupato

L’entrata in scena dei pasdaran, i “guardiani della rivoluzione” iraniani, e dei miliziani sciiti dell’Hezbollah, il “Partito di Dio”, complica ulteriormente il quadro, introducendo la variante terroristica contraddistinta dalla cattura di ostaggi stranieri.

Allo scadere del mandato presidenziale – nell’autunno del 1988 – i siriani ritornano in forza in Libano con trentamila soldati, occupando ormai i due terzi del territorio. Nel momento in cui si profila un grave vuoto istituzionale, il 23 ottobre 1988 Gemayel nomina primo ministro il capo dell’esercito, generale Michel Aoun, che forma un governo composto da tre alti ufficiali.

L’intransigenza e il patriottismo del generale Aoun lo spingono quasi immediatamente a scontrarsi prima – a partire dal febbraio del 1989 – con la milizia delle Forze Libanesi, capeggiata da Samir Geagea e infeudata a Israele, poi con l’esercito siriano, contro il quale – il 14 marzo 1989 – proclama una Guerra di Liberazione, che gli vale l’adesione di massa di una popolazione, cristiana e musulmana, estenuata da quattordici anni di guerra e di occupazione straniera.

La reazione della Siria – che appoggia un contro-governo diretto da Selim Hoss – è violenta: per mesi interi bombarda tutte le zone controllate dal rinato esercito libanese, provocando un deterioramento drammatico della situazione, particolarmente nelle regioni cristiane. Nonostante tutto, la resistenza dell’esercito si rivela efficace, finché il governo dell’Arabia Saudita decide di ospitare sul proprio territorio una riunione di riconciliazione da cui scaturiscono gli Accordi di Taef, che – di fatto – ratificano l’egemonia siriana in Libano.

Aoun risponde sciogliendo il parlamento, che comunque si riunisce il 4 novembre 1989 nell’aeroporto militare siriano di Kleiat ed elegge alla presidenza della Repubblica René Moawad (1925-1989), morto in un attentato poche settimane dopo.

Gli succede Elias Hraoui, che ratifica il mandato governativo a Selim Hoss, e intima al generale Aoun di dimettersi. Indebolito dalla guerra contro le Forze Libanesi, ormai favorevoli a una spartizione confessionale del paese, isolato dalla nuova politica mediorientale delle grandi potenze – fondata sugli equilibri inaugurati con la Guerra del Golfo nel 1990 -, il libero esercito libanese chiude la propria eroica esperienza quando, il 13 ottobre 1990, l’aviazione siriana interviene per la prima volta in Libano con un feroce attacco – di fatto avallato dalle diverse diplomazie -, che pone fine alla guerra, il cui bilancio comprende oltre centocinquantamila vittime, un terzo della popolazione esiliata e una terra un tempo libera completamente occupata.

Per approfondire: vedi Guglielmo Sasinini e Camille Eid, Alle radici dei cedri. Il dramma libanese, le Chiese, il Sinodo della speranza, con una prefazione di Cesare Alzati, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995; e padre Giovanni Rulli S.J., Libano. Dalla crisi alla “Pax Siriana”, presentato da S. E. mons. Emilio Eid, vescovo titolare di Sarepta dei maroniti, SEI, Torino 1996, che raccoglie articoli comparsi su La Civiltà Cattolica dal 1975 al 1992.