di Vittorio Messori
Ma, insomma: le donne sono “persone” a pieno titolo, alla pari dell’uomo? oppure, come gli animali, hanno un corpo mortale ma non un’anima immortale? Prima di decidersi ad ammettere che l’anima ce l’hanno anche le femmine, la Chiesa ha esitato per secoli, ha convocato concili, ha permesso scontri di teologi. Alla fine ha dovuto arrendersi, ma riluttante e magari con qualche dubbio sempre risorgente. Così si legge in libri di scuola o in articoli da terza pagina di giornale o si sente da chi la saprebbe lunga sull’oscurantismo cattolico.
Di recente, alla tv di Stato, una “specialista”, all’ennesimo dibattito sulla parità dei sessi, ha fatto correre nelle schiene dei nuovi benpensanti fremiti di indignazione, rivelando: “È solo nel XV secolo che la Chiesa ha ammesso che la donna ha un anima come quella dell’uomo!”. Ascoltando, ho sorriso, ben sapendo il livello medio di conoscenza storica di simili “esperte”.
Ma non ho sorriso, ho sobbalzato, prima sorpreso e poi un po’ avvilito, consultando – lo faccio spesso – le duemila pagine, nell’edizione del 1978, de La civiltà del Medioevo europeo. Opera assai pregiata, e giustamente, a livello internazionale, scritta da quel medievista insigne che è Paolo Brezzi. Il quale è a tutti noto come studioso di esplicito orientamento cristiano; e, proprio come “cattolico”, è stato eletto al Senato per due legislature nelle liste comuniste, in Compagnia di altri “credenti del dissenso”.
Ho sobbalzato, dicevo, leggendo a pag. 482 del primo volume: “Il famoso concilio di Mâcon, che discusse se la donna ha l’anima, non è un caso isolato o assurdo, anche se la decisione fu favorevole alle donne, in base alla considerazione che Cristo era il figlio di una donna (ecco, ancora una volta, il segno della maternità che riscatta e nobilita la femmina e le ottiene un riconoscimento nell’ambito della società)”.
C’è davvero da rattristarsi se una delle più plateali menzogne elaborate nel Settecento dalla propaganda illuminista lascia il segno, due secoli dopo, nelle pagine di uno specialista non solo illustre ma anche di riconosciuta fede cristiana, quali che siano le sue discutibili scelte politiche. Il povero sottoscritto che, dopo la laurea, non ha più frequentato aule universitarie e di nulla è “professore”, pur a disagio è costretto allora a ricordare al cattedratico insigne (e ai tanti che ripetono le stesse cose) come andò davvero. E in modo certo, non smentibile.
A Mâcon, nella Francia centrale, si tenne nell’anno 585 non un “concilio” ma un secondo sinodo provinciale. Ne possediamo gli atti, ma invano vi cercheremmo discussioni sull’anima, tanto meno su quella femminile. Né vi è traccia di simili discussioni mai, nè prima nè dopo, in nessun documento della Chiesa ufficiale.
Questo in realtà avvenne; a quel sinodo partecipò anche il vescovo dì Tours, il futuro san Gregorio, il quale, al libro ottavo della sua Historia Francorum, ci lasciò la descrizione dei lavori. In una pausa, come per distrarsi dalle ardue discussioni teologiche, un vescovo pose ai confratelli una sorta di quiz filologico: il termine latino homo, può essere usato nel senso allargato di “persona umana”, comprendente dunque entrambi i sessi, o è da intendersi nel senso ristretto di vir, di maschio?
Si noti che il problema è ritornato d’attualità: negli Stati Uniti, ad esempio, se si intende alludere a entrambi i sessi, ora non si usa più man ma sempre person. (Se, negli States, vi capita di partecipare a un congresso, e se non volete essere aggredito come “sessista” e “sciovinista maschilista”, guardatevi dal chiamare il “presidente” o “moderatore” chairman: secondo il vocabolario “non discriminante” ora si dice chairperson…).
Ritornando al cronista Gregorio di Tours, questi ci narra che, per rispondere al quiz del confratello, gli altri vescovi lo rinviarono unanimi alla traduzione latina della Genesi, secondo cui Dio creò l’essere umano (homo) come maschio e femmina; e, inoltre, alla definizione di Gesù come “figlio dell’uomo” (filius hominis), benché egli fosse “figlio della Vergine”, dunque di una donna. Una curiosità linguistica, dunque, per un momento di relax tra quei vescovi, non certo una disputa teologica.
Ché, se per caso tale fosse stata, allora sì sarebbe stata davvero “isolata e assurda”, cioè il contrario esatto di quanto scrive il professor Brezzi. Perché, come ricorda un suo collega medievista: “Per secoli, dunque, si sarebbero battezzati, confessati, ammessi all’eucaristia degli esseri sprovvisti d’anima?
Ma allora, perché non fare altrettanto con gli animali? Strano che i primi martiri onorati come santi siano donne e non uomini: sant’Agnese, santa Cecilia, sant’Agata e tante altre. Triste davvero che santa Blandina e santa Genoveffa fossero prive di un’anima immortale!”.
Si noti che buona parte delle moltissime martiri dei primi secoli, subito venerate dalla comunità cristiana come sante, appartengono alla categoria delle “vergini”: riesce dunque ancor più incomprensibile il commento del Brezzi, per il quale solo “la maternità (per la Chiesa) riscatta e nobilita la femmina e le ottiene un riconoscimento nell’ambito della società”.
Nella cerchia degli enciclopedisti settecenteschì, qualcuno pensò di strumentalizzare in funzione anticristiana (“Schiacciate l’Infame!”) l’aneddoto di Gregorio di Tours, fidando sul fatto che ben pochi avrebbero mai letto i dieci libri della quasi introvabile Historia Francorum. Calcolo esatto perché, da allora sino ad oggi, la menzogna di un apposito concilio per stabilire se le donne avessero un’anima è passata da un autore all’altro, senza verifica né discussione; ed è stata poi rilanciata alla grande nei nostri anni dal pressappochismo pseudofemminista, spesso gestito da maschi.
Passi per questi; ma non per gli studi seri e in vario modo preziosi di specialisti come il cattolico Paolo Brezzi.