Aspetti dello sviluppo industriale nel Medioevo

Quaderni di Cristianità, anno II, n. 4, primavera 1986, pp. 20-31.
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di Luciano Benassi

1. Introduzione

“La cultura accademica, bene o male, ormai sa che il Medioevo non è un’epoca di sottosviluppo, di oscurantismo, di ignoranza e ancora meno di tirannia. Non sempre, tuttavia, questo si trasmette a chi frequenta la università […]. “Vi sono, poi, sacche di resistenza dove si continuano a veicolare pregiudizi e sciocchezze sul Medioevo […]. “[…] Per molti il pregiudizio è di carattere ideologico, anticlericale: si rendono conto che l’anima del Medioevo è la fede cattolica, e quindi si rifiutano di prenderlo in considerazione seriamente. Per altri insegnanti credo che, al di là di ogni prospettiva ideologica, il problema sia semplicemente costituito dalla mancanza di aggiornamento, di preparazione, di curiosità intellettuale” (1).

Con queste parole Régine Pernoud, uno dei più autorevoli studiosi della civiltà medioevale europea, definisce lo stato delle conoscenze sul Medioevo nelle scuole francesi. Senza fatica, credo, le stesse considerazioni potrebbero applicarsi alla situazione italiana, dove, oltre la cerchia degli specialisti, l’informazione sul Medioevo risente degli stessi pregiudizi anticattolici denunciati dalla ricercatrice francese.

Tali pregiudizi sono il risultato di una pressione culturale che ha origini lontanissime – riscontrabile nel Rinascimento, esplicita nel movimento protestantico, attiva nell’illuminismo – e il cui scopo è la rimozione dalla memoria storica dei cattolici di ogni nozione di civiltà cristiana, cioè della “realizzazione, nelle condizioni inerenti ai tempi e ai luoghi, dell’unico vero ordine tra gli uomini” (2).

Uno dei risultati di questa campagna plurisecolare di disinformazione è la “leggenda nera” sul Medioevo, cioè l’alone cupo che grava su ogni espressione del mondo medioevale (3). Manifestazioni di tale “leggenda” sono i luoghi comuni più grossolani e, purtroppo, ampiamente diffusi nella cultura corrente. Basti ricordare le fantasie intorno allo ius primae noctis, o le varie figurazioni del “signorotto feudale” che governa tirannicamente folle di contadini abbrutiti dalla fatica, oppure, ancora, l’idea dell’Inquisizione, dei roghi e della caccia alle streghe, fenomeni, questi ultimi. che sebbene siano apparsi qualche secolo dopo l’epoca medioevale, vengono considerati come un suo prodotto e descritti, fra l’altro, con proporzioni assolutamente deformate anche rispetto alla loro realtà storica (4).

Tale “leggenda nera” non è costituita, tuttavia, solo dalle notizie che si sono sedimentate in secoli di storiografia di parte, ma anche dalle innumerevoli omissioni sull’epoca medioevale e sulle sue realizzazioni. Nell’opinione comune il Medioevo è un’epoca sterile sotto tutti i punti di vista, è un puro lasso di tempo, come denota il nome stesso già semanticamente caratterizzato: Medioevo, ovvero Età Media fra due epoche, l’antichità classica e il Rinascimento, che godono invece di un unanime giudizio positivo.

Eppure – si chiede Régine Pernoud – come è possibile che un’epoca considerata di sottosviluppo ci abbia lasciato le cattedrali (5)? E – si potrebbe incalzare – come è possibile che dalla civiltà medioevale sorgano città ancora oggi ammirate per la loro bellezza e per la loro “vivibilità”? Com’è possibile che in un periodo così oscuro siano nate le università, o abbiano visto la luce capolavori artistici e letterari incomparabili? O che il commercio o il semplice spirito di avventura abbiano spinto uomini nell’allora lontanissimo Oriente per allacciare contatti con genti sconosciute? Strana oscurità, strana barbarie, quelle medioevali! E strana storiografia quella che non riesce a giustificare un divario cosi macroscopico tra il fatto e il giudizio!

Fra gli aspetti della civiltà medioevale che più hanno patito le falsità e i silenzi della “leggenda nera”, sicuramente occorre annoverare il mondo delle invenzioni, dell’industria e, in generale, il mondo della tecnica. Se, nella cerchia degli specialisti, la scoperta di numerosi manoscritti di carattere tecnico ha ribaltato l’opinione relativa a un Medioevo arretrato anche da questo punto di vista (6), permane tuttavia, negli altri gradi di istruzione, l’idea di un’epoca tecnologicamente infeconda, verso la quale il prodigioso sviluppo industriale dei secoli successivi non sarebbe in nulla debitore.

A dissipare questi luoghi comuni contribuiscono felicemente un denso volumetto di Jean Gimpel, La révolution industrielle du Moyen Age (7), e un lungo articolo di Terry S. Reynolds, Le radice medioevali della Rivoluzione industriale (8).

Non ancora tradotto in italiano e reperibile soltanto nelle edizioni francese e inglese, l’opera di Jean Gimpel, studioso di storia della tecnologia, possiede tutti gli elementi per replicare un successo editoriale dello stesso autore, Costruttori di cattedrali (9).

Il pregio dell’opera è, infatti, quello di unire al taglio indiscutibilmente divulgativo dell’esposizione, un altrettanto indiscutibile serietà scientifica, quale si evince dalle numerose fonti originali citate e dagli abbondanti riferimenti bibliografici (10).

A questo si deve aggiungere un ulteriore elemento di interesse, costituito dal suo carattere di grande respiro. Jean Gimpel infatti, per suffragare la tesi di un Medioevo fortemente industrializzato, percorre a uno a uno tutti i settori produttivi dell’epoca, soffermandosi anche su aspetti collaterali come la disciplina giuridica del lavoro e fenomeni di inquinamento.

Non meno utile, pure se limitato alle dimensioni di un articolo, è lo studio di Terry S. Reynolds. L’autore, laureato in storia e professore alla Michigan Technological University, negli Stati Uniti, tende a mostrare il ruolo avuto dall’introduzione durante il Medioevo delle macchine azionate ad acqua per il successivo sviluppo industriale dell’Occidente.

Entrambi gli autori concordano sull’importanza dell’utilizzo dell’energia idraulica nella trasformazione dell’economia medioevale: si tratta di un fenomeno che passo a esporre, sia pure succintamente, perché da solo può contribuire a smascherare molte falsità.

2. Lo sfruttamento dell’energia idraulica

A partire dal secolo IX, l’Europa conosce uno straordinario sviluppo, per numero e qualità, di un tipo di fabbrica che gli storici della tecnica sono soliti rubricare sotto il nome di mulino. Non si tratta, tuttavia, solo del luogo in cui, secondo il significato corrente del termine, si trasformano i cereali: il mulino medioevale ospita una vasta gamma di attività industriali che va dalla lavorazione della lana e della carta alla produzione della birra, dalla concia delle pelli alla frantumazione delle olive, fino al settore metallurgico, nel quale dominano la lavorazione del ferro e la produzione della ghisa.

Cuore di ogni mulino medioevale e autentico centro propulsore di esso, è la ruota idraulica il cui movimento rotatorio, generato da un flusso d’acqua, fornisce l’energia necessaria alle diverse fasi di lavorazione. Anche nel mondo antico esistevano i mulini ad acqua, ma il loro impiego era limitato da almeno due fattori. Innanzitutto la difficoltà di reperire condizioni idrauliche convenienti, cioè corsi d’acqua regolari che assicurassero continuità di funzionamento alle macchine.

Non si deve dimenticare che il baricentro geografico del mondo antico, rispetto a quello del mondo medioevale, era più spostato verso mezzogiorno. Ma il vero motivo dell’assenza di una strategia di meccanizzazione nell’Antichità – che, come nel Medioevo, avrebbe dovuto fondarsi sull’energia idraulica – è socio-politico. Osserva Jean Gimpel: “La forza idraulica poteva offrire soltanto un interesse limitato in paesi dove la schiavitù forniva mano d’opera a buon mercato” (11), per cui “una politica di meccanizzazione avrebbe [avuto] un effetto disastroso sulla mano d’opera libera e servile” (12).

Al contrario, in un mutato clima sociale e politico come quello del secolo IX, il declino e poi la scomparsa della schiavitù si accompagnano all’impiego su larga scala dell’energia idraulica. Le cifre non lasciano spazio a dubbi.

In Francia, “verso l’anno 845, sui 23 possedimenti del monastero di Montier-en Der, nel dipartimento di Saint-Dizier nell’Alta Marna, si contavano, sul fiume Voize, 11 mulini, 3 dei quali erano dislocati in meno di 6 chilometri. Sulle terre dell’Abbazia di Saint-German-des-Prés, oggi noto per i suoi caffè letterari: Flore, Lipp, Deux-Magots, non v’erano meno di 59 mulini, costruiti lungo modesti corsi d’acqua […]. “Nel corso dei secoli successivi, il numero dei mulini ad acqua aumentò considerevolmente. Così, sui bordi della Robec, che si getta nella Senna a Rouen, si contavano 2 mulini nel secolo X, 4 nell’XI, 10 nel XIII e 12 all’inizio del secolo XIV. In quello che oggi costituisce il dipartimento dell’Aube sono menzionati 14 mulini nel secolo XI, 60 nel secolo XII e più di 200 nel secolo XIII” (13).

La situazione descritta relativamente alla Francia non è diversa da quella dell’Inghilterra.

Attraverso il Domesday Book, una raccolta dei questionari compilati dagli amministratori che Guglielmo il Conquistatore invia nelle contee inglesi intorno al 1086 per recensire i beni del regno, ci è pervenuto un preciso quadro socio-economico dell’Inghilterra del secolo XI. I messi di Guglielmo visitarono “circa 34 delle contee che costituiscono l’Inghilterra contemporanea, e inventariarono 9250 castelli occupati da 287.045 fittavoli” (14).

La vita economica di questo popolo – cioè quasi un milione e mezzo di abitanti, considerando ciascun fittavolo a capo di una famiglia di cinque persone – si svolgeva intorno al mulino e allo sfruttamento dell’energia idraulica.

Nel Domesday Book, infatti, “sono stati inventariati 5.264 mulini; 3.463 castelli, cioè più di un terzo del totale, possedevano un mulino, forse due” (15).

Mediamente, dunque, un mulino serviva cinquanta famiglie, ma in certe contee, come il Wiltshire, ricche di cereali e di corsi d’acqua, si raggiungeva il rapporto di un mulino ogni ventisei famiglie, con una densità, sul fiume Wylye, di trenta mulini dislocati su sedici chilometri di corso fluviale, cioè un mulino ogni cinquecento metri.

Dal punto di vista tecnologico la “follia costruttiva” medioevale costituisce, per gli ingegneri del tempo, un’autentica sfida. La necessità di installare gli impianti nelle più svariate condizioni idrauliche, di migliorare i rendimenti e di meccanizzare nuovi tipi di lavorazioni li spinge ad adottare soluzioni tecniche ardite e originali che, complessivamente considerate, fanno arretrare di parecchi secoli quel processo di sviluppo dell’industria europea solitamente e troppo affrettatamente collocato nel secolo XVIII. Del resto, basti tenere presente che molti mulini citati nel Domesday Book “funzionavano ancora nel secolo XVIII, in piena rivoluzione industriale. Ammodernati, esistevano ancora nel secolo XIX e alcuni sono ancora in piedi ai giorni nostri” (16).

Il capitolo relativo allo sviluppo e alla evoluzione tecnica dei mulini è sicuramente uno dei più appassionanti di tutta la storia dell’industria medioevale.

L’articolo di Terry S. Reynolds, sia pure in modo rapido, offre una serie di esempi che testimoniano la vastità delle applicazioni dell’energia idraulica e la corrispondente vastità delle soluzioni adottate per meccanizzare i processi produttivi più disparati.

“A partire dal IX secolo i costruttori di mulini cominciarono a estendere gli sviluppi conseguiti nell’antichità. Per esempio, applicarono la ruota idraulica verticale a vari processi che, come il sollevamento dell’acqua con la noria, richiedevano un moto rotatorio nello stesso piano di quello della ruota. Uno di questi processi era la molatura e levigatura dei metalli nelle coltellerie.

Queste fabbriche sono menzionate per la prima volta in documenti che risalgono all’inizio del Duecento. In esse furono installati ingranaggi non per modificare il piano di rotazione ma per aumentare la velocità di rotazione dell’asse della ruota idraulica, e in alcuni casi per spostare la direzione del piano di rotazione in quello di mole montate su alberi ad angolo retto rispetto all’asse della ruota idraulica.

“Altri esempi di nuove applicazioni dell’energia idraulica che utilizzavano il moto rotatorio di ruote idrauliche verticali nello stesso piano erano i torni (l’esempio più antico dell’uso di energia idraulica a questo scopo risale al Trecento), torni per la produzione di tubi (nel Quattrocento), cilindri per la produzione di fogli di metallo e cesoie circolari per tagliare i fogli (anch’essi nel Quattrocento), ventilatori per l’aerazione delle miniere, montacarichi, pompe a palle e catene per miniere (tutti nel Cinquecento).

“In modo simile gli ingegneri medioevali estesero la combinazione della ruota idraulica e di ruote dentate verticali che ingranavano con altre orizzontali. Già nel IX secolo in Francia mulini idraulici tradizionali furono modificati non per trasformare cereali in farina (l’unico uso romano della combinazione di ingranaggi e della ruota idraulica), ma per macinare malto in vista della produzione di birra. La combinazione di ruote dentate verticali e orizzontali fu applicata in seguito per sostituire il lavoro manuale in attività come la frantumazione e macinazione di minerali metallici

“Nell’XI secolo la combinazione di ruote dentate verticali e orizzontali fu sviluppata ulteriormente per fare ruotare macine disposte verticalmente che frantumavano piuttosto che macinare. Frantoi idraulici con siffatte macine verticali potrebbero essere stati impiegati per produrre olio di oliva già nell’XI secolo mentre vi sono prove sicure di un loro uso a questo o ad altri scopi già nel XII secolo.

All’inizio del XII secolo le ruote ad acqua furono adottate dall’industria della concia delle pelli: esse riducevano in polvere la corteccia di querce in preparazione del processo di lisciviazione con cui si estraeva il tannino. Ruote idrauliche verticali potrebbero essere state usate anche per l’estrazione dello zucchero di canna in Sicilia già nel XII secolo. In seguito ruote analoghe furono usate per schiacciare semi di senape (i dati più antichi in nostro possesso sull’applicazione di energia idraulica a questo scopo risalgono al Duecento), semi di papavero (sempre nel Duecento) e pigmenti per tintoria (nel Trecento)” (17).

Il maggiore salto di qualità nello sviluppo delle applicazioni meccaniche legate all’energia idraulica si ha, tuttavia, con l’introduzione della camma nel sistema di trasmissione del movimento, ciò che consente la trasformazione del moto rotatorio della ruota idraulica in un moto lineare. La camma è un dispositivo molto semplice: si tratta di una protuberanza rigida disposta su di un asse rotante che, ad ogni rotazione, impegna una protuberanza corrispondente collocata su di un albero che può muoversi solo secondo il proprio asse. A ogni contatto fra le due camme l’albero viene prima sollevato e poi lasciato cadere.

Le proprietà della camma erano note fin dall’Antichità mediterranea, ma venivano utilizzate soltanto nella costruzione di automi o di altri meccanismi di piccola scala. Solo in Cina, verso il 290 a. C., la camma è impiegata per azionare martelli a pilone nella brillatura del riso. Ma questo, tuttavia, rimane l’unico impiego industriale di un congegno che nell’Europa medioevale, al contrario, conosce una grandissima fortuna e gioca un ruolo determinante nello sviluppo dell’industria e dell’economia in genere (18). Basti pensare che oggi qualsiasi automobile è dotata di un albero a camme.

La camma trova impiego nelle lavorazioni in cui occorreva una macerazione o una martellatura del materiale da trattare, operazioni che, nell’Antichità, venivano effettuate a mano o con i piedi. Secondo Terry S. Reynolds “magli a caduta libera a leva azionati dall’energia idraulica potrebbero essere stati usati in sostituzione di macine modificate nelle birrerie del IX secolo, ma le prime industrie ad adottare decisamente magli e martelli idraulici furono le industrie della follatura [della lana] e della canapa dei secoli X e XI” (19).

Il processo di meccanizzazione è così rapido che “nel Duecento in gran parte dell’Europa occidentale la follatura veniva già eseguita meccanicamente” (20).

Il caso dell’Inghilterra è particolarmente significativo: i mulini per follare erano centotrenta nel 1327, mentre il primo mulino di questo tipo di cui si ha notizia nell’isola risale al 1185; e ciò significa che, per oltre un secolo, quasi ogni anno vedeva la luce un nuovo mulino meccanizzato per la lavorazione della lana.

Con il tempo, i martelli a energia idraulica trovano impiego anche in altre lavorazioni, soprattutto in quella della carta.

“Durante più di mille anni, la carta, inventata dai cinesi, era stata fabbricata a mano o con i piedi, ma da quando fu introdotta in Europa, il suo processo di fabbricazione venne meccanizzato. Si tratta di una prova notevole dello spirito tecnico degli europei del Medioevo” (21).

Le prime cartiere a energia idraulica sono menzionate nel 1276 e riguardano gli impianti di Fabriano, nelle Marche. Mulini per la fabbricazione della carta funzionavano nel 1280 a Xativa, presso Valencia in Spagna, mentre in Francia il più antico mulino del genere sembra essere quello di Richard-de-Ers, sulla Dore, nell’attuale Puy-de-Dôme, che produceva carta nel 1326.

Terry S. Reynolds fornisce qualche dato sulla crescita degli impianti cartari in Inghilterra: i trentotto impianti dell’inizio del Seicento diventano duecento nel 1710 e arrivano a trecentocinquanta nel 1763.

La felice combinazione tra ruota idraulica verticale e camma trova il proprio trionfo nell’industria siderurgica che, per i suoi riflessi immediati sui campi militare, agricolo ed edile, costituiva, nel Medioevo più di oggi, uno dei principali settori dell’economia.

Ancora nell’Alto Medioevo il processo di estrazione del ferro dal minerale era una operazione che richiedeva notevole uso di mano d’opera e di tempo. Infatti “i mastri ferrai europei fondevano il minerale in un piccolo forno e fornivano l’aria al miscuglio di carbone e minerale che bruciava per mezzo di mantici azionati con le mani o con i piedi. Il processo, però, non consentiva di ottenere temperature abbastanza elevate da fondere il ferro.

Così quasi ogni giorno il mastro ferraio doveva lasciar spegnere il forno e smontarlo per estrarne la massa spugnosa formata da un miscuglio poroso di ferro metallico e scoria. Per ottenerne una forma di ferro utilizzabile, i mastri ferrai dovevano riscaldare e martellare ripetutamente quella massa spugnosa, operazione con la quale a ogni ciclo si consolidava ulteriormente il ferro e si eliminava la scoria. Questa massa, come il minerale, veniva riscaldata in un forno il cui tiraggio era fornito da mantici azionati a mano” (22).

L’introduzione dell’energia idraulica snellisce notevolmente le varie fasi della lavorazione aumentandone l’efficienza. Innanzitutto, la sostituzione del lavoro all’incudine con i martelli azionali ad acqua, oltre a liberare i fabbri da una incombenza faticosa, consente di ottenere una battitura più regolare e di aumentare il peso dei martelli da 150 a 450 kg.

Anche la velocità di battitura aumenta considerevolmente: con martelli da 300 kg. si raggiungevano velocità di 60-120 colpi al minuto, mentre i martelli da 70-80 kg. arrivavano a 200 colpi al minuto. L’energia idraulica influisce notevolmente anche sul sistema di aerazione dei forni fusori. Mantici più grandi e più potenti azionati dall’acqua potevano produrre correnti d’aria che elevavano la temperatura del forno così da consentire la fusione senza ricorrere allo spegnimento e allo smantellamento del forno stesso.

Anzi, verso la fine del Trecento ha termine l’uso di spegnere il forno e di smontarlo per raccogliere il metallo ancora frammisto a scorie e “la produzione di ferro si trasformò da processo “a lotti” in un processo almeno semicontinuo, con una riduzione significativa nella richiesta di mano d’opera” (23).

La meccanizzazione della siderurgia si diffonde rapidamente. “Il primo forno attrezzato con soffierie idrauliche è menzionato in un documento del 1323, ma si ammette generalmente che il primo autentico altoforno dati alla fine del secolo XIV” (24). Comunque, “nel 1492 nell’area di Siegen, in Germania, tutte le 38 fucine che producevano ferro in lingotti e acciaio utilizzavano energia idraulica” (25).

La produzione dell’industria siderurgica era collegata, come ho detto, a tre settori fondamentali della vita sociale: il settore militare, il settore agricolo e il settore delle costruzioni.

La necessità di ferrare gli animali e l’importanza crescente assunta dalle armatura contribuiscono certamente allo sviluppo della siderurgia. I ferri da cavallo, per esempio, sono prodotti in quantità realmente industriale, come testimonia l’ordine di 50 mila pezzi fatto da Riccardo I Cuor di Leone alle sessanta fucine della foresta di Dean, in preparazione della Crociata.

Più difficile è quantificare l’impatto della siderurgia meccanizzata sul settore agricolo. È certo che in molti strumenti agricoli vengono adottate parti o rinforzi di ferro: senza vomeri di ferro, infatti, i pesanti aratri medioevali non avrebbero mai potuto dissodare con tanto successo le ricche terre vergini dell’Europa Settentrionale e Occidentale. L’unica limitazione all’utilizzazione di parti di ferro nelle attrezzature agricole era costituita dalla scarsa abbondanza del metallo e, di conseguenza, dal suo elevato costo – circa dieci volte superiore a quello attuale.

Un’ampia documentazione scritta e archeologica consente, invece, di stabilire che nel settore edile i tecnici medioevali usano abbondantemente il ferro, sia per gli attrezzi dei muratori che nelle strutture degli edifici. “I conti dei cantieri del Medioevo fanno menzione di ogni sorta di attrezzi e di utensili di ferro: listelli, sbarre, serrature e ramponi. Ciò che più stupisce è la quantità di chiodi di diverso tipo e calibro allora in uso” (26).

Le tecnologie metallurgiche sviluppatesi con l’applicazione dell’energia idraulica al processo estrattivo e a quello di lavorazione del minerale segnano un reale successo per l’ingegneria medioevale. Di tale successo godono fin dal principio gli impianti industriali realizzati dagli europei nel Nuovo Mondo. Come ricorda Terry S. Reynolds, vicino a Potosí, sulle Ande boliviane, “gli ingegneri spagnoli che sfruttavano i ricchi giacimenti d’argento cominciarono a costruire nel 1573 un sistema di dighe, bacini e canali per portare acqua a impianti per la frantumazione dei minerali. Nel 1621 il sistema comprendeva 32 dighe. Un canale principale lungo cinque chilometri trasportava acqua a 132 mulini per la frantumazione dei minerali nei dintorni della città. Il sistema generava una potenza di più di 600 cavalli vapore” (27).

3. Ambiente e inquinamento

La meccanizzazione dei vari settori produttivi, fondata principalmente sull’energia idraulica, conferisce all’economia medioevale quelle connotazioni industriali che, dal 1700 in poi, con progressione geometrica, diventano il tratto caratteristico dell’economia di tutto l’Occidente. Testimonianze dello sviluppo industriale del Medioevo – che ha preceduto e ha fondato, anche se soltanto dal punto di vista strettamente tecnologico, la rivoluzione industriale dei secoli XVIII e XIX – sono i fenomeni di inquinamento e di degrado ambientale, che in qualche modo colpiscono – certo meno che in epoca moderna, a causa del minore tasso di industrializzazione e del diverso tipo di produzione – anche le popolazioni e il paesaggio dell’Europa medioevale.

Jean Gimpel, che dedica un intero capitolo al fenomeno dell’inquinamento nel Medioevo, individua per esso almeno quattro manifestazioni degne di nota: disboscamento indiscriminato, inquinamento atmosferico, inquinamento acustico e inquinamento delle acque (28).

L’esplosione demografica che quasi raddoppia la popolazione europea fra il 1000 e il 1300, portando gli abitanti da 42 a 73 milioni circa, contribuisce a produrre guasti e distruzioni all’ambiente.“Vennero distrutti migliaia di ettari di foresta per aumentare la superficie delle terre arabili e dei pascoli. Inoltre, a parte il fatto che all’epoca il legno era il principale combustibile sia per uso domestico che per uso industriale, serviva anche nella costruzione delle case, dei mulini ad acqua e a vento, dei ponti, delle installazioni militari, delle fortificazioni, delle palizzate di difesa, delle botti e dei tini dei vignaioli.

Le navi erano di legno come pure le macchine e i telai dei tessitori. I conciatori e i cordai utilizzavano la corteccia di certe specie di alberi. Le fabbriche di vetro soffiato e l’industria del ferro distrussero foreste intere per attivare i loro forni e le loro forge. Si può avere un’idea precisa dell’estensione dei danni causati alle foreste dai fonditori pensando che per ottenere 5 kg. di ferro occorreva trattare 200 kg. di minerale bruciando almeno 25 steri (25 mq) di legno.

Si è stimato che in 40 giorni una sola carbonaia poteva disboscare una foresta nel raggio di un chilometro. […]“Già nel 1140 si abbatteva selvaggiamente la foresta medioevale. Sugero, abate di Saint-Denis e primo ministro […] parla, in una delle sue opere autobiografiche, della difficoltà avuta per reperire le travi lunghe 35 piedi necessarie alla costruzione della navata dell’abbazia di Saint-Denis. I carpentieri del cantiere affermavano che era impossibile procurarsi una sola trave di quelle dimensioni nella regione parigina” (29).

nalogamente, in Inghilterra, a metà del secolo XIV, “la costruzione del castello di Windsor esigette il taglio di un’intera foresta: furono abbattute esattamente 3004 querce. E come se ciò non bastasse, dieci anni più tardi furono abbattute 940 querce nei boschi di Combe Park e di Pamber, portando il totale del taglio per il solo castello di Windsor a 3944 alberi” (30).

Ben presto si fanno sentire le conseguenze di questo disboscamento selvaggio, perché diviene materiale raro e costoso. La società medioevale reagisce alla carenza di legname principalmente su due fronti. Innanzitutto adotta misure legislative come la regolamentazione dei tagli, l’obbligo di piantare un certo numero di alberi all’anno per sostituire quelli abbattuti oppure la concessione delle foreste solamente a certe fucine, diremmo oggi “autorizzate”.

Sul fronte tecnologico, la scarsità del legname è tuttavia aggirata con l’adozione, da parte degli ingegneri, di nuove tecniche costruttive che permettono di utilizzare travi e assi di dimensioni più piccole. Anche il legno come combustibile deve essere sostituito e il combustibile alternativo è il carbone.

Facilmente estratto, almeno inizialmente, in pozzi che di rado superavano i 6-15 metri di profondità, il carbone viene a costituire anche una consistente fonte di introiti.

Tuttavia, insieme con l’uso quotidiano di questo combustibile, la società medioevale conosce l’inquinamento atmosferico: “La prima persona a soffrirne, o almeno a notarne gli effetti dannosi, fu la regina Eleonora d’Inghilterra che, nel 1257, abbandonò precipitosamente il castello di Nottingham, lamentandosi di essere disturbata dai fumi pestilenziali della città industriale” (31).

La regina Eleonora non è comunque la sola a subire i fastidi dell’aria inquinata dai fumi di carbone. Verso la fine del Duecento Londra, infatti, si apprestava a costruirsi la fama di città dello smog essendo in pratica “la prima città del mondo a soffrire per l’inquinamento atmosferico. Nel 1285 e nel 1288 sono menzionate lamentele contro i forni da calce che infettano e corrompono l’aria della città. Furono istituite commissioni d’inchiesta. Nel 1307 venne emesso un proclama reale a Southwark, a Wapping e a East Smithfield per vietare l’uso del carbone di mare nei forni da calce sotto pena d’ammenda” (32).

Un fenomeno di minori proporzioni rispetto ai due appena descritti, ma chiaramente identificato, è nel Medioevo costituito dall’inquinamento acustico: infatti, nelle vicinanze delle fonderie e delle botteghe dei fabbri, era rilevabile il baccano delle forge e delle incudini. I documenti pervenuti fino a noi testimoniano le denunce di migliaia di persone i cui sonni erano disturbati dai rumori provenienti dalle fucine adiacenti. Assai curioso è un componimento in versi di un anonimo del secolo XIV che, esprimendo in modo pittoresco la sua collera per le notti perdute a causa dei rumori dei fabbri, cosi conclude:

“Tik, tak, hic, hack, ticket, tacket, tyk, tyk,

Lus, bus, lus, das. Que Dieu les maudisse ces gacheurs du sommeil de nos nuits” (33).

Più consistenti e più seri, tanto da interessare ancora una volta le autorità, sono i fenomeni di inquinamento delle acque.”I Macelli e le concerie, queste ultime in modo particolare, ne sono ritenuti responsabili. Le municipalità si sforzarono sempre di allontanare i macellai e i conciatori […] a valle dei fiumi e al di fuori delle città” (34).

Due esempi valgono a dare un’idea dello stato delle acque nelle aree ad alta concentrazione industriale. A Parigi, nel 1366, il parlamento ordina che la macellazione e lo squartamento del bestiame, generalmente praticati sul posto, vengano fatti lungo un corso d’acqua a valle della città. Il decreto si rende necessario in quanto qualcosa come 250 mila capi di bestiame erano macellati ogni anno.

Dati del 1293 testimoniano l’abbattimento di 188.522 ovini, 30.116 buoi, 19.604 vitelli e 30.784 maiali: una quantità più che sufficiente per inquinare la Senna. In Inghilterra, nel 1425, a Colchester, nella contea dell’Essex, i birrai si lamentavano del fatto che i conciatori “infestassero” le acque da essi utilizzate per produrre la birra. Il termine “inquinamento” non esisteva ancora, ma il linguaggio del Medioevo era altrettanto espressivo.

In un documento dell’epoca si legge che “la corruzione del fiume è così grande che gli stessi pesci muoiono” (35), e ciò evoca immagini ben note sullo stato di certi corsi d’acqua dei nostri giorni.

Da ultimo, vale la pena di ricordare che la prima legge nazionale anti-inquinamento risale al 1388, ed è votata dal parlamento inglese riunito a Cambridge. Questa legge riguardava sia l’inquinamento atmosferico che quello delle acque. Molto puntualmente era fatto divieto di gettare qualsiasi rifiuto nei fiumi o di lasciarlo trascinare lungo le strade. Tutte le immondizie dovevano essere trasportate fuori della città, “altrimenti – affermava la legge – l’aria sarà fortemente corrotta e avvelenata, innumerevoli malattie e intollerabili epidemie imperverseranno ogni giorno” (36).

Conclusione

Il quadro tracciato – desunto dall’opera di Jean Gimpel e dall’articolo di Terry S. Reynolds – non esaurisce certamente la molteplicità degli interessi e degli ambiti ai quali si rivolge l’uomo medioevale. Una scorsa anche rapida alla cronologia delle invenzioni e delle innovazioni tecnologiche che si sono succedute dall’Alto al Basso Medioevo dà un’idea delle dimensioni del fenomeno e, dunque, dello sforzo che occorrerebbe compiere per comprenderlo e renderlo patrimonio della cultura dei nostri giorni, a partire da quella scolastica (37).

Tuttavia i dati riportati consentono di accettare i giudizi ai quali gli stessi Jean Gimpel e Terry S. Reynolds più volte giungono nel corso delle loro considerazioni. Rovesciando uno dei luoghi comuni più diffusi, quello del Medioevo come intervallo fra epoche di “autentico” progresso, Jean Gimpel afferma che “i secoli XI, XII, XIII hanno creato una tecnologia sulla quale la rivoluzione industriale del secolo XVIII si è appoggiata per prendere il proprio slancio. Le scoperte del Rinascimento hanno svolto soltanto un ruolo limitato nell’espansione dell’industria in Inghilterra nei secoli XVIII e XIX.

“In Europa, in tutti i campi, il Medioevo ha sviluppato più di qualsiasi altra civiltà l’uso delle macchine. È questo uno dei fattori determinanti della preponderanza dell’emisfero occidentale sul resto del mondo” (38).

Allo stesso modo – sottolineando come di solito il termine “Rivoluzione industriale”, usato per indicare la sostituzione del lavoro manuale con le macchine a vapore fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, suggerisca l’idea di una “frattura brusca nei confronti degli sviluppi dei secoli precedenti” – Terry S. Reynolds afferma che “la storia dell’energia idraulica nell’Europa del Medioevo e dell’inizio dell’Era moderna presenta un quadro diverso. […] In altri termini sarebbe più corretto considerare l’ascesa dell’industria europea un processo evolutivo risalente almeno all’VIII o IX secolo, quando gli ingegneri europei cominciarono ad applicare ampiamente l’energia idraulica a processi industriali” (39).

Da ultimo, mi pare si imponga una considerazione. Il concreto progresso tecnico raggiunto nel Medioevo, insieme con la solida prosperità economica che ne è derivata, se, da un lato, contribuiscono a smantellare le menzogne della “leggenda nera”, dall’altro non devono essere considerati come espressioni a sé stanti della civiltà medioevale, quasi fossero separati dalla spiritualità che ha permeato di sé tutto il millennio e che ne ha costituito il carattere unitario.

Al contrario, mondo della produzione, mondo del lavoro e mondo della tecnica emergono e si sviluppano in quello stesso solco della regola benedettina dal quale emergono e si sviluppano anche le più vitali e le più ricche fra le istituzioni medioevali. Scrive Terry S. Reynolds che “uno fra gli elementi più critici nel mutamento del clima tecnologico dell’Europa occidentale fu il sistema monastico, fondato sulle regole formulate nel VI secolo da San Benedetto” (40), confermando con tale giudizio quello di Régine Pernoud, secondo cui la regola benedettina, oltre a creare una “spiritualità del lavoro”, spinge gli uomini durante il Medioevo a “una serie di sforzi per migliorare la loro situazione e le loro risorse” (41).

Questa stretta integrazione fra due ambiti tanto diversi – il mondo tecnico-economico e il mondo spirituale – non deve stupire: essa non è che una espressione di quella concordanza tra sacerdozio e impero, tra spirituale e temporale, tra fede c cultura, che gli uomini del Medioevo, con alterne fortune, tentano di perseguire conformando allo spirito cristiano leggi, istituzioni e costumi. Ed è anche, nelle sue manifestazioni meno contingenti, parte del patrimonio che essi trasmettono agli uomini di oggi perché costruiscano la Cristianità di domani.

Note

(1) Régine Pernoud, “Il Medioevo: l’unica epoca di sottosviluppo che ci abbia lasciato delle cattedrali”, intervista a cura di Massimo Introvigne, in Cristianità, anno XIII, n. 117, gennaio 1985.
(2) Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta. Cristianità, Piacenza 1977, p. 94.
(3) Sulla genesi e sugli scopi della propaganda antimedioevale, cfr. Marco Tangheroni, La “leggenda nera” sul Medioevo, in Cristianità, anno VI, n. 34-35, febbraio-marzo 1978.
(4) Per quanto attiene all’Inquisizione in generale e a quella spagnola in particolare, cfr. Jean Dumont, Procès contradictoire de l’Inquisition espagnole, Famot, Ginevra 1983; e, Idem, L’Inquisizione fra miti e interpretazioni, intervista a cura di Massimo Introvigne, in Cristianità, anno XIV, n. 131, marzo 1986.
(5) Cfr. Régine Pernoud, intervista cit.
(6) Per il recupero della tecnica e delle invenzioni medioevali è stato rilevante il contributo dato da Marc Bloch e dalla scuola sorta intorno alle Annales d’Histoire éeconomique et sociales, da lui fondata tra le due guerre insieme a Lucien Fabvre. Tuttavia, una parte di tale scuola utilizzò l’abbondante documentazione raccolta in senso economicistico e sociologistico, facendo da supporto a prospettive storiografiche marxistiche. Sul metodo e sulle scelte tematiche di questo autore cfr., per esempio, M. Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, trad. it., 6a ed., Laterza, Bari 1977.
(7) Cfr. Jean Gimpel, La révolution industrielle du Moyen Age, Éditions du Seuil, Parigi 1975, pp. 256.
(8) Cfr. Terry S. Reynolds, Le radici medioevali della Rivoluzione industriale, in Le Scienze – edizione italiana di Scientific American, anno XVII, vol. XXXIII, n. 193, settembre 1984, pp. 110-121.
(9) Cfr. J. Gimpel, Costruttori di cattedrali, trad. it. dell’edizione illustrata, Jaca Book, Milano 1982; per farsi un’idea della gamma di interessi dell’autore e della prospettiva a essa soggiacente, cfr. Idem, Sviluppo tecnologico medioevale e Terzo Mondo, intervista a cura di Luciano Benassi, in Cristianità, anno XIV, n. 134-135, giugno-luglio 1986, dove si trovano anche suoi elementi bio-bibliografici.
(10) Il che, evidentemente, non esclude imprecisioni di dettaglio: cfr., per esempio, Dom Jean Leclercq O.S.B. La donna e le donne in S. Bernardo, trad. it., Jaca Book, Milano 1985, pp. 108-110, a proposito di una presunta manifestazione di ostilità del santo verso i mulini affermata in J. Gimpel, La révolution industrielle du Moyen Age, cit., p. 10.
(11) J. Gimpel, La révolution industrielle du Moyen Age, cit., p. 13.
(12) Ibid., p. 14.
(13) Ibid., p. 15-16.
(14) Ibid., p. 16.

(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) T. S. Reynolds, art. cit., p. 113.
(18) Il caso dell’antico impero cinese, capillarmente organizzato ma sostanzialmente arretrato dal punto di vista tecnologico, non è unico nella storia. Secondo alcuni studiosi delle civiltà, come Karl August Wittfogel e Fritz M. Heichelcheim, esso rientra nel quadro di un fenomeno politico-economico molto diffuso, quello delle “società idrauliche” o “civiltà idrauliche”, che interessa oltre agli Stati dell’antico Oriente, quelli dell’America precolombiana, dell’Africa Orientale e di alcune regioni dell’Oceano Pacifico, specialmente le isole Hawaii. Il tratto che apparenta civiltà tanto lontane nel tempo e nello spazio è l’assenza pressoché completa di proprietà privata e il totale controllo da parte dello Stato della vita economica e politica del paese. Furono queste forme di pianificazione e di collettivismo estremamente spinti, cioè di vero e proprio socialismo statale, a mortificare ogni possibilità di sviluppo tecnologico su vasta scala nel mondo antico. Sul fenomeno, cfr. Igor Safarevic, Il socialismo come fenomeno storico mondiale, trad. it., “La Casa di Matriona”, Milano 1980, pp. 177-257.
(19) T. S. Reynolds, art. cit., p. 114.
(20) Ibidem.
(21) J. Gimpel, op. cit., p. 116.
(22) T. S. Reynolds, art. cit., p. 116.
(23) Ibidem.
(24) J. Gimpel, op. cit., p. 41.
(25) T. S. Reynolds, art. cit., p. 116.
(26) J. Gimpel, op. cit., p. 39.
(27) T. S. Reynolds, art. cit., p. 121.
(28) J. Gimpel, op. cit., pp. 79-92.
(29) Ibid., pp. 79-80.
(30) Ibid., p. 81.
(31) Ibid., pp. 84-85.
(32) Ibid., p. 85.
(33) Ibid., p. 88.
(34) Ibidem.
(35) Ibid., p. 89.
(36) Ibid., p. 90.
(37) Cfr. la cronologia delle invenzioni e delle innovazioni tecnologiche dal secolo VI al XV, ibid., pp. 245-249.
(38) Ibid., p. 9.
(39) T. S. Reynolds, art. cit., p. 110.
(40) Ibidem.
(41) R. Pernoud, intervista cit. I motivi scritturali e dottrinali che fondano l’integrazione del lavoro umano nella vita spirituale per generare una “spiritualità del lavoro” sono ricordati e ribaditi anche dal più recente Magistero pontificio: “Dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un’azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All’uomo intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza, nel quale troviamo molti contenuti – come luci particolari – dedicati al lavoro umano. […] è necessaria un’adeguata assimilazione di questi contenuti: occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell’uomo concreto […] quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell’opera della salvezza” (Giovanni Paolo II, Enciclica Laborem exercens, del 14-9-1981, n. 24).