Fascismo e antifascismo / L’ultima provocazione di De Felice
di Chiara Valentini
E’ anche per fornire in anticipo un filo conduttore e per preparare il terreno alle inevitabili polemiche che lo storico ha scritto, assieme al vicedirettore di Panorama Pasquale Chessa, un libro intervista, Rosso e Nero (Baldini & Castaldi). E’ un’operazione che ricorda quella fatta nel 1975, con la famosa “Intervista sul fascismo” a Michael Le eden.
In quell’anno magico per le sinistre De Felice aveva preso di petto con un certo coraggio la storiografia più accreditata accusandola di conformismo per come trattava il fenomeno fascista. E subito era stato tacciato da molti di compiacenza per il Ventennio. Oggi, in un clima del tutto diverso, il suo obiettivo è di sollevare i velo sugli anni di Salò e della Resistenza, visti anche come momenti chiave per spiegare i guai dell’Italia di oggi.
Si considera come momento fondante dell’Italia repubblicana il 25 aprile, la Liberazione. Lei invece in campo una data ben più cupa, l’8 settembre, in cui vede una specie di peccato originale della Repubblica, destinato ad esercitare la sua influenza fino ad oggi. Perché?
«L’8 settembre è il crollo completo di tutto. “Abbasso tutti” c’era scritto su una spalletta del Lungotevere. Quel giorno, con un senso di premonizione, i giornali italiani uscirono listati a lutto. La realtà è che si stava consumando il senso di appartenenza nazionale. L’idea dell’Italia come unità di tutti fu travolta da quella vicenda incredibile».
Vuole dire che l’Italia, per mantenere l’identità, avrebbe dovuto continuare la guerra a fianco della Germania?
«No, L’Italia non poteva che chiedere l’armistizio. Ma fu una follia il modo in cui si agì. La fuga di Vittorio Emanuele, di Badoglio, del capo si Stato maggiore Ambrosio e di buona parte dei vertici militari, l’abbandono delle truppe nei territori occupati, la dissoluzione dell’esercito furono qualcosa di talmente grave da segnare e minare per sempre la memoria collettiva nazionale»
Perché non crede che la Resistenza sia riuscita a ricostruire il tessuto morale del Paese?
«Per la ragione che la Resistenza, come d’altra parte la Rsi non ebbe adesioni di massa. Fra la grande maggioranza degli italiani ci fu un atteggiamento di sostanziale estraneità se non di rifiuto nei confronti di entrambe le formazioni. Il biennio 1943-45 fu un periodo di guerra civile, di dimensioni e drammaticità ignote ad altri paesi, con due parti molto motivate in lotta fra di loro e la grande nassa che voleva solo sopravvivere».
Questo però è quel che è successo in tutta Europa, dove c’era lo stesso rifiuto della guerra da parte delle popolazioni.
«Lei dimentica che per molti anni in Italia la parte che ha vinto ha presentato la vulgata del popolo in armi a fianco dei partigiani. E’ stata una vulgata aggressiva ed egemonica, a cui si devono gli stereotipi che ci hanno impedito di dipanare i nodi irrisolti degli ultimi cinquant’anni. Una delle lacune riguarda proprio l’atteggiamento della gente comune, la “condizione umana” di quegli anni».
La prospettiva, nel libro scritto con Pasquale Chessa, una ricostruzione non soltanto negativa della Repubblica di Salò. Si aspetta accuse di revisionismo?
«Che lo facciano pure…Per sua natura lo storico non può essere che revisionista, dato che il suo lavoro prende le mosse da quel che è stato scritto per correggerlo, per ampliarlo. In particolare rispetto a Salò è ora di farla finita con la vulgata di parte fascista sia con l’immagine che ne hanno dato i vincitori, per cui la Rsi sarebbe stata un fenomeno unitario, dove non si distinguono gli assassini come Pietro Koch o gli estremisti faziosi come Pavolini da uomini come Giovanni Gentile. Mi sembra che sia ora di uscire da una visione mitologica di questi avvenimenti».
Al contrario di quel che era stato fatto finora da quasi tutti, lei dà un’interpretazione positiva della decisione di Mussolini di mettersi a capo della Rsi. Perché?
«Piaccia o non piaccia, Mussolini, che dopo la prigionia al Gran Sasso si considerava un uomo finito, aveva accettato le pressanti richieste di Hitler per la costituzione di una repubblica fascista del Centro-nord perché convinto che quello era il solo modo di mettersi al servizio della patria , per cercare di difenderla. Hitler minacciava di far subire all’Italia il trattamento che aveva avuto la Polonia. E c’era anche il timore che i tedeschi potessero mettere in piedi un proprio governo».
Crede che lo avrebbero fatto?
«No. Hitler aveva bisogno di Mussolini, perché se il padre, l’inventore del fascismo si fosse ritirato, anche l’allievo ne sarebbe stato squalificato. Questo Mussolini non riuscì a valutarlo. Ma le ragioni che lo mossero furono la difesa del Paese»
Questo non toglie che avesse trascinato l’Italia in una guerra tragica.
«Si, ma il discorso è astratto. Nel ’40 Mussolini non poteva restare fuori dal conflitto. Nel momento in cui la Francia crolla, l’idea della guerra diventa popolare, ci si immagina una guerra che sarebbe stata vinta in breve. E forse sarebbe andata così se Winston Churchill, un eroe a cui dobbiamo il fatto che i Paesi europei siano Paesi liberi, il vero vincitore della guerra. Ormai sappiamo che nel 1940, dopo Dunkerque, senza Churchill gli inglesi si sarebbero messi d’accordo con Hitler».
I servizi segreti inglesi, a quanto lei racconta, hanno giocato un ruolo importante anche all’interno di Salò.
«Non solo i servizi inglesi. Una delle ragioni per cui la storia di Salò è mal conosciuta è che è stata anche la storia dei servizi segreti che operarono in Italia durante la guerra. A Salò oltre agli inglesi c’erano gli americani, i russi, naturalmente i tedeschi e perfino gli svizzeri, che avevano moltissimi agenti e giocavano una loro partita. Per esempio, tutti si sono sempre attribuiti il merito del salvataggio del porto di Genova, dai partigiani ai repubblichini, al cardinale Siri. E’ vero, ma quel che non si sa è che erano stati gli svizzeri a tirare le fila, a compiere il lavoro sotterraneo, perché il loro Paese aveva bisogno di quel porto per il dopoguerra».
Lei scrive anche che dietro la fucilazione di Mussolini si mossero varie forze straniere in competizione fra loro.
«Si, gli americani volevano Mussolini vivo. Soprattutto il presidente americano Roosevelt, che aveva avuto l’idea del processo di Norimberga, voleva il padre del fascismo sul banco degli accusati per una questione simbolica prima che politica. Gli inglesi al contrario erano ben decisi a non far arrivare Mussolini vivo al processo, perché quel che avrebbe potuto dire creava problemi enormi»
A che cosa si riferisce?
«Nella famosa borsa che Mussolini aveva con se quando fu catturato dai partigiani c’era, non per caso, una scelta ragionata del suo carteggio con Churchill…»
Ufficialmente, però, la posizione degli Alleati era che Mussolini restasse vivo.
«Certamente, nel testo dl cosiddetto “armistizio lungo” era stato scritto e riscritto più volte l’articolo che riguardava l’obbligo del Cln di consegnare Mussolini agli Alleati se fossero stati loro a catturarlo. Ma erano solo parole. Nella realtà le cose andarono in modo ben diverso. Gli americani, pasticcioni come sempre, avevano messo in piedi ben due gruppi dell’Oss, il loro servizio segreto, che agivano all’insaputa uno dell’altro per catturare il Duce. Ma qualcuno, secondo me gli inglesi, li aveva fatti fessi. Un gruppo venne dirottato ad acchiappare Graziani, l’altro si disperse sulle montagne».
Intanto i partigiani mettevano le mani su Mussolini e sulla Petacci.
«E qui compare il capo della branca militare dei servizi inglesi, ad avvertire i membri più influenti del Cln che se non volevano farsi portar via Mussolini dagli americani dovevano fucilarlo subito. L’uomo era Max Salvatori, molto legato all’ala azionista».
Gli americani non si accorsero di nulla?
«Furono giocati clamorosamente. Appena avevano avuto la notizia della cattura avevano mandato un dispaccio urgente per far sapere che stavano per mandare un aereo per prelevare il Duce. Ma il Cln rispose che era troppo tardi, che l’esecuzione c’era già stata. Il bello è che non era vero. La fucilazione avvenne varie ore dopo, come poi scoprirono gli americani inferociti, dopo una minuziosa indagine che è racchiusa in un documento di 500 pagine».
Lei ha trovato quel documento?
«Certo, ma ne ho trovati molti altri che mi stanno obbligando a riscrivere intere partidel mio ultimo volume su Mussolini. Faccio solo un piccolo esempio. E’ noto il discorso che fece a Milano il rappresentante americano Charles Poletti dopo piazzale Loreto, elogiando il popolo italiano che aveva saputo fare giustizia. Ma il messaggio che aveva mandato in America e che ho potuto avere è ben diverso. Poletti dice che era stata una cosa orribile, che gli italiani erano dei barbari».
Ha scoperto la verità anche sull’oro di Dongo, altro classico mistero italiano?
«E’ un argomento che mi interessa poco. Comunque ho trovato molte carte, perché l’Italia è uno strano Paese, che infratta i documenti ma che poi è molti restio a distruggerli. Ho perfino una relazione completa dal convento dei Cappuccini di Dongo. L’opinione che ne ho ricavato è che l’oro si era in buona parte disperso in mille rivoli, fra persone del posto. Una parte era andata alla Rsi, una parte ai partiti e soprattutto ai comunisti, che erano i più organizzati».
Quali altre novità ha trovato?
«Ho trovato addirittura diverse versioni dell’autopsia di Mussolini. Mi sono fatto l’idea che la più attendibile è quella, inedita, allegata all’inchiesta segreta degli americani. Risulta un colpo di arma da fuoco alla nuca di Mussolini, che non compare nelle altre due versioni».
Sarebbe una prova della doppia fucilazione del Duce di cui si è parlato?
«Lo si vedrà nel libro che sto preparando. Mi sembra si possa già capire che qualcosa non torna nella versione ufficiale della fucilazione davanti al famoso cancello di Mezz’egra. In quelle condizioni è un po’ difficile sparare un colpo alla nuca. E il colpo di grazia si dà alla tempia».
Professore, dopo trent’anni di studi dedicati a Mussolini che giudizio dà del suo personaggio?
«E’ stato un uomo che in un momento estremamente difficile di trasformazione politica e ideale dell’Europa ha cercato di dare una funzione all’Italia. Ma non ha avuto la forza di combattere chi si opponeva ai cambiamenti, fossero di destra o di sinistra. Era partecipe del vecchio e del nuovo, si era potato dietro tutti i miti di una rivoluzione che doveva essere diversa da quella bolscevica, ma che non ha avuto la capacità di realizzare. Non era un guerrafondaio in senso classico. Anche se il colonialismo italiano è temporalmente l’ultimo non è così antistorico. Quei territori dovevano dare all’Italia la dimensione di grande Paese e allo stesso tempo servire da sbocco al lavoro italiano».
Uno po’ di tempo fa a Gianfranco Fini, lo sdoganamento del Msi, era scappato detto che Mussolini è stato il maggior statista del secolo. Lei cosa ne pensa?
Sono sciocchezze, capaci solo di scaldare il petto di qualche vecchietto nostalgico. Mussolini ha fatto all’Italia danni molto forti, certo maggiori dei benefici. La sua gestione del potere è stata autoritario-patrnalistica, tipicamente italiana, non certo alla Hitler o alla Stalin. Il punto drammatico è che allora l’Italia non seppe esprimere una classe dirigente alternativa, che venne fuori solo dopo l’8 settembre. La verità è che Mussolini è stato forte perché erano deboli gli alti».
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Estratto da: Quanti erano i partigianiI
veri numeri della Resistenza. Dagli archivi inediti di salò
Da “Rosso e nero” ecco alcuni brani sulla valutazione quantitativa della Resistenza
La fonte più importante per una valutazione storico-quantitativa del movimento partigiano e delle azioni di controguerriglia, è inedita: la documentazione, raccolta per uso interno, dall’Ufficio operazione e servizi dello Stato maggiore della Rsi con il titolo “Relazione complessiva sulla forza dei banditi. Attività banditi e anti-banditi dal settembre 943 al novembre 1944”, ci consente di ripercorrere passo passo la storia ella Resistenza.
La prosa dei burocrati dell’esercito di Salò, pur non avendo la qualità del racconto tacitiano, ha il dono della sintesi storica: «resta come la forza numerica dei banditi da un minimo di 4-5000 prima dell’8 settembre 1943» – il dato si riferisce agli slavi operanti nella Venezia Giulia – «sia andata sempre più aumentando nei mesi successivi fino a raggiungere un massimo di 110.000 nell’ottobre 1944», si legge nel primo capoverso. (…)
«Nei mesi di novembre e dicembre 1943 e nel gennaio 1944 il numero dei banditi si accrebbe di circa 19.000 uomini a causa delle chiamate di classi alle armi effettuate dal risorto esercito repubblicano (…) Nei mesi di febbraio marzo e aprile il fenomeno dell’aumento del numero dei banditi si accentuò (…) a causa della successiva chiamata alle armi e dell’invio in Germania di contingenti dell’esercito e per la costituzione e l’addestramento delle note G.U. [ndc: Granti Unità] (…).
All’inizio di maggio la situazione apparve favorevole per un provvedimento di clemenza che consentisse a un gran numero di italiani che si erano posti fuori dalla legge per renitenza o diserzione di rientrale nella normalità. Infatti nel campo dei banditi apparivano manifesti segni di stanchezza e di delusione per il mancato arrivo degli anglo-americani e per il lungo arresto del fronte meridionale a Cassino. Il 9 maggio venne, infatti, promulgato il primo bando di condono del Duce.
Tale bando diede ottimi risultati specie in alcune regioni come nell’Umbria (…) e molto più favorevoli ne avrebbe dati se non fosse intervenuta la nuova offensiva anglo-americana che valse a risollevare le speranze egli appartenenti al banditismo (…) I
n complesso alla fine di maggio i banditi assommavano a 68.000 uomini, con una diminuzione di 7.000 rispetto al 30 aprile. A fine ottobre e all’inizio di novembre l’irrigidirsi della resistenza germanica sull’Appennino tosco-emiliano, la dichiarazione del generale Alexander che ammoniva i banditi a non attendersi avvenimenti decisivi durante l’inverno e l’interruzione degli aviorifornimenti anglo-americani, nonché le gavi perdite subite dai banditi, creano l’ambiente favorevole per un nuovo provvedimento di clemenza. Il 28 viene promulgato, infatti, il secondo bando di amnistia del Duce.
Tale bando dà ottimi risultati che si ripercuotono sul numero dei banditi con una diminuzione di circa 30.000 unità».
D’altra parte, contro i partigiani, quanti erano i combattenti di Salò? Secondo un prospetto stilato per Mussolini dall’Okw (Comando supremo della Wehrmacht), nel settembre del 1944 le forse repubblicane contavano 780 mila uomini, di cui 520 mila militari e 260 mila lavoratori militarizzati. Secondo i dati di Virgilio Ilari le forze armate repubblicane contavano su 573 mila soldato arruolati per leva o richiamo o volontari.
In conclusione, ho pensato di fare un conto, approssimativo ma significativo, per delimitare il numero degli individui coinvolti dall’una e dall’altra parte: sono arrivato a 3 milioni e mezzo – 4 milioni. Mettendo insieme familiari stretti e parenti lontani, amici e vicini. Pochi, rispetto ai 44 milioni di persone che abitavano allora l’Italia.