La Questione Fiscale

GdFOsservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
sulla Dottrina sociale della Chiesa
 4 novembre 2014

di Samuele Ceccotti

Rifacendosi ai dati di una ricerca demoscopica recentemente condotta dalla società di sondaggi SWG, Piero Ignazi scriveva l’11 luglio 2013 su l’Espresso del “marchio di infamia che circonda gli evasori, considerati i peggiori nemici della nostra società, addirittura sopra la criminalità organizzata”[1].

A noi interessa poco sapere quanto siano affidabili le rilevazioni diSWG che assegnano agli evasori fiscali il poco invidiabile primato nell’odio sociale, ci limitiamo a considerare l’affermazione di Piero Ignazi come fotografia di una inedita morale pubblica che vede gli evasori/elusori come i nemici pubblici numeri uno. Viene facile un sospetto: che tale sentire popolare non sia altro che la conseguenza di una particolare declinazione di quel collaudato meccanismo, ampiamente studiato dalla psicologia sociale, posto in essere da ogni regime al fine di indirizzare il risentimento collettivo verso un presunto nemico pubblico così da deviare l’attenzione popolare e scongiurare una presa di coscienza, da parte dei cittadini, dei reali problemi e delle vere ingiustizie.

Sarebbe, poi, interessante e anche amaramente divertente rilevare come quegli stessi italiani che assegnano agli evasori il marchio di grave infamia siano poi quasi tutti, in un modo o nell’altro (chi può dire, ad esempio, di non aver mai pagato in vita propria una prestazione d’opera senza richiedere la relativa fattura? Etc.), ascrivibili alla categoria degli infami evasori/elusori fiscali. Sarebbe, cioè, interessante analizzare i meccanismi psicologici sottesi e come la proiezione dalla colpa verso un anonimo – “l’evasore” – consenta all’un tempo di non dover mutare condotta (si distoglie la colpa da sé) e, allo stesso tempo, di non svolgere una vera critica alla legittimità del sistema fiscale che, se condotta, porterebbe al sorgere di seri problemi di coscienza rispetto alla propria relazione con lo Stato.

Sembra che l’italiano medio evada senza troppi scrupoli e, allo stesso tempo, consideri l’evasione fiscale (degli altri) una grave colpa, il tutto accettando pacificamente il sistema fiscale positivamente dato.

Ciò che noi ci proponiamo, con questo articolo, invece è proprio di valutare la pretesa fiscale dello Stato sul piano giusfilosofico della legittimità, alla luce cioè di quell’ordine giuridico oggettivo che “ratio non facit sed solum considerat” [2] e che precede e fonda ogni ordinamento che voglia essere veramente giuridico [3].

La questione fiscale intesa come pretesa dello Stato e come dovere del cittadino è tutt’altro che un tema marginale nella considerazione della statualità, di cosa sia la comunità politica e l’autorità che la regge, di quali ne siano i fini e i limiti.

In verità, trattare della fiscalità consente, se la tematica è affrontata con rigore scientifico e sino alle estreme conseguenze del ragionamento, di riflettere criticamente sull’idea stessa che la modernità politica propone dello Stato e della legge. Trattare dell’evasione/elusione fiscale in sede di scienza etica e giuridica comporta inevitabilmente la considerazione critica della concezione ideologica posta alla base, nella modernità politica, della relazione tra cittadino e Stato, tra proprietà privata e Stato, nonché la questione della legittimità della legge positiva (in questo caso: fiscale).

Volendo sintetizzare, le domande fondamentali rispetto al nostro oggetto sono: lo Stato è legittimato ad avanzare diritto su una quota variabile dei beni privati dei sudditi? E se si, in base a cosa?

Nello stesso interrogarci circa la “legittimità” di una pretesa dello Stato confessiamo il nostro convincimento circa l’inadeguatezza del positivismo giuridico a dare ragione del diritto e del fatto politico. Infatti per un giuspositivista coerente non avrebbe senso una simile domanda essendo il diritto una creazione dello Stato e, quindi, essendo quest’ultimo fonte di legittimità – dal giuspositivista non distinta mai realmente dalla legalità – in quanto fonte del fatto giuridico, mai oggetto di un possibile giudizio di legittimità.

Nel quadro del giuspositivismo non è, quindi, possibile porre la questione della legittimità della pretesa fiscale e del suo fondamento, si potrà tutt’al più sollevare questione di legittimità (ad es. costituzionale) rispetto a questa o quella norma fiscale particolare e, comunque, il criterio di giudizio sarà sempre la conformità, della norma considerata, ad una norma superiore, come ad es. la Costituzione, anch’essa espressione della volontà positiva del legislatore. Analogo discorso circa la questione di legittimità rispetto alla normativa internazionale.

In fondo, nel quadro del giuspositivismo, anche quanto cade sotto il nome di “questione di legittimità” si rivela, in verità, come un caso particolare di “questione di legalità” trattandosi di verificare la “legalità” di una norma positiva inferiore rispetto ad una norma positiva superiore. Le pretese dello Stato restano ingiudicate perché ingiudicabili in quanto non si riconosce un diritto altro da quello positivo, ovvero posto dallo Stato.

Se si accetta un simile quadro si deve, per coerenza, ammettere l’ingiudicabilità delle norme positive (anche fiscali) e dunque, potenzialmente, la libertà assoluta dello Stato di disporre, attraverso la legge positiva (sia essa costituzionale o ordinaria), della proprietà privata dei sudditi. Ben pochi, però, anche tra i giuspositivisti sarebbero disposti a simile coerenza logica, ad es., rispetto ai propri beni di fortuna di cui lo Stato potrebbe, nel caso, disporre liberamente e interamente senza limite o criterio.

Abbiamo accennato, in estrema sintesi, a come il ricorso alla Costituzione o alla normativa internazionale sia solo una illusione di superare l’arbitrarismo proprio del giuspositivismo. Si porta semplicemente l’arbitrio ad un piano definito superiore della normativa positiva senza che l’arbitrarietà dell’ordinamento ne esca sanata: l’ordinamento complessivo, in quanto inteso come meramente positivo, resta, per definizione, arbitrario in quanto avente per fonte e criterio unicamente la volontà del Sovrano che, per tanto, è necessariamente assoluta e che, come tale, non ha fondamento ne criterio.

Si dirà che la soluzione viene dalla democrazia ovvero, nel nostro caso, dal No taxation without rapresentation. E’ vera soluzione?

Due sono le caratteristiche essenziali della pretesa fiscale nelle moderne liberal-democrazie (sovranità popolare): l’assoluta arbitrarietà della norma, coerentemente con l’opzione giuspositivista, e la norma intesa quale espressione della volontà popolare (solitamente attraverso la mediazione parlamentare). Detto altrimenti le imposte debbono essere volute dai rappresentanti di quanti poi le pagheranno [4] e questo è l’unico criterio e l’unico limite, se di criterio e di limite si può parlare [5], alla pretesa fiscale dello Stato.

Nei sistemi a sovranità popolare compiuta, dove cioè non si dia il king in parlament ma unicamente ilparlament, la natura assoluta, virtualmente senza limiti, della pretesa fiscale dello Stato è solo più evidente ma già nei regimi costituzionali moderni lo era nella misura in cui lo Stato faceva propria l’opzione di sovranità [6].

Per poter valutare veramente la pretesa fiscale dello Stato è necessario riconoscere un criterio di giudizio che non sia, a sua volta, creazione dello Stato ovvero riconoscere un ordine obiettivo di giustizia. Tale ordine etico-giuridico oggettivo non può, però, essere una opzione ideologica (liberalismo, socialismo, etc.) e neppure un sistema (nel senso di costruzione teorica internamente coerente dati i postulati di scuola) filosofico in senso stretto, pena la caduta nell’arbitrarietà. Si tratta piuttosto di applicare la ragione alla dimensione sociale e politica dell’uomo, applicarla secondo le regole proprie del pensare sensato, ovvero con quella logica naturale che consente ad ogni uomo di ragionare (sensatamente). E ciò è già rivoluzionario in sé rispetto al dogma giuspositivista.

Riproponiamo, quindi, le due domande nel quadro dichiarato d’una rivendicata competenza della ragione umana (di ogni uomo in quanto uomo) nel ricercare e valutare criticamente il necessario fondamento nella giustizia della norma positiva, pena l’essere “puro arbitrio” [7] della norma, ovvero il suo non essere neppure vera legge.

Chiediamoci, quindi, nuovamente: lo Stato è legittimato ad avanzare diritto su una quota variabile dei beni privati dei sudditi? E se si, in base a cosa?

Già il primo quesito necessita ulteriori interrogativi a scopo di precisare e sottolineare. Che tipo di diritto è quello che lo Stato avanza? E cosa si intende per “privati” rispetto ai beni sui quali lo Stato avanza simile pretesa? Le risposte alle due nuove domande sono tra loro collegate.

Lo pretesa fiscale dello Stato sottintende la rivendicazione, da parte dello Stato stesso, di un diritto reale superiore sui beni dei sudditi? Se così fosse, il proprietario in senso stretto sarebbe lo Stato e non i privati. Nel caso di una simile ipotesi non si darebbe una vera proprietà privata in senso pieno, tutto sarebbe statale con alcuni beni soggetti a diritti reali inferiori (di pseudo-proprietà) sempre, fatto salvo, il diritto reale superiore dello Stato. Non sembra sia opzione rivendicata da nessun ordinamento positivo liberal-democratico.

Tuttavia merita essere menzionata come ipotesi; perché, anche in simile caso, il titolare del diritto reale superiore (lo Stato) non potrebbe cancellare i diritti reali inferiori dei privati a proprio arbitrio e al di fuori di una norma contrattualmente pattuita. Di più: anche qualora pattiziamente si stabilisse un “diritto” arbitrario dello Stato in quanto titolare dei diritti reali superiori, ciò non sarebbe vero “diritto” perché un simile contratto sarebbe evidentemente antigiuridico. Così, neppure concependo la proprietà dei privati come pseudo-proprietà e riconoscendo lo Stato quale unico vero proprietario di ogni bene di fortuna, si potrebbe giustificare una pretesa arbitraria dello Stato su detti beni.

In verità, nessun ordinamento giuridico liberal-democratico nega formalmente la proprietà privata. Quindi diritti reali superiori sui beni di proprietà privata non esistono, neppure in capo allo Stato. In virtù di cosa, allora, lo Stato avanza pretesa su una quota dei beni privati dei propri sudditi?

Prima di rispondere, dobbiamo ancora precisare di che natura è il diritto rivendicato dallo Stato sui beni privati. Non è un diritto diretto ed immediato come, appunto quello del proprietario, ma indiretto e mediato. Propriamente non è un diritto sui beni, non è cioè un diritto reale ma, piuttosto, il diritto che l’autorità legittima ha ad essere obbedita dai sudditi e da questi aiutata nell’adempimento del proprio fine che è dato dal bene comune.

L’autorità politica ha, quindi, il diritto a pretendere il contributo dei sudditi e i sudditi hanno il dovere di contribuire (anche economicamente) in ragione del bene comune. La pretesa fiscale dello Stato e il relativo dovere fiscale dei privati trova ragione nella natura politica dell’uomo e nella conseguente necessità della comunità politica per un vivere veramente umano degli uomini. Questo è, infatti, il bene comune, il bene proprio dell’uomo, di ogni uomo in quanto uomo e, proprio per questo, comune (comune ad ogni uomo).

Il bene comune non è il bene “in comune” e neppure il bene pubblico, tanto meno il bene dello Stato, dellapersona civitatis o di una supposta persona giuridica della collettività concepita a modo di ente morale. Il bene comune è quel bene dell’uomo in quanto uomo che, in pienezza, si può realizzare unicamente nella vita umana in società (nella societas perfecta, nella comunità politica) e che presuppone la realizzazione dei beni umani conseguibili individualmente, nella società domestica e nei corpi intermedi della società civile.

Ecco che la pretesa fiscale trova una ragione e, con ciò, un criterio e un limite: il bene comune.

Solo nella misura in cui la pretesa fiscale è motivata dal bene comune, tale pretesa è legittima e si dà dovere fiscale in capo al suddito. Sono tenuto, per giustizia, a versare le giuste imposte/tasse e le imposte/tasse sono giuste solo quando sono motivate dal bene comune così che versandole concorro anche al mio bene in quanto uomo.

La norma fiscale positiva non è, allora, un assoluto, un mero iussum arbitrario e ingiudicabile. Anzi, trattandosi di un diritto mediato e indiretto sui beni privati (sui quali, invece, il proprietario ha diritto diretto e immediato) giustificato unicamente dal bene comune, qualora una tale giustificazione venisse a mancare, la riscossione delle imposte/tasse da parte dello Stato costituirebbe un atto ingiusto e violento, furto o rapina. Si tratterebbe di furto ai danni dei cittadini soggetti a prelievo fiscale alla fonte, di rapina ai danni dei cittadini costretti, sotto minaccia di sanzione, a consegnare al Fisco proprie sostanze.

E’ il bene comune che giudica la legittimità delle pretese fiscali. E una legislazione fiscale può contravvenire al bene comune in molti modi, ad es. imponendo un carico fiscale eccessivamente esoso e quindi de facto lesivo della proprietà privata. Il caso italiano è facilmente collocabile in questa categoria con una pressione fiscale nel 2013 del 44,2 % del PIL quando nel 1981 era del 31, 1 %. Una simile pressione fiscale, fatta forse eccezione per il caso straordinario e limitato nel tempo di uno sforzo bellico proprio dello stato di guerra, è di per sé prova quasi certa della illegittimità della normativa fiscale in quanto, lo Stato viene a disporre ordinariamente della metà della ricchezza privata prodotta violando pesantemente la stretta giustizia che vuole sia dato a ciascuno il suo. Si noti poi come dal 1981 al 2013, data una sostanziale parità di servizi offerti, vi sia stato un aumento fortissimo della pressione fiscale.

Non è però solo il carico fiscale che deve essere considerato ma anche, anzi soprattutto la finalità per la quale le tasse/imposte sono previste e riscosse. Solo e soltanto nella misura in cui le tasse/imposte concorrono al bene comune, ovvero rendono possibile alla autorità di guidare la comunità politica al conseguimento di quei beni umani che l’uomo non è in grado di conseguire da solo e neppure associato in famiglia o nei corpi intermedi, esse sono giuste, legittime e dunque doverose.

Come giudicare, dunque, le tasse/imposte finalizzate a finanziare non le funzioni proprie della comunità politica ma altro? Non sono forse un abuso da parte dello Stato? La pretesa degli Stati moderni di finanziare, con le imposte, servizi non riconducibili alla funzione propria della comunità politica, servizi che, qualora lo Stato liberamente ritenesse di erogare in proprio, dovrebbero finanziarsi con il corrispettivo di tariffe, solleva non poche riserve di legittimità.

Se poi trattiamo del Welfare State, ovvero della assunzione a carico dello Stato di oneri di spesa per interventi di natura mutualistica, assicurativa e “caritatevole”, ma anche di vera e propria ridistribuzione della ricchezza, ricchezza prodotta dai privati a cui viene sottratta attraverso tasse e imposte, in spregio della giustizia commutativa che ha determinato i titoli legittimi di proprietà, ai quali lo Stato fa fronte attraverso la leva fiscale, il giudizio di illegittimità è evidente.

Se la ragione che fonda il diritto dello Stato alla pretesa fiscale viene meno, ad es. nel caso di una normativa fiscale ingiusta/illegittima, non viene forse meno anche il relativo dovere fiscale del suddito?

Una dottrina morale antica e raffinata come quella cattolica ci dice, ad esempio, che il dovere fiscale non è assoluto ma relativo, relativo alla conformità a giustizia della norma fiscale sicché non è immorale evadere/eludere il fisco quando la pretesa fiscale, per diverse ragioni, è iniqua. Si danno anzi dei casi in cui l’evasione/elusione diviene moralmente buona, quasi doverosa in quanto occulta oppugnatio. Ciò quando le imposte sono moralmente cattive – perché, ad es., pretese per finanziare pratiche immorali o per ragioni e secondo criteri riconducibili a dottrine contrarie al diritto naturale e/o alla Verità cattolica – ed eluderle/evaderle è modo per opporsi al male operato dallo Stato senza incorrere in gravi rischi.

Vi è poi il caso della compensazione occulta che legittima l’evasione/elusione delle tasse/imposte nella misura in cui il prelievo fiscale è finalizzato dallo Stato a finanziare attività estranee alle competenze sue proprie e di cui il cittadino o la famiglia non si avvalgono destinando, invece, parte dei propri beni al pagamento di servizio equivalente privatamente fornito. Qui sanità e scuola forniscono ottimo esempio.

La sapienza millenaria della morale cattolica rivela una umanità sconosciuta agli ordinamenti della modernità politica dove è negata, in radice, la possibilità stessa di vagliare razionalmente la norma positiva semplicemente perché in essi non vi è nulla che la ragione possa vagliare essendo la norma un puro atto di volontà sovrana.

Torniamo per un’ultima volta al riconosciuto fondamento della pretesa fiscale dello Stato nel bene comune. Se il bene comune non è il bene dello Stato e neppure il bene collettivo, ma il bene di ogni uomo in quanto uomo, mai una norma positiva, che voglia servire il bene comune, potrà comandare un atto contrario alla giustizia commutativa o pretendere da alcuno un atto gravemente contrario al proprio bene legittimo.

Ora è di stretta giustizia che chi ha lavorato riceva la giusta retribuzione, che chi ha venduto riceva il prezzo della merce contrattualmente pattuito, che chi ha imprestato riabbia quanto è suo. L’imprenditore che si trovasse nella necessità di decidere se pagare gli stipendi ai propri dipendenti, ma anche estinguere un debito o pagare un fornitore, o versare le imposte, non sarebbe forse tenuto, per giustizia, ad adempiere ai propri doveri verso lavoratori, creditori e fornitori anche a costo di evadere le imposte? E una legislazione veramente ordinata al bene comune come potrebbe imporre ad un cittadino di compiere, sotto pena di sanzione, una grave ingiustizia quale è il non pagare la giusta mercede all’operaio, comprare senza pagare il pattuito, non restituire quanto ricevuto in prestito?

E’ evidente che, se il fondamento legittimante la pretesa fiscale è il bene comune, la pretesa fiscale non potrà mai essere assoluta ma sempre relativa ad una giustizia che le è superiore. La moderna concezione fa invece della norma positiva un assoluto e tende a confondere l’interesse dello Stato con il fine della legge fiscale quando, invece, tale fine dovrebbe essere riconosciuto nel bene comune inteso come bene dell’uomo in quanto uomo.

La proprietà privata, a tutela della quale si dice sia stata elaborata buona parte della dottrina liberale, è proprio nelle odierne liberal-democrazie che viene negata tanto radicalmente quanto nei regimi socialisti. Certo la radicalità nei principi dei sistemi democratici non ha trovato ancora completa traduzione nei fatti dando così l’illusione d’una sostanziale difesa della proprietà privata. Illusione che sta via via scemando con il progressivo dilatarsi della spesa pubblica e delle conseguenti pretese fiscali in tutti gli Stati della liberal-democrazia occidentale.

La violenza statale contro il diritto naturale alla proprietà privata è minore nelle liberal-democrazie rispetto ai regimi del socialismo reale unicamente de facto ma non di principio. Nelle virtualità della concezione (ideologica) dello Stato secondo il paradigma della sovranità, la proprietà privata non ha alcuna tutela che non sia la volontà positiva del Sovrano non essendovi limite alcuno a tale volontà.

La negazione della proprietà privata come diritto naturale è comune tanto ai regimi socialisti quanto alle liberal-democrazie, nei primi è semplicemente negata, nei secondi è svuotata salvandone il nome, ridotta a diritto civile in quanto riconosciuto tale dallo Stato e nella misura in cui è riconosciuto tale dallo Stato, mero diritto positivo. Potenzialmente, quindi, dallo Stato revocabile e, in ogni caso, totalmente dipendente dalla volontà arbitraria del Sovrano.

In altri termini, la concezione fiscale delle moderne liberal-democrazie rivela anch’essa, come la totalità dell’ordinamento, l’idea di diritto da esse assunta. Lo Stato non è soggetto a diritto ma è creatore del diritto, anche del diritto di proprietà che, quindi, resta sempre come una concessione dello Stato. Si comprende allora perché ogni qualvolta un cittadino si rende colpevole della sottrazione allo Stato di quanto da esso preteso per via fiscale, con ciò si compirebbe l’unico vero furto perché commesso a danno dell’unico vero proprietario in senso originario.

Una simile concezione è solidale, anzi è parte della più generale concezione moderna dello Stato dove la sovranità si pone come origine del diritto, di ogni diritto e con ciò assorbe la stessa libertà del cittadino che sarà, pertanto, libero della libertà che lo Stato gli concede. Poco importa che la sovranità  dello Stato sia sovranità popolare perché, anche in questo caso, il singolo cittadino sarà vincolato ad una volontà (del popolo sovrano)  che non ha altra condizione, limite o criterio per darsi imperativamente che quella d’essere posta.

Stando al nostro tema, la pretesa di risolvere l’irrazionalità del giuspositivismo moderno con il ricorso alla sovranità democraticamente declinata (sovranità popolare), si rivela immediatamente insostenibile. Infatti se l’autorità politica, come abbiamo visto, ha diritti indiretti e mediati sui beni privati in ragione del bene comune e ogni singolo proprietario è l’unico ad avere diritti diretti e immediati sui propri beni, il popolo non ne ha né diretti e immediati né indiretti e mediati sicché la volontà popolare non può disporre in alcun modo dei beni privati, neppure in forma di donazione (come invece può ogni singolo proprietario relativamente ai propri beni).

Si dirà che le imposte/ tasse non sono un’invenzione moderna, ma appartengono alla storia delle comunità politiche sin dalla più remota antichità. Ciò è ben vero, infatti ciò che fa problema, a chi non intenda abdicare alla propria razionalità politica, non è il diritto dell’autorità temporale a imporre una contribuzione fiscale, bensì l’arbitrarietà e la non giustificazione di tale pretesa nel quadro del giuspositivismo conseguente al principio di sovranità.

Infatti, se si concepisce il diritto alla pretesa fiscale da parte dell’autorità temporale come un diritto indiretto e mediato sui beni privati giustificato dal bene comune, la fiscalità non potrà essere arbitraria e il dovere fiscale dei cittadini sarà sempre relativo alla conformità a giustizia della norma fiscale positiva. E se si riconosce la proprietà privata come un diritto naturale che l’ordinamento giuridico positivo può solo riconoscere e non invece come una concessione creata dalla norma civile, la pretesa fiscale dovrà necessariamente essere considerata come un diritto indiretto e mediato dell’autorità sui beni privati.  Cosa giustificherà un tale diritto? A giustificare la pretesa fiscale sarà il dovere dei membri della comunità politica di contribuire al bene comune, ovvero al proprio stesso bene di uomini per natura esseri politici.

Se l’uomo necessita della comunità politica per realizzare pienamente la propria umanità e il bene comune è proprio la realizzazione di questa umanità, la comunità politica sarà benefica e necessaria per tutti i propri membri e, dunque, si darà un dovere dei membri alla cooperazione come dovere naturale verso la propria stessa umanità.

Ogni cittadino, avendo il dovere morale di realizzare la propria umanità, dovrà essere parte attiva della comunità politica. In questo essere parte attiva della comunità politica rientra la cooperazione con l’autorità temporale anche attraverso l’adempimento dei doveri fiscali. In questa prospettiva, che potremmo definire classico-cristiana [8] o più semplicemente razionale (a differenza di quella moderna volontaristica) il dovere fiscale è sempre relativo, relativo al bene comune.

Solo e soltanto nella misura in cui la richiesta fiscale è ordinata al reperimento di risorse necessarie per la realizzazione dei fini naturali della comunità politica, ovvero per attuare ciò che è necessario al vivere pienamente umano degli uomini e non può essere autonomamente realizzato da individui, famiglie e corpi intermedi, solo allora la pretesa fiscale potrà dirsi giusta e si darà un dovere fiscale in capo ai cittadini [9].

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[1] P. IGNAZI, Evasori fiscali più odiati dei politici, in l’Espresso, 11 luglio 2013, p. 13.

[2] TOMMASO D’AQUINO, In I Ethic. (Lez. 1-6).

[3] Cfr. G. TURCO, Della politica come scienza etica, ESI, Napoli 2012, pp. 79-107, dove il prof. Turco, considerando il pensiero di padre Matteo Liberatore, rileva tutta la violenza antigiuridica della concezione moderna dello Stato (principio di sovranità).

[4] In verità non si dà, neppure, perfetta coincidenza tra quanti hanno diritto attivo di voto e quanti sono soggetti a oneri fiscali. Ragion per cui non si può neppure dire che le tasse/imposte sono volute dal corpo sociale i cui membri poi le pagheranno. Ad es. i minorenni o quanti hanno perso i diritti politici non fanno parte del corpo elettorale e pure sono soggetti a tasse e imposte.

[5] In verità non è un limite alla pretesa dello Stato ma unicamente una modalità nel darsi di quella pretesa dello Stato in quanto la volontà popolare/parlamentare non è altro dalla volontà dello Stato liberal-democratico. Tanto meno è un criterio.

[6] In merito al principio di sovranità, contrapposto all’idea di politica come regalità cfr.: D. CASTELLANO, La verità della politica, ESI, Napoli 2002, pp. 50-67; “La sovranità, perciò, nulla ha a che vedere con l’autorità; essa si caratterizza piuttosto come mero potere, un potere al servizio di quell’autonomia della volontà che rifiuta la mediazione razionale classicamente intesa […] la sovranità nasce dal rifiuto della razionalità e si afferma come surrogato dell’autorità” (Ivi, p. 182).

[7] D. CASTELLANO, Costituzione e costituzionalismo, ESI, Napoli 2013, p. 105.

[8] Riferimenti sicuri per la considerazione classico-cristiana della questione fiscale sono ad es.: M. LIBERATORE, Istituzioni di etica e diritto naturale, Torino 1865, pp. 275 e ssg; 335 e ssg; T. Meyer,Institutiones iuris naturali, Friburgi Brisgoviae, MCMVI, pp. 313 e sgg.

[9] Confidiamo, con questo nostro contributo, di aver precisato quei punti lasciati in ombra nel nostro precedente articolo sul tema (S. CECOTTI, Il dovere fiscale secondo la Dottrina cattolica, in Instaurare, XLI, n. 1, gennaio-giugno 2012, pp. 3-6) rispondendo così anche alle molte sollecitazioni pervenuteci  oralmente e non: cfr. ad es.: G. FRANCHI, I limiti del dovere fiscale nella teologia morale e nell’etica sociale cattolica, in AA. VV., Dona virtù e premio, a cura di A. Di Giandomenico, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2013, p. 137, nota 32.