di Franco Cardini
Credeva in Dio, Adolf Hitler? E se sì, in quale? Intendiamoci, il giudizio sia etico sia storico sul Führer non muta, qualunque sia la risposta che noi possiamo fornire a una domanda del genere. E tuttavia sull’uomo Hitler gravano ancora tante incognite al punto che, forse, tale domanda non è inutile anche per chiarire qualcuno degli equivoci che sul nazionalsocialismo si sono andati col tempo addensando.
Nel Mein Kampf, Hitler rievoca con parole commosse la sua infanzia, le sue visite all’abbazia di Lambach, il «signor abate».
Educato nella fede cattolica (al pari del resto di molti capi nazisti, come Joseph Goebbels), Hitler era d’altronde consapevole di governare un paese a confessione mista, dove per giunta sia la Chiesa cattolica sia quella evangelico-luterana erano molto forti. Non aveva quindi nessuna voglia di scatenare un Kulturkampf religioso, e d’altro canto non perdeva occasione per ribadire che, in materia di fede, egli era favorevole alla più ampia tolleranza religiosa e che negli stessi ebrei non era certo la religione che egli intendeva combattere.
Concezione liberale, questa sua, del resto più apparente e ostentata che reale: giacché in effetti lo stato nazionalsocialista mirava a uno stretto controllo anche sulle Chiese e sui gruppi religiosi. E, quanto agli ebrei, l’indifferenza rispetto al loro credo non partiva affatto da un qualche riconoscimento del Dio biblico, ma dal semplice fatto che il nazismo non perdonava agli ebrei di essere «razzialmente» tali, e riteneva che anche un ebreo convertito restava comunque un ebreo, quindi un soggetto di discriminazione.
La fede della sua infanzia
Nei confronti del cattolicesimo, Hitler nutriva del resto una sorta di odio-amore. Forse una certa vaga nostalgia, in quanto si era trattato della fede della sua infanzia; ma soprattutto un forte fascino (che avrebbe a più riprese confessato) per le cerimonie liturgiche e una grande ammirazione per la disciplina, la saggezza politica, lo spirito gerarchico che s‘irradiavano dal soglio pontificio.
Ma da ciò alla simpatia, la distanza è immensa. Al contrario, Hitler avvertiva bene che quegli stessi caratteri oggetto della sua ammirazione erano anche altrettanti ostacoli sulla via del rapporto fra Chiesa romana e stato nazionalsocialista.
E quando sentiva di potersi esprimere con libertà (come nelle sue cosiddette «conversazioni a tavola» raccolte in testo stenografato nel ‘41-’42) non esitava ad abbandonarsi a pesanti considerazioni, a viete battute ironiche (non bonarie però, ma al contrario gonfie di livore) contro la Chiesa cattolica rea di coltivare nei tedeschi uno spirito undeutsch (non-tedesco), di ostentare la propria eredità spirituale «semitica» che la accostava agli ebrei e soprattutto di costituire per sua stessa natura una realtà sovranazionale estremamente pericolosa per la concezione totalitaria dello stato nazionalsocialista.
Hitler, fuori delle occasioni ufficiali, non perdeva occasione, ad esempio, di prendersi gioco dello spirito religioso che sembrava animare la Spagna uscita dalla guerra civile e detestava cordialmente il generale Franco.
Al contrario (e non solo perché luterana era gran parte del popolo tedesco) egli mostrava maggior rispetto e comprensione per il protestantesimo, ne sottolineava volentieri i caratteri «nazionali» germanici, osservava con soddisfazione come le Chiese protestanti si mostrassero più malleabili di quella cattolica nei confronti dello stato totalitario e considerava (come già avevano fatto Richard Wagner e prima di lui Thomas Carlyle) Martin Lutero come uno dei più grandi figli della patria tedesca.
Sul piano delle formulazioni politiche, quindi, Hitler si rifugiava in apparenza dietro una concezione «laica» (del resto condivisa da molti governi europei seguiti alla rivoluzione francese) dei rapporti fra le Chiese e lo stato. Da una parte, riteneva giusto accordare una libertà di culto limitata soltanto dal rispetto della legge, dall’altra esigeva che le autorità ecclesiastiche si astenessero dall’influire in un qualunque modo sulla politica e ribadiva con fermezza che la fede religiosa doveva restare un problema di coscienza personale.
Posizione coerente e moderata soltanto in teoria: ché, per essere tradotta in pratica, avrebbe preteso da parte delle Chiese il più acquiescente silenzio nei confronti delle scelte radicalmente anticristiane del nazionalsocialismo (prima fra tutte la legislazione razzistica) e da parte dei sudditi cristiani del Terzo Reich l’obbedienza a norme che ferivano le loro coscienze in cambio della libertà di culto esteriore.
O si è cristiani oppure si è tedeschi
Hitler sapeva bene che tutto ciò era impensabile. A Hermann Rauschning, con il quale ebbe scambi di vedute di notevole franchezza, egli dichiarava senza ambiguità che non poteva esservi coesistenza tra «una fede cristiano-giudaica con tutta la sua morale della compassione» e «una fede energica ed eroica in Dio e nella Natura, nel Dio che esiste nel suo popolo, nella sua sorte, nel suo sangue stesso». Per cui, «una Chiesa tedesca o un cristianesimo tedesco sono utopie. O si è cristiani, o si è tedeschi».
Queste dichiarazioni sono molto gravi, se le si considera soltanto a livello politico. Esse significano che, tra due posizioni entrambe totalizzanti come l’essere veramente cristiani e l’essere veramente tedeschi (il che per Hitler significava ovviamente essere nazisti), non poteva esservi un accordo se non apparente e condizionato al cedimento di uno dei due elementi all’altro.
Ma la gravità effettiva delle dichiarazioni di Hitler a Rauschning sta loro tessuto concettuale: molto al di là quindi della politica. La fede cristiana era «semitica», la sua morale della compassione spregevole. Siamo ben oltre Wagner, il quale alla «compassione» non avrebbe mai rinunziato; e siamo in un ambito molto diverso anche da certe dottrine religioso-filosofiche che per la loro origine «ariana» riscuotevano pur da parte di Hitler una vaga simpatia, come il buddhismo, che sarebbe inimmaginabile senza la morale della compassione. Potrebbe sembrare che la polemica anticristiana di Hitler si ispirasse a Nietzsche, ed è senza dubbio così: ma si trattava di un Nietzsche letto frettolosamente e orecchiato.
Ed ecco quindi che, dalle conversazioni con Rauschning e dai «discorsi a tavola», emerge pian piano il Dio di Hitler. Non era un Dio granché originale: ma certo non aveva nulla a che fare con il Creatore trascendente che al Führer capitava talora d’invocare.
Quello di Hitler era anzitutto un Dio vagamente hegeliano, Weltgeist, «spirito del mondo». Era un Dio che si manifestava nella «natura», nella «sorte», nel «sangue» del popolo. Da una parte esso ricordava certe concezioni settecentesche di marca teistica come l’Ente Supremo di Robespierre (per quanto Hitler detestasse la Rivoluzione francese); ma, per un altro verso, questo «Dio» era una forza immanente e panteistica, fusa con la natura e con le sue leggi. E, per Hitler, le «leggi» fondamentali della natura erano la lotta per la sopravvivenza, la selezione delle specie più forti, l’organizzazione razziale del «genere umano».
Questa fede cieca nella natura e nelle sue leggi razzisticamente interpretate anima le convinzioni più ferme di Hitler, ispirate a un darwinismo abbastanza rozzo ma che aveva il pregio di apparire convincente e di collegarsi a quella continua esaltazione della scienza che, nel nazismo, convive con il mitologismo nordico e con gli impulsi atavici.
La propaganda anticlericale
l movimento nazionalsocialista rifletteva le posizioni del suo capo: ma proiettandole all’esterno sapeva presentarle con molta abilità, in modo che il braccio di ferro tra stato e Chiese apparisse sempre come una contingenza politica. Se si ha la pazienza di leggere certi opuscoli di propaganda diffusi nel e dal partito e diretti in special modo ai giovani, si troveranno toni anticristiani e anticlericali estremamente grossolani, misti ad attacchi alla fede, ai misteri, ai sacramenti, ai miracoli, d’uno sconcertante (e spesso ingenuo) materialismo. Ma questa propaganda non figurava mai come veramente appoggiata dai vertici dello stato e del partito: e, all’interno della stessa Hitlerjugend e perfino delle S.A., le disposizioni antireligiose venivano affidate a circolari riservatissime.
Quanto al suo programma ufficiale, i famosi «25 punti» della N.S.D.A.P., il partito nazionalsocialista dichiarava che base per l’appartenere alla comunità popolare germanica, per l’essere cioè Volksgenosse, era il «sangue tedesco», non la confessione religiosa. Da parte loro, tutte le confessioni religiose avrebbero dovuto essere libere, a meno che non mettessero in pericolo l’esistenza dello stato o non urtassero «i sentimenti di moralità della razza germanica»: il che era una formulazione abbastanza ambigua, che lasciava aperto il discorso sui «caratteri semitici» del cristianesimo ma non osava apertamente denunziarli per tema di perdere adesioni e simpatie.
Da parte sua, il partito sosteneva di aderire all’«orientamento di un cristianesimo positivo, senza vincolo con alcuna determinata confessione». Tale spirito combatteva quello «giudeo-materialistico».
Insomma, formulazioni molto più abili ma anche molto più ambigue di quanto non possa oggi sembrare. L’espressione «cristianesimo positivo» in sé e per sé non significava niente, ma faceva pensare a un atteggiamento di sostanziale adesione allo spirito cristiano quale si era presentato nella storia e la morale del quale era divenuta da secoli la morale corrente, al di là dei dogmi e delle confessioni.
Che un partito laico in un paese a confessione religiosa mista si dichiarasse al di sopra delle confessioni storiche, sembrava logico. Che poi combattesse il «giudeo-materialismo» passava come dichiarazione rassicurante nei confronti dei cristiani: non erano le radici ebraiche del cristianesimo a venir contestate, bensì quelli che nell’ideologia nazionalsocialista erano gli esiti estremi dell’ebraismo, vale a dire l’usura, il capitalismo internazionale, il comunismo.
Nella pratica della vita tedesca nel Terzo Reich, l’ambiguità continuava. Il partito e le S.A. usavano volentieri figure e simboli cristiani nella loro propaganda, e davanti alla grande croce nella cripta della Feldherrenhalle di Monaco, consacrata alla memoria dei caduti del Putsch del ‘23, il Führer usava sostare ogni anno in raccoglimento, durante una cerimonia notturna rischiarata dal bagliore delle fiaccole.
La stessa liturgia politica del partito, da un lato ispirata (come ben ha dimostrato George Mosse) alle cerimonie giacobine e alle celebrazioni delle leghe patriottiche della Germania dell’Ottocento, molto doveva anche a un cristianesimo magari riletto attraverso il misticismo wagneriano. Ma ciò non impediva né la propaganda antireligiosa, né le sia pur occasionali violenze nei confronti di comunità di fedeli, né le persecuzioni contro quella parte del clero cattolico o evangelico che si dimostrasse meno incline al compromesso.
Con la Chiesa cattolica, i rapporti non furono mai facili. Papa Pio XI non si era mai illuso sulla natura del nazionalsocialismo, ma intendeva comunque evitare sofferenze e persecuzioni ai cattolici tedeschi: né poteva d’altronde ignorare che molti di loro avevano salutato con sollievo l’avvento al potere di Hitler e militavano anche numerosi nel partito. Si giunse così, il 20 luglio 1933, a un concordato che garantiva i diritti della Chiesa, ma che legittimava il governo hitleriano agli occhi dei cattolici di tutto il mondo e che aveva come risultato il disconoscimento, da parte delle autorità ecclesiastiche, sia dei sindacati cattolici tedeschi sia del Zentrum, il partito cattolico.
In altre parole, il concordato con la Chiesa eliminava il «cattolicesimo politico». Grazie alla mediazione di figure politiche di grande autorevolezza e di sicura fede cattolica, ma anche vicine a Hitler, come Franz von Papen, i vescovi mitigarono di molto il loro primitivo atteggiamento nei confronti del nazionalsocialismo, e le accuse di “ateismo” o di “neopaganesimo” divennero (per il convergere dell’accordo col Vaticano e della repressione) molto meno dure e meno frequenti.
Restavano all’interno della gerarchia ecclesiastica degli avversari irriducibili del regime, come l’arcivescovo di Monaco cardinal Faulhaber: ma c’erano anche molti ammiratori di Hitler, convinti che il nazionalsocialismo avesse salvato la Germania dal pericolo dell’ateismo bolscevico e che il carattere “spiritualistico” del movimento basato sulle parole d’ordine della famiglia, dell’onore e del lavoro avrebbe favorito una convivenza eticamente e civicamente possibile, anzi proficua, fra cattolici e nazisti.
Nei confronti della Chiesa evangelica, le cose stavano diversamente. Essa non disponeva della copertura sovranazionale che a quella cattolica veniva obiettivamente offerta dal Vaticano, ed era quindi più esposta a pressioni e ricatti; inoltre, all’atto della presa di potere da parte di Hitler si trovava in uno stato di grave disgregazione interna; infine l’avversione di Lutero per gli ebrei, per quanto motivata in modo diverso rispetto a quella dei nazisti, poteva condurre a livello propagandistico a una certa strumentale convergenza.
Se la Chiesa cattolica disponeva di un contenuto dogmatico e di un apparato gerarchico che la proteggevano dalle «crisi di identità», lo stesso non si poteva dire delle varie comunità ecclesiali protestanti, che si trovarono spesso lacerate proprio sul tema dell’atteggiamento da prendere dinanzi al nazionalsocialismo. Si andava difatti da atteggiamenti filonazisti o nazisti tout court a posizioni nemiche del nuovo ordine.
Hitler seguiva con interesse, ma anche con impazienza e con un certo malcelato disprezzo, la crisi del mondo protestante tedesco. Accolse tuttavia con favore, ma senza eccessivi entusiasmi né particolari manifestazioni di simpatia, la decisione di alcuni ambienti moderati sia luterani sia calvinisti di convergere, nel ‘33, in una Chiesa evangelica di stato, la Reichskirche, che sarebbe stata guidata da un Reichsbischof (vescovo di stato) gradito al governo, avrebbe avuto un motto simile a quello dello stato nazista (Ein Reich-Ein Volk-Eine Kirche) e il cui clero (dal quale sarebbero stati tenuti lontani gli appartenenti a razze diverse da quella ariana) avrebbe giurato fedeltà allo stato con una formula analoga a quella usata per i pubblici funzionari e gli ufficiali dell’esercito, che includeva una promessa formale di fedeltà personale al Führer.
Se la Reichskirche poteva essere gradita ad Hitler nella misura in cui si proponeva come organo dello stato, egli dedicò invece scarsa e annoiata attenzione a quei «cristiani» i quali intendevano coniugare la loro fede nazionale germanica con una peraltro ambigua e tiepida professione di cristianesimo. Erano, questi, i Deutsche Christen, i quali intendevano uscire da tutte le confessioni (la cattolica come la luterana e la calvinista) e fondare una Chiesa cristiano-tedesca nella quale l’antisemitismo sarebbe stato accolto senza riserve.
Dalla loro professione di fede, formulata nel ‘33, l’Antico Testamento era del tutto espunto; i cristiano-tedeschi sostenevano che Dio aveva parlato un linguaggio specifico per ogni popolo, e che per quello tedesco esso aveva assunto l’aspetto di Hitler e della sua dottrina.
La nuova legge divina «sgorgata dal sangue e dal suolo» parlava non il linguaggio trascendente della Rivelazione, bensì quello immanente della storia. Nella mistica cristiano-tedesca, entravano a pari titolo la mitologia pseudoscientifica d’un Cristo «ariano», la mistica di Hitler concepito come «il nostro dolce Cristo tedesco» e infine la prospettiva di un’ascesi guerriera nell’ambito della quale il cristiano-tedesco vedeva se stesso come «S.A. del Cristo».
Tutto ciò conveniva al Führer, che difatti si affrettò a sbarazzare i cristiano-tedeschi del loro avversario più rigoroso, il pastore Martin Niemöller che dinanzi alle degenerazioni politiche del cristianesimo aveva fondato una «lega d’emergenza» tra i ministri evangelici del culto. Niemöller era una singolare figura di religioso: era un convertito, un uomo di straordinario coraggio che durante la guerra mondiale era stato comandante di sommergibili.
Nei primi tempi, non aveva esitato a salutare anche lui in Hitler il salvatore della Germania, e anche durante il processo che lo vide imputato non esitò (e non certo per opportunismo) a ribadire la sua personale fedeltà al Führer. A sua volta, Hitler doveva nutrire personalmente della simpatia per il suo coraggio e la sua schiettezza: difatti nel ‘37 fu forse per sottrarlo a una sorte peggiore che lo spedì a Dachau e più tardi come prigioniero politico a Sachsenhausen.
Nel ‘39 il Niemöller si offrì ancora come volontario di guerra: soltanto verso la fine degli anni quaranta, ormai vecchio, si sarebbe convertito al pacifismo integrale.
Braccio di ferro tra Roma e Berlino
Man mano che lo stato nazionalsocialista si consolidava, il carattere (già chiaramente individuato da Hitler) del suo fondamentale anticristianesimo si faceva più chiaro. Si angariavano in ogni modo le iniziative a carattere culturale, assistenziale, ricreativo patrocinate dalle Chiese, e ciò anche in aperto spregio del concordato del 1933.
Fu nel ‘37 che il Kirchenkampf (la lotta delle Chiese, che Hitler avrebbe forse preferito evitare) giunse al suo acme, con la chiusura delle facoltà di teologia; l’istruzione religiosa era ostacolata soprattutto nei confronti dei giovani, dove la Hitlerjugend mirava al monopolio organizzativo, e anche nei confronti dei cappellani militari si creavano delle difficoltà.
Papa Pio XI fu indotto da tutto ciò a pubblicare il 4 marzo 1937 l’enciclica Mit brennender Sorge (Con viva ansia), che condusse i rapporti fra Chiesa cattolica e stato nazionalsocialista sull’orlo della rottura insanabile.
Se d’altronde Hitler disprezzava i cristiano-tedeschi considerandoli, a ragione, dei tiepidi e pavidi cristiani e al tempo stesso dei mediocri nazisti, non è molto vero (al contrario di quanto sovente si ripete) che egli nutrisse simpatia per i circoli neopagani che si andavano organizzando in Germania.
Forse, il Führer accordava una qualche considerazione soltanto alla cosiddetta Deutsche Glaubensbewegung (Movimento tedesco per la fede), fondato nel 1933 da una costellazione di vari gruppuscoli di «senza Chiesa», che non si riconoscevano in alcuna religione rivelata ma intendevano fondare una «fede tedesca» che traesse la sua forza dalla storia e dalle tradizioni delle comunità germaniche. Si trattava di una specie di mistica del folklore tedesco, che si proponeva un’intensa vita comunitaria con la rivalutazione delle feste e delle consuetudini germaniche.
Animatore del movimento per la «fede tedesca» era Jacob Wilhelm Hauer ma si sapeva che esso poteva contare sulle simpatie del vecchio «neopagano» maresciallo Ludendorff (morto però nel 1937), nonché di importanti leaders nazionalsocialisti quali Alfred Rosenberg, Rudolf Hess, Walter Darré, Heinrich Himmler.
Il movimento per la «fede tedesca» scelse a suo simbolo una ruota solare dorata su fondo azzurro e si dette una complessa organizzazione paraliturgica ispirata in parte alle cerimonie cattoliche, in parte a suggestioni giacobine (il «calendario agricolo» proposto dal movimento al Führer assomigliava molto a quello della Rivoluzione francese).
I tre colori «ariani» (il bianco, l’oro, l’azzurro) furono i colori liturgici dei paramenti di questa «Chiesa tedesca» che conosceva cerimonie lustrali simili al battesimo e consacrazioni paraecclesiastiche come quelle nuziali, celebrate dinanzi a un altare sul quale erano una spada e una copia del Mein Kampf. Ma, nonostante gli sforzi per riallacciare questa specie di panteismo nordico alle tradizioni arcaiche «germaniche», il movimento per la «fede tedesca» non seppe mai elevarsi al di sopra di una misera parodia dei riti cattolici o massonici, perché questi (lo confessassero o meno Hauer e Rosenberg) erano i loro modelli culturali effettivi.
Hitler ebbe (a differenza del troppo sentimentale Rosenberg o di Himmler, che era ammalato di esoterismo e di cerimonialismo) l’intelligenzà di non compromettere troppo né se stesso né il movimento nazionalsocialista con questi movimenti pseudoreligiosi che fumosamente dichiaravano di «aderire all’antichissimo pensiero pagano del Tutto» e alla «morale dell’Uomo nordico» ma che in realtà non andavano oltre l’estetica wagneriana e la Deutsche Mythologie del Grimm. E ciò anche se taluni esponenti della «fede tedesca» (come Hauer, che era stato missionario protestante in India e dall’induismo aveva desunto l’idea della «ruota solare» come distintivo del suo movimento) erano senza dubbio personaggi interessanti.
I neopagani del Terzo Reich
Nei casi più notevoli, la «fede tedesca» (anche in ciò seguendo, del resto, il modello wagneriano) non approdava quindi tanto a fantasie nibelungiche quanto a una specie di «spiritualismo ariano» che guardava soprattutto agli esempi induistico-brahmanistici.
Il panteismo cosmico, l’identificazione di Dio con la natura, la morale dell’ascesi eroica e dello stesso messaggio buddhistico primitivo, erano elementi di base di un culto che intendeva proclamare l’estraneità della stirpe germanica dal messaggio «semitico» cristiano: anche se poi, all’interno di questa morale eroica, si tendeva a recuperare lo stesso Cristo, ma un Cristo riletto più attraverso i testi gnostici e le opere dei mistici tedeschi medievali (soprattutto Eckhart) che non attraverso il messaggio evangelico.
Senza dubbio, Hitler non era estraneo a questo tipo di cultura. Nei suoi giovanili anni viennesi era stato toccato dal magistero delle molte piccole sette occultistiche che popolavano il sottobosco culturale della capitale dell’impero asburgico. Si era poi interessato alle teorie cosmogoniche di Hans Hörbiger, e aveva interesse per le teorie astrologiche.
Ma il misticismo nordico e antiromano del Mito del XX secolo di Rosenberg lo annoiava; e non perdeva occasione di esprimersi con rude sarcasmo sui «professori» che sognano le glorie archeologiche degli antichi ermani ma che poi servono la causa molto meno utilmente d’un bravo giovanotto delle S.A., un robusto Operaio che sappia menar le mani.
I neopagani del Terzo Reich servivano alle parate folkloristiche e costituivano materia di ricatto e di pressione nei confronti delle Chiese cristiane: il Führer non aveva però intenzione di conceder loro nessuno spazio reale.
La verità, sul carattere «religioso» del nazionalsocialismo, non sta nelle sue connessioni con ambienti o riti neopagani di sorta. Irriducibilmente ateo, nihilista e materialista nella sostanza, il movimento nazionalsocialista era «religioso» sia nell’apparato della liturgia politica di massa sia, soprattutto, nella totalizzante concezione del mondo. In quanto tale, esso era una fede: e non poteva tollerare, se non per motivi contingenti e con tutto il cinismo delle scelte di comodo, la coesistenza con altre fedi.
Il nazionalsocialismo ambiva a sostituire qualsiasi fede religiosa in quanto intendeva proporsi quale surrogato della religione. La sua Chiesa politica avrebbe col tempo, nelle intenzioni di Hitler, sostituito qualunque Chiesa. L’appello ancestrale alle tradizioni germaniche, il richiamo agli usi folklorici e alle glorie storiche del popolo tedesco, il ritualismo improntato ora al mondo wagneriano ora alla Chiesa cattolica, erano tutte vie per catturare misticamente l’anima del popolo tedesco e per fornire al materialismo razzista e al fanatismo antisemita la dignità di un apparato che poteva sembrare spirituale
Il «neopaganesimo» nazista viene quindi a rioccupare, alla luce della meditazione storica, il suo autentico ruolo di tessera nel sapiente mosaico dell’organizzazione hitleriana del consenso. È questa, in fondo (e non la debole sostanza culturale e la fragile consistenza sociale che ne furono i connotati di base) la ragione principale dell’interesse che il suo studio può rivestire.