Voci per un dizionario del pensiero forte
di Francesco Pappalardo
Il termine “brigante”, che comunemente designa chi vive fuori legge o comunque un nemico dell’ordine pubblico, ha acquistato nel tempo anche un significato ideologico e indica, in senso spregiativo, chi si è opposto con le armi al nuovo ordine inaugurato dalla Rivoluzione francese. Adoperato in Francia per designare i combattenti realisti e cattolici della Vandea, è impiegato negli anni seguenti anche in Italia per indicare gli “insorgenti”, cioè i componenti delle bande popolari che si sollevavano in armi contro gli invasori francesi e i giacobini locali, loro alleati.
Il fenomeno assume rilievo particolare nelle province napoletane, dove, sia nel 1799 sia nel 1806, le bande – guidate da popolani, da borghesi e anche da sacerdoti, e che raccolgono impiegati, soldati sbandati, contadini e pastori – difendono la loro patria e la loro religione. Tale comportamento valoroso, però, è definito sbrigativamente “brigantaggio” dai rivoluzionari e il temine è tramandato tuttora da una storiografia mendace.
Gli oppositori dell’Unità nel Regno delle Due Sicilie
Anche l’unificazione forzata della penisola italiana, nel decennio dal 1859 al 1870, suscita ovunque resistenze e reazioni, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, dove la lotta armata contro l’invasore assume proporzioni straordinarie. Pure in questo caso gli insorti, che combattevano contro l’imposizione di una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose, sono stati bollati come briganti. La resistenza nel Mezzogiorno ha inizio nell’agosto del 1860, subito dopo lo sbarco sul continente delle unità garibaldine provenienti dalla Sicilia.
La popolazione rurale, chiamata alle armi dal suono di rustici corni o dalle campane a stormo, rovescia i comitati insurrezionali, innalza la bandiera con i gigli e restaura i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni sommarie e con arresti in massa, fa affluire nelle bande, che i nativi denominano masse, migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutano di militare sotto un’altra bandiera, pastori, braccianti e montanari. Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il regno e il controllo del territorio da parte degli unitari diventa precario.
In agosto è inviato a Napoli, con poteri eccezionali, il generale del Regio Esercito del neo proclamato Regno d’Italia Enrico Cialdini (1811-1892), che costituisce un fronte unito contro la “reazione”, arruolando i militi del disciolto esercito garibaldino e perseguitando il clero e i nobili lealisti, i quali sono costretti a emigrare, lasciando la resistenza priva di una valida guida politica.
Il governo adotta la linea dura e il generale Cialdini ordina eccidi e rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, decretando il saccheggio e la distruzione dei centri ribelli. In questo modo viene impedita l’insurrezione generale, e viene scritta una pagina tragica e fosca nella storia dello Stato unitario.
3. Dalla repressione all’emigrazione
Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire “nel mucchio”, per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila. Viene introdotto per la prima volta nel diritto pubblico italiano l’istituto del domicilio coatto, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà.
La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea un'”industria” della delazione, che è un’ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali. Attenzione particolare è dedicata alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e soprattutto servizi giornalistici e fotografici, che costituiscono i primi esempi di una moderna “informazione deformante”. In questo modo viene distrutto il cosiddetto “manutengolismo”, cioè quel vasto movimento di sostegno e di fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresenta un fenomeno così ampio e articolato socialmente da non poter essere stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale.
Infine, la proclamazione dello stato d’assedio, le uccisioni indiscriminate, il terrore, il tradimento prezzolato stroncano la volontà di resistenza della popolazione. Quando le bellicose energie sono esaurite, l’estraneità al nuovo ordine si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione “napoletana”, che coinvolge alcuni milioni di persone.
4. Oltre la censura storiografica: le ragioni ideali e politiche
Questo periodo doloroso della storia della nazione italiana è censurato e deformato da oltre un secolo. La storiografia di ispirazione liberale, da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) a Giustino Fortunato (1777-1862) e a Benedetto Croce (1866-1952), interpreta la resistenza popolare come manifestazione di criminalità comune e come esito della sobillazione “reazionaria”, abile a sfruttare mali endemici e secolari del Mezzogiorno.
Su un altro versante, ugualmente deformante, si pongono quanti partono dalle considerazioni di Antonio Gramsci (1891-1937) sulla “questione meridionale” per proporre una lettura del Brigantaggio come manifestazione della lotta di classe, identificando nella guerra per bande una forma di lotta armata condotta in prima persona dalle masse contadine contro le classi dominanti.
In realtà, un’interpretazione esauriente del complesso fenomeno del Brigantaggio deve partire dalla considerazione che l’opposizione armata fu soltanto uno degli aspetti della resistenza antiunitaria delle popolazioni meridionali, che presentò contorni più vasti e profondi di quelli che avevano caratterizzato le insorgenze dell’età napoleonica.
Infatti, negli anni successivi al 1860, la resistenza si presenta con forme molto articolate, di cui offrono testimonianza l’opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l’emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de’ Sivo (1814-1867), che difendono con gli scritti i calpestati diritti di una monarchia da sempre riconosciuta nel consesso delle nazioni e benedetta dalla suprema autorità spirituale.
La resistenza armata è però il fenomeno più evidente, che coinvolge non soltanto il mondo contadino, ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano. Nei primi anni il motivo legittimistico è dominante e le modalità della guerriglia, capace di unire aristocratici e popolo, sono tali da richiamare alla mente l’epopea vandeana.
Questa continuità contro-rivoluzionaria non è affatto simbolica, ove si consideri che, a capeggiare gli insorgenti, “il fior fiore della nobiltà lealistica europea discese dalle brume dei propri castelli nel fuoco di una lotta senza quartiere “per il trono e l’altare”, “per la fede e la gloria””, come era scritto su uno dei pannelli della mostra su Brigantaggio, lealismo e repressione, organizzata a Napoli nel 1984.
Il conte Henri de Cathelineau (1813-1891) – discendente di uno dei più valorosi condottieri della guerra di Vandea -, il barone prussiano Teodoro Klitsche de La Grange (1799-1868), il conte sassone Edwin di Kalckreuth, fucilato nel 1862, il marchese belga Alfred Trazégnies de Namour, fucilato nel 1861 all’età di trent’anni, il conte Émile-Théodule de Christen (1835-1870), i catalani José Borges (1813-1861), definito “l’anti-Garibaldi”, e Rafael Tristany (1814-1899), sono artefici di memorabili imprese e fanno a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della guerriglia.
5. Le ragioni socio-economiche e le motivazioni religiose
Con queste considerazioni non si intende sottovalutare il carattere anche sociale delle insurrezioni. L’eversione della feudalità e la privatizzazione dei beni della Chiesa durante l’età napoleonica, che avevano trasformato l’assetto della società e dato origine alla questione demaniale, hanno una parte rilevante nello stimolare la partecipazione dei contadini alla lotta armata, ma questo aspetto non basta da solo a spiegare l’intensità, l’estensione sociale, l’ampiezza territoriale e la durata del Brigantaggio.
L’attribuzione di un prevalente carattere sociale alla resistenza antiunitaria è causata sia da pregiudizi ideologici, che inducono gli storici a sottovalutare o a negare la componente politica del fenomeno, sia dalla diffusione e dalla persistenza del mito dell’oggettiva potenzialità rivoluzionaria delle sommosse contadine. Questa impostazione è caratterizzata da una generale incomprensione e negazione della cultura delle popolazioni italiane, e ciò vale in particolare per la componente religiosa, che ne rappresentava l’anima.
L’elemento religioso è generalmente presente nelle raffigurazioni d’epoca, così come sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi – benché spesso scacciati dalle loro sedi – sostengono efficacemente l’insurrezione, pubblicando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede. L’autorevole La Civiltà Cattolica esprime ripetutamente il suo appoggio a quello che era ritenuto uno spontaneo movimento di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato liberale.
Il Brigantaggio, dunque, è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto fra due mentalità, fra due differenti impostazioni culturali, ma soprattutto ha rappresentato l’espressione più macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, dunque, costituisce l’ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con la difesa di Roma a opera degli zuavi, per combattere la Rivoluzione con le armi.
Se la resistenza antiunitaria non riesce a ripetere il successo della Santa Fede nel 1799, ciò è dovuto non soltanto alla situazione internazionale sfavorevole e allo scontro con lo Stato unitario, di cui non si conoscevano i meccanismi e che può concentrare per alcuni anni imponenti forze nel Mezzogiorno, ma anche all’assenza di una classe dirigente valida e ben determinata, che sapesse animare e coordinare la reazione popolare, spontanea e generale, ma non autonoma.
Per approfondire: vedi una significativa testimonianza, in Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, del 1861, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994; lo studio più documentato sull’argomento, che risente però dell’impostazione marxista secondo cui il Brigantaggio è un episodio della lotta di classe, in Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1979; quindi Carlo Alianello (1901-1981), La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, Milano 1994; Aldo Albonico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Giuffrè, Milano 1979; Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, Gaetano Macchiaroli, Napoli 1984; e Francesco Mario Agnoli, La conquista del Sud e il generale spagnolo José Borges, Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1993; vedi una sintesi nel mio Il brigantaggio, in Cristianità, anno XXI, n. 223, novembre 1993, pp. 15-22