Corrispondenza romana n.914
del 24 settembre 2005
Il 16 settembre 2005, il Comitato Nazionale di Bioetica ha pubblicato un documento nel quale stabilisce l’identità biologica dell’ovotide con l’embrione e, conseguentemente, la loro paritaria tutela. L’ovocita appena fecondato, cioè, già a 16/30 ore dal concepimento, anche se in esso i patrimoni genetici dei genitori non sono ancora fusi, va considerato come “essere umano” e quindi tutelato per legge.
Le obiezioni in contrario avanzate durante la campagna referendaria sono da respingere. Il parere del Comitato, pur avendo notevole autorevolezza, non ha valore vincolante ma solo consultivo.
Il documento è stato approvato con 26 voti contro 12. I favorevoli erano capeggiati dal relatore, il noto biologo Adriano Bompiani, presidente emerito del Comitato, e dal genetista Bruno Dallapiccola. I contrari, capeggiati dal ginecologo Carlo Flamigni e dal bioeticista Demetrio Neri, pur ammettendo la correttezza della descrizione scientifica dell’ovotide, ne hanno contestato la valutazione filosofica e quindi etica, sostenendo ch’esso non è un essere umano e che quindi non va tutelato come tale.
Intervistato da “Avvenire” (22 settembre 2005), il prof. Francesco D’Agostino, presidente del Comitato, ha tenuto a precisare che, “se si aprisse una questione interpretativa della legge 40 – se cioè per embrione si debba intendere anche il prodotto del concepimento prima della fusione dei patrimoni genetici – il Comitato di Bioetica si è pronunciato in questa linea. ‘Ovotide’, insomma è un termine che ha un significato biologico, ma eticamente la distinzione tra questo e l’embrione non ha più senso di quanto ne avrebbe la distinzione tra un bambino e un adolescente”.
Nel Comitato “ha prevalso l’idea che già i primissimi processi biologici all’inizio della vita meritano assoluto rispetto: per alcuni, in base alla convinzione che già in quel momento sia presente il valore dell’essere umano; per altri, in conseguenza del principio prudenziale secondo cui, quando sussiste il dubbio che l’intervenire in un processo biologico metta in gioco l’identità della persona umana, sia più coerente astenersi da ogni intervento”.
Il Comitato di Bioetica ha anche stabilito che è eticamente ammissibile usare le cellule dei feti abortiti per fini scientifici (ricerca e cura). Nella stessa intervista, il presidente ha precisato le condizioni di questa liceità: “Ci siamo trovati a prendere atto che non esiste alcuna normativa sulla gestione del materiale fetale abortito.
Quindi, già oggi, di fatto tale materiale è utilizzabile senza alcun limite. Il nostro è stato un parere di liceità condizionata. Abbiamo detto: ci sono condizioni che devono essere rispettate, perché questa utilizzazione sia eticamente lecita, e abbiamo sollecitato il ministro della Salute a introdurre una normativa rigorosa attraverso linee-guida.
Come? Primo, vietando ogni commercializzazione del materiale fetale; poi, consentendone l’uso solo alla ricerca scientifica e non, per esempio, all’industria cosmetica; e ancora chiedendo l’autorizzazione della donna che ha abortito e separando radicalmente i ricercatori dall’équipe che procede all’intervento; infine affermando che non è lecito intervenire sulla donna prima dell’aborto, per evitare che il feto venga usato come cavia (…) L’uso di materiale fetale sarebbe in sostanza equiparato a quello del corpo di un defunto, sia pure con le cautele del caso”. (CR 914/01 del 24/09/05)