COMUNICATO UFFICIALE DI SCIENZA E VITA
Le recenti notizie riportate dagli organi di informazione inerenti la sperimentazione della pillola abortiva RU486 nel nostro paese e la ventilata possibilità che essa, su sollecitazione di un primario di un ospedale della regione Toscana, diventi pratica abortiva routinaria rendono necessario puntualizzare la questione dell’aborto chimico e più in generale dell’aborto nel suo complesso, considerando sia i risvolti medici, che quelli etici e giuridici.
La possibilità di effettuare l’aborto mediante la somministrazione dell’associazione mifepristone-misoprostol, più conosciuta come RU486, è stata da talune parti prospettata come un avanzamento della tecnica al servizio della salute della donna. Alcune fonti hanno persino introdotto il termine “aborto dolce”. D’altra parte, come afferma il medico tedesco, dottor Alblas, “il modo in cui i medici spiegano le differenti opzioni è in grado di influenzare in maniera talora decisiva la scelta della donna”. Edulcorare la procedura abortiva con RU486 collide con la verità accertata dalla letteratura medico-scientifica.
La pillola abortiva, scoperta all’inizio degli anni ’80, è stata per la prima volta commercializzata in Francia nel 1988. Benché il prodotto sia stato inserito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nella lista di “farmaci essenziali”, nel mondo occidentale le strutture sanitarie sono tali da rendere inutile l’uso della RU486 per la prevenzione delle complicanze infettive o emorragiche a seguito dell’aborto chirurgico (la mortalità dell’aborto chirurgico in anestesia locale è pari a 0,15 casi ogni 100.000 aborti). Non risultano quindi chiare le motivazioni mediche in base alle quali taluni personaggi spingono con pervicacia affinché sia consentita la pratica dell’aborto mediante RU486. Sotto nessun profilo è possibile dimostrare la superiorità della metodica chimica rispetto a quella chirurgica. In particolare:
1) In una percentuale di circa il 5% dei casi si rende necessario sottoporre ad aborto chirurgico le donne che avevano assunto la RU486. Addirittura in alcune casistiche tale percentuale sale all’8% dei soggetti. Nella popolazione femminile cubana il tasso di fallimenti è giunto sino al 16%.
2) Gli effetti collaterali che la donna deve patire dopo aver assunto la RU486 comprendono dolore o crampi (93,2% dei casi), nausea (66,6%), debolezza (54,7%), cefalea (46,2%), vertigini (44,2%), perdite di sangue più prolungate che richiedono una trasfusione nello 0,16% dei casi. Questo significa che se tutte le donne abortissero in Italia mediante la RU486, ogni anno 209 di loro dovrebbero subire una trasfusione. La scheda tecnica della RU486 riporta tra gli eventi avversi anche la sincope nell’1% dei casi. Anche le complicanze infettive non sembrano essere ridotte dall’aborto chimico.
3) Le donne stesse non mostrano di avere una netta preferenza per il metodo RU486 rispetto all’aborto chirurgico, anzi talora avviene il contrario ed addirittura la vista del feto morto si associa a un tasso maggiore di incubi, ricordi, e pensieri intrusivi legati all’esperienza vissuta.
4) Persino l’analisi dei costi non si rivela vantaggiosa per la RU486: negli Stati Uniti si paga 487 dollari per l’aborto medico contro i 468 di quello chirurgico. In Italia tale differenza sarebbe ancora maggiore, considerando che, in ossequio alla legge 194, la donna dovrebbe rimanere ricoverata dal momento dell’assunzione della prima compressa fino al termine dell’aborto.
Per quanto esposto, a quanti, senza alcun supporto scientifico, accusano coloro che sono contrari all’introduzione della RU486 di voler privare le donne di uno strumento utile per abortire con minore sofferenza e maggiore sicurezza, rispondiamo che tali affermazioni non possono che derivare da ignoranza scientifica, o da malafede ideologica, entrambe qualità che non servono la verità, né possono recare beneficio alle donne. Comunque si cerchi di ammantare di naturalezza un aborto, valgono le parole della dottoressa abortista francese Béatrice Fougeyrollas, secondo cui “l’aborto è un atto di insubordinazione all’ordine naturale”.
La legge 194 ha “prodotto” in quasi 30 anni di applicazione oltre 4 milioni di aborti; una popolazione superiore a quella dell’intera nostra regione sparita nel nulla.
Dall’ irrilevanza sotto il profilo penale degli aborti eseguiti in conformità alle norme della legge 194/78 non se ne può fare discendere l’equazione: aborto=diritto civile. Il nostro ordinamento non ha introdotto un illimitato “diritto” di aborto, ma lo consente a determinate condizioni, ossia quando vi è pericolo per la salute fisica o psichica della madre, che devono essere accertabili (cd. aborto “terapeutico”). Nega, invece, autonoma rilevanza ad altre motivazioni che potrebbero spingere la donna a sopprimere il feto (per tutte cfr. Cass. 14488/2004).
La ratio della citata legge, infatti, è quella di “[…] ampliare la prevenzione dell’aborto, considerato come un male evitabile e regolamentare, per circoscriverne l’entità e i danni, la piaga dell’aborto clandestino, facendo leva sull’intervento pubblico e sulla responsabilità della donna” (dalla relazione di maggioranza alla proposta divenuta la legge n. 194 del 22 maggio 1978).
L’asserita “semplificazione” derivante dall’introduzione della pillola abortiva, lungi dal garantire meglio il ricorso della donna all’interruzione della gravidanza (che però, come detto, non sussiste come diritto sic et simpliciter), renderebbe reale il rischio di poter aggirare il senso della legge e le procedure che essa ha contemplato al fine di far emergere l’aborto dalla “clandestinità”.
Emerge, in questa vicenda, tutta l’ipocrisia di chi sempre ha agitato lo slogan “la 194 non si tocca”, da ultimo in occasione del fallito referendum contro la L. 40/04 (fecondazione artificiale). Traspare evidente la volontà di violare la legge 194 in quell’unico senso che va verso la completa liberalizzazione dell’aborto, inteso come “diritto assoluto della donna sul nascituro”.
Con l’introduzione della RU486 (il “pesticida anti-umano” come la chiamava Jerome Lejeune), si avrebbe finalmente la “liberazione” della donna dal controllo del medico, ma anche, si è fatto notare, l’interiorizzazione del dramma dell’aborto vissuto in solitudine dalla donna (cfr. E. Roccella, “L’altro come assente; la banalizzazione della vita”, Avvenire 11.09.05).
Che la “semplificazione” dell’aborto sia una falsità si ricava dalle dichiarazioni dell’avvocato Roberto Conte, amministratore delegato per l’Italia della stessa Roussel Uclaf, l’azienda che produce il “farmaco” (ma qual è, nella fattispecie, la “malattia”??), il quale ebbe a riferire ad un quotidiano (cfr. La Repubblica, 4-11-1989): “il farmaco richiede come elemento tassativo l’assistenza medica e la distribuzione tramite i consultori”. Tali affermazioni trovano conferma dagli studi che valutano in quasi il 10% le donne che espellono l’embrione, ormai morto, oltre 24 ore dopo l’assunzione dell’ultima dose del cocktail abortivo. Risulta pertanto evidente che, per la tutela della salute della donna, non si possa prescindere dall’assistenza medica.
La stessa Legge 194, per i primi novanta giorni di gravidanza, prescrive il rigoroso rispetto delle procedure di cui agli articoli 4 e 5, in base ai quali la gestante deve rivolgersi a un consultorio, a una struttura sociosanitaria abilitata, o a un medico di sua fiducia, per svolgere i necessari accertamenti medici, tentare un’opera di dissuasione, rilasciare il certificato che consente di eseguire l’intervento e seguirne l’iter fino all’effettiva espulsione del feto. Un tale percorso è difficilmente compatibile con l’uso della RU486. L’articolo 19, poi, punisce rispettivamente con la reclusione fino a tre anni chi cagiona l’aborto, e con la multa fino a centomila lire la donna che abortisce senza l’osservanza delle modalità di cui all’articolo 5.
Dunque, oggi la RU 486 impone una scelta alle istituzioni coinvolte nella vicenda: se far prevalere la spinta libertaria che, come molti sostengono, soggiacerebbe alla Legge 194, ovvero la lettera delle sue disposizioni, sebbene mai concretamente attuate.
Se si condivide il primo orientamento, la L. 194 va però cambiata; se invece, com’è stato sostenuto “usque ad nauseam”, la 194 “non si tocca”, ci permettiamo di chiedere al Sig. Ministro della Salute, per la parte di sua competenza, di non fermarsi al formale rispetto di una procedura, ma di esigere il sostanziale rispetto dell’intera 194, esortando i consultori al coinvolgimento reale delle “associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”, verificando se a ogni gestante in difficoltà sono prospettate “le possibili soluzioni dei problemi proposti”, e se viene messo in opera “ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto” (art. 5).
Pisa 21.10.05
COMITATO SCIENZA & VITA
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Spett.le Redazione Pisana de “La Nazione”
“Come responsabile del “Centro di Bioetica” dell’Università di Pisa e Coordinatore del comitato provinciale “Scienza e Vita”, costituitosi in occasione del fallito referendum sulla Legge 40/04, non posso esimermi dall’entrare nel merito della singolare iniziativa dell’Assessore Regionale alla Sanità Dott.Enrico Rossi,il quale, come riportato da “Il Tírreno” del 10 Ottobre u.s., avrebbe autorizzato la prescrizione e quindi l’uso della pillola abortiva RU-486 nell’Ospedale Lotti di Pontedera, accogliendo la richiesta in tal senso del Dott. Srebot,in servizio presso questa struttura.
Si tratta di una autorizzazione derivante da una interpretazione errata e strumentale delle disposizioni legislative in materia ed in particolare del Decreto del Ministero della Salute del 20/04/2005 che consente l’adozione di farmaci non commercializzati in Italia soltanto in mancanza di “una valida alternativa terapeutica”,ossia in casi di assoluta necessità, circostanza che non riguarda evidentemente il farmaco in questione.
Sorge allora il dubbio che l’ Assessore Rossi, con questa sua iniziativa, viziata sia sul piano giuridico che su quello etico, abbia voluto precorrere il normale iter procedurale previsto in materia ponendo il Comune di Pontedera in una prestigiosa posizione di “avanguardia” del progresso medico, ed è questo un atteggiamento inconciliabile con il senso di responsabilità e di rispetto delle leggi vigenti, anche se non collimanti con le opinioni personali, che un amministratore pubblico dovrebbe avere.
Con questo suo atto arbitrario, I’Assessore Rossi dimostra, tra l’altro, di ignorare o di non considerare opportunamente che la sperimentazíone clinica della RU-486 in corso presso l’Ospedale S.Anna di Toríno ha lo scopo di fornire i presupposti scientifici necessari perchè il farmaco possa essere registrato e quindi commercializzato anche in Italia, sperimentazione che non può essere certo vanificata dalla improvvida disposizione di un funzionario regionale.
Che poi l’uso regolarmente autorizzato della RU-486,finalizzato ad un risultato eticamente (ma solo eticamente?) negativo qual’è la soppressione di un nascituro, rappresenti un reale progresso nel campo specifico della medicina ostetríca è cosa dubbia che merita comunque una preventiva seria ed accurata riflessione.”
Prof. Massimo Ermini