Claudia Navarini
ROMA, domenica, 30 ottobre 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
È un bilancio che conferma quello che molti, la Chiesa Cattolica in primo luogo, da tempo sostenevano – e anzi avevano previsto con decenni di anticipo: l’aborto “terapeutico”, quello clandestino, quello “d’urgenza”, quello dei “casi pietosi”, costituiscono la minoranza delle “interruzioni” di gravidanza, mentre nella stragrande maggioranza dei casi la soppressione di esseri umani non ancora nati è divenuto un mezzo di controllo delle nascite.<
Onestà intellettuale e sensibilità hanno portato non pochi nel mondo laico a ripensare esperienze e dogmi ideologici, denunciando la banalizzazione che ha subito l’aborto nel corso degli anni, e a proporre restrizioni, controlli, revisioni, o almeno un dibattito franco che appare invece ancora arduo.
Non è più possibile negare che l’aborto “facile”, in particolare il più recente aborto farmacologico, non promuove il benessere delle donne e non è una “conquista di civiltà”, ma anzi rende più vasto il danno – miriadi di morti silenziose – e più crudele la beffa: la donna è di nuovo e ancor più abbandonata ai “suoi” drammi da una società che guarda alla vita nascente, e a tutto ciò che nel corpo femminile è considerato altro dalla sessualità, come a una seccatura, un ostacolo per le “magnifiche sorti e progressive”.
Che l’aborto ci sia sempre stato, anche prima delle leggi in materia, è un fatto risaputo. D’altra parte, tutti i crimini che la coscienza dell’uomo e le leggi positive condannano sono (o sono stati) tristi realtà, non ipotesi sociologiche. Sono conseguenze dolorose della lacerazione che l’uomo ha subito con l’ingresso del male nella storia, con un uso fallace del libero arbitrio.
Il problema del nostro tempo, nel dramma dell’aborto come in quasi tutte le questioni bioetiche, è l’incapacità di affrontare il male chiamandolo con il suo nome, nell’illusione che, addomesticato, diventi meno dannoso, addirittura innocuo. Senza dimenticare che, spesso, gli specchietti per le allodole sul perché si renda “necessario” fare una cosa, non fanno vedere a chi la si stia facendo.
Così, si parte dalla considerazione, indubitabile e meramente descrittiva, che l’aborto è un male presente, per arrivare a dire che è inevitabile , e che l’unica possibile “soluzione” è la “riduzione del danno” attraverso una sua parziale autorizzazione, ovvero una depenalizzazione che sfocia inevitabilmente nella totale liberalizzazione – se non di diritto, di fatto – perché rotolando su un piano inclinato non ci si ferma a mezza via.
Appunto questa è la via scelta in molti Paesi non soltanto per l’aborto, ma anche per l’eutanasia, per le tecnologie riproduttive, per la sperimentazione sull’embrione umano, per il riconoscimento delle unioni omosessuali. Salvo poi rendersi conto che la depenalizzazione di comportamenti contrari alla difesa della vita e della famiglia aggrava i problemi personali che dice di voler risolvere e favorisce una mentalità profondamente anti-sociale.
L’apparenza di un “miglioramento” è la chiave di lettura più sponsorizzata in questi mesi per promuovere la RU486. Si dice che dal momento che l’aborto legale c’è già è preferibile ridurne il danno attraverso il metodo farmacologico, più tempestivo e comodo di quello chirurgico. Da più parti si sono levate voci – fra cui quella di chi scrive – volte a smascherare l’inconsistenza clinica, psicologica ed etica di un simile approccio (cfr. C. Navarini, L’aspirina di Erode: anche in Italia l’aborto chimico e “facile” della RU-486 , ZENIT, 18 settembre 2005).
La sperimentazione della RU486 all’ospedale Sant’Anna di Torino sta affondando il nostro Paese in una palude da cui sarà difficile uscire: non solo la sua introduzione porterebbe ad un uso routinario dell’aborto chimico con tutti i rischi che comporta sul piano etico, sanitario ed esistenziale, ma diverrebbe un’insidiosa fonte di guadagno. E i guadagni legati alla produzione e alla commercializzazione del farmaco – si sa – già altrove hanno ostacolato una valutazione serena del funzionamento del prodotto, inducendo la tentazione di minimizzare i pesanti eventi avversi.
Mentre in Piemonte la sperimentazione procede, in Toscana si percorre una “via breve”, ovvero l’importazione del prodotto dalla Francia. La scorciatoia è stata resa possibile grazie ad una libera interpretazione del Decreto del Ministero della Salute del 20/04/2005, che autorizza l’adozione di farmaci non commercializzati in Italia in casi di assoluta necessità, quando cioè mancano reali alternative terapeutiche. All’ospedale Lotti di Pontedera un medico ha fatto richiesta del prodotto, e l’Assessore Regionale alla Sanità Enrico Rossi ha tranquillamente ritenuto legittima la richiesta. Come se si trattasse di un nuovo farmaco salva-vita.
Ma come può la pillola abortiva essere considerata una “terapia necessaria”? A parte il fatto che, come ogni aborto, non è mai una terapia , e che certamente non salva vite ma le distrugge, come può essere più efficace, in un contesto di necessità e dunque di urgenza, una procedura che richiede dieci giorni per essere completata, di contro ai pochi minuti dell’aborto chirurgico? Le intenzioni con cui si persegue la via dell’importazione dalla RU486 appaiono dunque opache, e le scuse addotte ingannevoli, specie nei confronti del vasto pubblico che affidandosi ai medici e alle istituzioni chiede soprattutto sicurezza e promozione della salute.
Il Comitato “Scienza e Vita” di Pisa, dopo la notizia, ha protestato vivamente, rilasciando una dichiarazione chiara e articolata, e invocando la mobilitazione dei difensori della vita. Vi si legge: “a quanti, senza alcun supporto scientifico, accusano coloro che sono contrari all’introduzione della RU486 di voler privare le donne di uno strumento utile per abortire con minore sofferenza e maggiore sicurezza, rispondiamo che tali affermazioni non possono che derivare da ignoranza scientifica, o da malafede ideologica, entrambe qualità che non servono la verità, né possono recare beneficio alle donne.
Comunque si cerchi di ammantare di naturalezza un aborto, valgono le parole della dottoressa abortista francese Béatrice Fougeyrollas, secondo cui l’aborto è un atto di insubordinazione all’ordine naturale ”.
Non si poteva tradurre meglio in linguaggio corrente quel “ nolumus hunc regnare super nos ” (Lc 19,14) e far capire cosa ci sia dietro le reazioni scandalizzate, le grida di allarme dei farisei del culto relativista scioccati dal coraggio civile e morale di quei laici che osano porsi domande laceranti e così necessarie: nessuna vera “emancipazione della donna” o di chicchessia, ma emancipazione dalla realtà, costi quel che costi.