Nella seconda parte di questo studio l’autore traccia un bilancio del genocidio degli armeni e individua le responsabilità politiche e penali delle autorità turche, dei loro alleati e delle potenze, mettendo in evidenza anche alcuni casi di “disobbedienza civile” di funzionari e privati cittadini turchi e curdi. Il genocidio degli armeni è inserito nel quadro più vasto dell’olocausto anche di altri cristiani sudditi ottomani durante la guerra mondiale; si analizza poi la situazione della Chiesa armena durante e dopo il genocidio, l’aiuto delle altre Chiese e di filantropi laici quale fu Fridtjof Nansen. L’autore riflette poi sul riconoscimento del genocidio in sede intemazionale, sul negazionismo turco e le sue pesanti conseguenze e sul recente interesse di parte della società civile turca contemporanea nei confronti di questa pagina oscura della storia nazionale. Il Meta Ye-ghern è infine messo in relazione alla Shoah e considerato nelle sue con-, seguenze per la storia e la cultura del popolo armena
di Giovanni Guaita
I fatti del 1915, di cui sono responsabili i «Giovani Turchi», non sono che il logico sviluppo di quanto li ha preceduti e la causa di quanto seguirà; rappresentano cioè il culmine di tutto il processo del genocidio, iniziato gia da Abdul-Hamid e portato a termine dai kemalisti (2). In quasi cinque decenni, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, il risultato del genocidio degli armeni, perpetrato dai diversi governanti turchi dal 1876 al 1923, che ebbe le sue punte negli anni 1894-1896, 1909 e 1915-1922, è di più di due milioni di vittime: morti durante la deportazione di fame, sete e epidemie, scomparsi nei deserti della Siria e della Mesopotamia, o trucidati dalla follia omicida di Abdul-Hamid II, dei «Giovani Turchi» e dei kemalisti, dei loro sicari, di fanatici fondamentalisti, delle folle eccitate.
Oggi in Turchia, ad eccezione di Istanbul, che conta una comunità armena che va da 50.000 a 60.000 persone, praticamente non ci sono più armeni. I sopravvissuti al genocidio si sono aggiunti alle comunità della diaspora in Russia, Libano, Siria, Iraq, Iran, Egitto, Grecia, Francia, Stati Uniti, Canada, Australia… Così la diaspora, se è un fenomeno costante fin dall’antichità della storia armena, dopo il «Grande Male» ha però assunto proporzioni fino allora sconosciute.Infatti, a parare dalla fine del genocidio e dalla perdita dei territori dell’Armenia Occidentale (1920), gli armeni si troveranno ormai condannati alla condizione di un popolo che per la maggioranza vive fuori dalla sua terra storica, disperso nel mondo.
La responsabilità politica dello Stato turco per il crimine di genocidio perpetrato contro quelli che erano suoi cittadini è stata stabilita dalla Conferenza di pace di Parigi nel 1920. Tale responsabilità va naturalmente in primo luogo agli ideatori e organizzatori del genocidio, ovvero a Abdul-Hamid II, al triumvirato dei «Giovani Turchi» di Talaat, Djemal (3) e Enver, e a Mustafà Kemal.
Difficile stabilire in che misura le deportazioni e gli eccidi del 1915, certamente pianificati precedentemente, siano stati affrettati o anticipati dalle circostanze concrete, come gli insuccessi delle truppe turche all’inizio della guerra o la ribellione degli armeni di Van. Gli amministratori turchi distruggevano sistematicamente i documenti compromettenti. Tuttavia, la rapidità con cui le autorità riescono a deportare circa la metà degli armeni dell’impero, tenuto conto dello stato di arretratezza della Turchia di allora, fa pensare che nel 1915 sia stato attuato un piano concertato e organizzato in precedenza nei dettagli (4).
Per quanto riguarda la responsabilità penale delle persone fisiche per le deportazioni, in gran parte essa va a Talaat-pasha. Egli prendeva personalmente e in gran segreto le decisioni riguardanti la questione armena; l’esecuzione era poi affidata all’Organizzazione Speciale dei medici Nazim e Behaeddin Chakir. Spesso gli ordini ufficiali pubblici del governo erano contraddetti da disposizioni segrete, date personalmente da Talaat. Ex-impiegato postale, Talaat era dotato in casa di un apparecchio telegrafico. Così, ufficialmente ordinava di punire gli abusi che avvenivano durante i “trasferimenti”, rassicurando in tal modo gli alleati tedeschi e i diplomatici stranieri; contemporaneamente, da casa, impartiva ordini opposti con telegrammi cifrati.
Gli ordini privati, oltre che dal telegrafo di casa, li trasmetteva attraverso funzionari del partito: questi mostravano ai governatori le decisioni scritte del ministro, e distruggevano poi il documento; a volte, gli ordini erano trasmessi addirittura soltanto oralmente. Oltre alle autorità turche e ai loro subalterni, che spesso non soltanto eseguirono gli ordini, ma si lasciarono andare a eccessi e brutalità di ogni genere, purtroppo colpevole fu anche la popolazione ignorante, sfruttata e manipolata dai leader politici, accecata dal fanatismo, anche religioso. A differenza del genocidio degli ebrei, compiuto da Hitler e dal regime nazista, al genocidio degli armeni prese parte attiva la popolazione civile. Nell’esecuzione del piano, le autorità dello Stato furono aiutate dalle folle che si impossessavano dei beni degli armeni deportati e trucidati.
I sentimenti di antipatia e intolleranza verso le minoranze etniche, generalmente più ricche e più colte della popolazione turca, furono sapientemente fomentati e utilizzati dagli ideologi del panturanismo. La proclamazione della Jihad, poi, creò un’atmosfera di «caccia all’armeno», in cui tutto era permesso: rubare, bruciare, violentare, torturare, mutilare, uccidere…
Va comunque detto che vi furono casi in cui governatori turchi e capi di amministrazioni regionali rifiutarono di obbedire agli ordini di sterminio, soprattutto quando si trattava di ordini non ufficiali e orali, ben sapendo che comunque venivano da Talaat. Il Ministero degli Interni, naturalmente, li congedò e il partito e l’Organizzazione Speciale li minacciò o attentò alla loro vita.
Di questo testimonia, per esempio, Armin Wegner, che scrive nella sua prefazione al testo del processo di Talaat-pasha: «Non si potrebbe rendere responsabile la nazione turca nella sua totalità dello sterminio degli armeni. Non solo non ha voluto questi orrori, ma molti suoi rappresentanti li hanno disapprovati decisamente. I documenti ufficiali dei consoli tedeschi ne sono la testimonianza: contengono numerose prove di rifiuto di obbedienza di funzionati turchi che si rendevano conto assai chiaramente delle terribili conseguenze degli ordini del governo» (5).
Tra i casi più celebri di «disobbedienza civile», almeno parziale, da parte di funzionari dello Stato, vanno citati quelli di Naim Sefa Bey e Ali Souad Bey, entrambi turchi. Naim Sefa era l’ultimo segretario del Comitato Generale per le Deportazioni di Aleppo e direttore del campo di concentramento di Meskenè; in parte per pietà e in parte per interesse, egli aiutò qualche famiglia armena a fuggire, disobbedì a diversi ordini di deportazione e rifiutò di uccidere alcuni ecclesiastici armeni.
Dopo l’arrivo degli inglesi a Aleppo e la ritirata dei turchi, egli consegnò al giornalista armeno Aram Andonian, che in precedenza aveva aiutato a fuggire alla deportazione, alcuni documenti ufficiali del governo contenenti ordini di sterminio, che avrebbe dovuto distruggere, e che l’Andonian in seguito pubblicò (6). Ricercato dagli arabi che volevano catturarlo, Naim Sefa trovò rifugio proprio presso armeni: fu infatti nascosto dalla ricca famiglia dei Mazloumian, proprietari del celebre Hotel Baron di Aleppo (per lunghi decenni luogo di soggiorno della créme dell’impero ottomano), che possedevano anche l’Hotel Victoria di Beirut (7).
Ali Souad era il governatore della regione di Deir-es-Zor, dove si trovavano diversi campi di sterminio. Egli protesse dalle incursioni dei predoni arabi i deportati e disobbedì agli ordini espliciti dei suoi superiori di spedirli nel deserto, dando loro la possibilità di costruirsi delle abitazioni e di commerciare; diede lavoro a numerosissimi armeni e trasformò la sua casa in orfanotrofio per i bambini armeni. Per queste ragioni egli si guadagnò fama di «governatore buono» e fu perfino soprannominato «il patriarca armeno»; sotto di lui, i numerosissimi deportati armeni, accumulatisi nei pressi di Deir-es-Zor, costituivano una comunità relativamente «fiorente», un’autentica città, con amministratori e capi armeni.
Ciò si rivelò però fatale per i deportati: quando nel luglio 1916 Ali Souad fu allontanato dall’incarico (e, a quanto si dice, assassinato), il suo successore, in brevissimo tempo e con grandissima crudeltà, fece uccidere da bande di arabi e ceceni reclutate per l’occasione circa 200.000 armeni. Oltre a questi episodi di disobbedienza agli ordini di funzionali medio-alti dello Stato, durante le deportazioni vi furono anche semplici cittadini turchi e curdi che nascosero gli armeni (8). E ciò appare tanto più lodevole, se si considera che il governo minacciava severe misure di punizione per chi proteggeva, aiutava o nascondeva gli armeni. Si conoscono diversi casi in cui donne armene, prima di partire per la deportazione, affidarono i figli a famiglie turche amiche.
Anche qui è importante che un testimone degli avvenimenti come Armin Wegner non accusasse delle brutalità i turchi in quanto popolo. Nella lettera al presidente Wilson scrive: «Io non accuso il popolo semplice di questo paese il cui animo è profondamente onesto; ma credo che la casta di dominatori che lo guida non sarà mai capace nel corso della storia di renderlo felice».
Armin Wegner lasciò la Turchia nel dicembre 1916 e non ebbe modo di vedere che, purtroppo, anche il cambiamento radicale della «casta di dominatori» della Turchia, ovvero l’avvento di Mustafà Kemal, non significò affatto un miglioramento delle condizioni di vita per gli armeni, i greci e le altre minoranze. Anzi, la manipolazione dei sentimenti delle folle fu fatta dai kemalisti su più vasta scala e con risultati ancora più tragici di quanto non fecero i «Giovani Turchi».
Di grande importanza è la questione delle responsabilità delle grandi potenze per i fatti avvenuti in Turchia a cavallo tra i due secoli. Una parte non trascurabile di corresponsabilità per il genocidio è da attribuirsi ai vari alleati dei tre regimi turchi succedutisi in questo periodo. All’Inghilterra per le stragi della fine del XIX secolo, alla Germania e all’Austro-Ungheria per quelle dei «Giovani Turchi» (9), alla Russia bolscevica per gli eccidi compiuti dai «Giovani Turchi» (a Kars nel 1918) e dai kemalisti (ancora a Kars nel 1920 e in Cilicia e a Smirne negli anni 1921-1922).
Gran Bretagna, Francia, Italia e Stati Uniti hanno sicuramente responsabilità nella loro politica remissiva rispetto ai kemalisti, espressa anche con la rinuncia al trattato di Sévres. Le potenze mondiali non alleate dei turchi, se da un lato hanno più volte espresso la loro protesta presso le autorità turche, d’altra parte non hanno intrapreso niente di seriamente importante per obbligare la Turchia alle riforme o a fermare gli eccidi. Non bisogna dimenticare che le condizioni di estrema povertà in cui si trovava l’impero ottomano al suo tramonto, la sua dipendenza economica dai vari paesi di Europa, rendevano del tutto possibili le pressioni politiche.
Infine, dopo la Guerra, sia gli alleati dell’Intesa che le altre potenze e la diplomazia mondiale, hanno voluto “lavarsi le mani” della causa armena. Nel XX secolo dalle ceneri dell’impero ottomano sono nati diversi Stati indipendenti arabi. La loro comparsa ha significato per i Turchi un’enorme perdita economica e strategica. Ma la nascita di un’Armenia indipendente sarebbe stata per i turchi una perdita incomparabilmente più grave.
Prima di tutto, perché‚ a uno Stato armeno indipendente sarebbe dovuto andare molto del territorio dell’Anatolia; poi perché‚ questo Stato, come é effettivamente l’Armenia sovietica, si sarebbe trovato per la sua posizione geografica a infrangere ogni sogno di panturanismo. Ma le stesse potenze europee che si adoperarono per la nascita degli Stati arabi, nelle terre un tempo soggette ai turchi, non fecero assolutamente nulla per la nascita di un’Armenia indipendente.
Infatti, rendere giustizia agli armeni, dando loro il territorio in cui avevano vissuto per millenni, e rifondando un unico Stato costituito dall’Armenia occidentale (turca) e da quella orientale (sovietica) avrebbe significato, tra l’altro, anche mettersi contro la Russia sovietica. Inoltre i paesi dell’Intesa temevano che, appena nato, l’eventuale Stato armeno potesse cadere sotto l’influenza del forte vicino, il che in fin dei conti avrebbe portato a un’estensione del territorio sovietico.
Da parte loro i bolscevichi, lasciando al governo kemalista l’Armenia occidentale, intendevano assicurarsi un’alleanza con la nuova Turchia contro l’Occidente. Ecco perché, lungo tutto il XX secolo gli armeni assisteranno alla nascita di Stati in tutti i continenti, ma dopo il ritiro dalla vita politica del presidente americano Wilson e la sua morte nel 1924, nessuno dei grandi abbraccerà seriamente la loro causa.
JIHAD, OLOCAUSTO CRISTIANO E GENOCIDIO
Lungo la loro storia, una gran parte delle persecuzioni che gli armeni hanno subito – dalla battaglia di Avarayr in poi – è stata senz’ altro dovuta alla loro fede cristiana. Certamente per questa ragione, alcuni vedono nel Metz Yeghern uno scontro tra islam e cristianesimo. In realtà, il sanguinario Abdul-Hamid II, i laici «Giovani Turchi», – ancor meno – Mustafà Kemal, che vedeva nell’islam la «palla al piede del popolo turco», furono spinti nelle loro azioni da cause autenticamente religiose.
La stessa proclamazione della Jihad all’inizio della guerra (l’11 novembre 1914), negli intenti era certamente rivolta non contro gli armeni, ma contro i nemici esterni, cristiani, dell’impero ottomano: russi, francesi e inglesi. Tuttavia, essendo questi ultimi sui fronti o nelle zone occupate, gli unici stranieri cristiani presenti nell’impero al momento erano i tedeschi, alleati del governo. Così anche la Jihad si riversò naturalmente sui cristiani cittadini ottomani, e in primo luogo sulla comunità forte degli armeni, divisi tra i due imperi rivali.
Se però il genocidio non fu motivato direttamente da una ragione religiosa, l’attaccamento degli armeni alla fede cristiana determinava di fatto la loro sorte: gli armeni che furono disposti ad abbracciare l’islam furono infatti risparmiati. Diversi cittadini turchi di oggi hanno scoperto solo da adulti le proprie origini armene: negli anni delle stragi, gli antenati si erano fatti musulmani e avevano scelto di non usare più la propria lingua, per poter sopravvivere. Così anche il genocidio non riguardò le poco numerose comunità etnicamente armene, ma islamizzate da lunga data, ancora presenti nella Turchia odierna (10).
Viceversa, diversi altri cristiani ottomani (soprattutto siriaci, assiri, caldei, siro-cattolici e, più tardi, greci) divennero con gli armeni oggetto delle stragi (11). Sulla base di questa considerazione, recentemente alcuni storici hanno affermato che gli stermini degli anni 1915-1916, più che come genocidio degli armeni, debbano essere considerati come un olocausto generalmente rivolto contro tutti i cristiani ottomani. Tale in Italia la posizione di Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo (12).
Le deportazioni e le stragi organizzate dal governo ottomano durante la Prima Guerra mondiale, effettivamente, a un certo punto riguardarono anche altre comunità cristiane. Tuttavia è importante sottolineare che furono senza alcun dubbio gli armeni, e più precisamente il millet degli armeni apostolici (13), l’obiettivo primo e principale dei massacri, in seguito estesi anche a altre comunità etnico-religiose dell’impero. Le autorità turche avevano le loro ragioni.
Gli armeni costituivano ai loro occhi la comunità in assoluto più sospetta e temibile: erano i più numerosi, i più ricchi, istruiti e evoluti, grazie alla loro diaspora riuscivano a imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica di molti Paesi; la loro intellighenzia già da tempo era orientata verso l’Occidente laico, liberale e socialista, sempre meno dipendente dall’autorità ecclesiastica e dunque meno “governabile” attraverso il Patriarca dalle autorità ottomane; erano insomma una comunità assai “turbolenta”, con sempre più netta autocoscienza politica e sociale, organizzata in partiti diffusi in tutto l’impero e al di là di esso, capaci sfidare il governo mobilitando notevoli folle, e che più di una volta avevano fatto ricorso al terrorismo come metodo di lotta politica.
A confronto con il millet armeno apostolico, le altre comunità cristiane dell’impero risultavano decisamente più arretrate, più integrate nel sistema ottomano e innocue. Così i siriaci (all’epoca noti come giacobiti) che, grazie alla loro fedeltà al governo, si erano guadagnati l’epiteto di «orfani di Maometto», o gli assiri (allora considerati ancora nestoriani), relegati nelle loro montagne in cui vivevano in buona simbiosi con i curdi.
Anche gli armeni cattolici e protestanti, pur vittime del genocidio, ne risentirono meno di quelli appartenenti alla Chiesa apostolica e furono almeno in parte risparmiati; e ciò, sia perché la Santa Sede e alcuni Stati intervennero a loro favore, sia perché, comunque, per le autorità turche costituivano un problema minore, essendo decisamente meno politicizzati e ribelli degli armeni apostolici.
Una delle differenze tra gli armeni e gli altri sudditi cristiani, che li faceva apparire come in assoluto i più pericolosi agli occhi dello Stato, era dovuta, naturalmente, alla posizione geografica del territorio in cui viveva la maggioranza di essi, confinante con l’impero russo; ciò era reso ancora più grave dal fatto che, come si è visto, il numero degli armeni che vivevano entro i confini dell’Armenia storica, da una parte e dall’altra della frontiera russoturca, era pressoché equivalente. Divisi tra i due imperi, gli armeni erano l’unica comunità cristiana ottomana che potesse contare sull’appoggio di un’altrettanto numerosa comunità di fratelli non sudditi del sultano, ma dei suoi più acerrimi nemici.
Tutte queste ragioni che sottolineano l’unicità del millet armeno nello Stato ottomano spiegano perché, se le stragi riguardarono indistintamente quasi tutti i cristiani dell’impero, l’intento propriamente genocidiario sia stato rivolto precisamente contro gli armeni. Le deportazioni e gli stermini degli altri gruppi etnici cristiani non hanno mai riguardato la comunità intera; benché fortemente ridotte (14), le altre comunità hanno comunque continuato a esistere ed esistono tuttora in Turchia dove, pur tra discriminazioni e limitazioni di tutti i tipi, vivono apertamente come cristiani.
Gli armeni, ad eccezione di quelli di Costantinopoli, sono (almeno ufficialmente) totalmente scomparsi dalla Turchia, e hanno interamente e defìnitivamente perduto il territorio dove avevano sempre vissuto e che di diritto apparteneva loro. La motivazione religiosa delle stragi, in ogni caso, fu più che altro uno degli argomenti utilizzati dalle autorità turche per dare una giustificazione al genocidio.
I «Giovani Turchi», e in seguito i kemalisti, seppero sfruttare il fanatismo religioso e l’odio della popolazione ignorante contro i ghiavur, cioè i giaurri, gli infedeli cristiani, soprattutto armeni. Gli armeni fuggiti dalla Turchia furono comunque bene accolti praticamente da tutti gli Stati islamici del Medio Oriente: qui i profughi del genocidio sperimenteranno l’ospitalità e la generosità degli arabi, vivranno con loro in perfetta simbiosi, e diverranno cittadini a pieno titolo di questi nuovi Paesi (15).
I capi religiosi musulmani dei Paesi arabi hanno apertamente condannato l’operato dei governanti turchi del 1915 come assolutamente inconciliabile con la morale islamica.
LA CHIESA E IL GENOCIDIO
Lungo gli anni difficili del genocidio, la Chiesa armena accompagna il popolo e ne condivide le sorti. Il 24 aprile 1915, assieme all’intellighenzia di Costantinopoli sono arrestati diversi ecclesiastici. In seguito, in tutta l’Anatolia centinaia di preti sono impiccati prima dell’inizio delle deportazioni. Abbiamo visto che molto spesso gli obbrobri compiuti dai turchi e dai curdi nei villaggi e nelle città armene erano accompagnati da profanazioni, incendi e distruzioni di chiese e monasteri.
Naturalmente, nello stesso modo è espropriata la proprietà della Chiesa, rapinato il tesoro, distrutte tipografie, scuole, giornali, asili, ospedali… Con le deportazioni, il clero scompare quasi totalmente. Ma la presenza di sacerdoti – attestata da vari testimoni – nelle carovane, nei lager di smistamento, nel deserto, è di grande importanza spirituale per la gente.
Spesso questi sacerdoti non possono fare nient’altro che seppellire i morti, ma i deportati sentono che la madre Chiesa li sostiene nella pena e li accompagna nell’ultimo viaggio. Scrive Armin Wegner in una lettera: «Verso sera mi siedo con un sacerdote, padre Arslan Dadschad, all’ingresso della sua tenda e mi faccio raccontare delle sue sofferenze, delle ottocento famiglie della città, con le quali è stato deportato, delle migliaia che egli ha sepolto nel deserto, fra i quali 23 preti e un vescovo. I loro sguardi gridano verso di me: “Dunque tu sei tedesco, dicono, e sei alleato con i turchi… e quindi è vero che anche voi l’avete voluto!”. Io abbasso gli occhi. Come posso rispondere alle loro accuse? Da una tasca il prete estrae un piccolo crocefìsso avvolto in uno straccio e quando lo bacia devotamente, non posso trattenermi dal portarla alle labbra, quella croce, che è testimone di tanto dolore e di tante sofferenze umane».
Nel 1918 alcuni sacerdoti accompagnano i volontari armeni della Legione d’Oriente che con i francesi ritorna in Cilicia dopo la guerra. Anch’essi lasceranno il territorio al momento dell’evacuazione delle truppe francesi. Dal 1909 a Costantinopoli, dopo Malachia Ormanian, è Patriarca Yeghishé Turian (1860-1930), uomo molto attivo, precedentemente vescovo di Smirne (1904-1908), filologo e fratello del poeta Petros Turian.
Nel 1911 egli lascia la cattedra e rimane per altri dieci anni come insegnante nelle scuole armene della città. Nel 1921 è eletto patriarca di Gerusalemme dove, fino alla morte, nel 1930, sarà un punto di riferimento per la Chiesa armena in un momento in cui le sedi di Costantinopoli ed Etchmjadzin attraversano una profonda crisi. Dopo Yeghishé Turian per circa un anno la cattedra armena di Costantinopoli è occupata dal patriarca Hovhannes XII.
Nel 1913 gli succede il vescovo di Dìarbekir, Zaven Yeghiaian, uomo spirituale, lontano dalla politica e fedele alle autorità dello Stato. All’alba della Guerra mondiale il nuovo patriarca dichiara che il suo gregge difenderà la patria ottomana pronto a qualsìasì sacrificio. Fin dall’inizio delle deportazioni il patriarca Zaven è informato dai suoi vescovi di quanto sta capitando in tutto il Paese.
Anche il catholìcos di Gliela Sahak II Khabaian lo mette al corrente dei drammatici avvenimenti in corso nelle sue diocesi. Più volte (già il 24 aprile, e in seguito) il patriarca cerca di rivolgersi a Talaat e a diversi ministri e personaggi influenti del governo, ma ogni volta si vede negare perfino di essere ricevuto. Essendo già chiuse, perché in guerra con l’impero, le ambasciate di Russia e di Francia, egli decide di rivolgersi all’ambasciatore tedesco von Wangenheim, ma ottiene da questi un netto rifiuto di qualsiasi mediazione presso le autorità turche.
A questo punto il patriarca armeno si rivolge a mons. Angelo Maria Dolci, delegato apostolico, ossia rappresentante della Santa Sede in Turchia (16). Questi, pur non godendo di alcuno statuto diplomatico, più volte riesce a parlare con le autorità turche, ma non ottiene che promesse limitate agli armeni cattolici. In difesa di tutto il popolo armeno (senza alcuna differenza di confessione religiosa) interviene allora papa Benedetto XV che nell’estate del 1915 scrive personalmente al sultano Mehmet V.
La Santa Sede inoltre fa forti pressioni sui governi tedesco e austriaco, direttamente e attraverso vari vescovi, affinchè intercedano in favore degli armeni. Anche il catholicos di tutti gli armeni, Gevorg V, che risiedendo a Etchmiadzin si trova nell’impero russo, cerca di intervenire attraverso il governo zarista. Così il 27 aprile 1915 il Dipartimento di Stato americano manda un telegramma al proprio ambasciatore a Costantinopoli Morgenthau in cui lo informa che l’ambasciatore russo a Washington ha trasmesso al governo un appello del catholicos di intercedere presso le autorità turche. In modo molto diretto l’ambasciatore russo fa presente che in Russia vivono molti musulmani, e che essi non sono affatto vittime di persecuzioni religiose… (17).
Morgenthau interviene presso il governo e riesce perfino a far intervenire il suo collega Pallavicini, ambasciatore a Costantinopoli dell’Austria-Ungheria, alleata dei turchi. Ma, né le suppliche degli ecclesiastici armeni, né l’intervento autorevole del Papa, né le minacce di Mosca, né i consigli dei governi neutrali e alleati riescono a fermare le stragi. La Costituzione nazionale armena è sospesa nel 1915; il patriarca Zaven è esiliato a Baghdad e l’anno successivo il governo turco sopprime tutte le più importanti cattedre armene dell’impero: i patriarcati di Costantinopoli e di Gerusalemme e i catholicossati di Sis e di Aghtamar.
In sostituzione di queste sedi storiche, Djemal pasha istituisce un «catholicossato di tutti gli armeni di Turchia» di cui fìssa la residenza presso il monastero armeno di San Giacomo a Gerusalemme e che affida all’ex catholicos di Cilicia Sahak II Khabaian. Sahak, riluttante, accetta; ma un anno dopo anche lui è esiliato, a Damasco.
Nel 1919, durante l’occupazione di Istanbul da parte degli alleati, il patriarca Zaven fa ritorno alla sua sede, dove però starà ilo fino al 1922, quando sarà nuovamente esiliato, in Bulgaria. seguito, l’esistenza del patriarcato armeno di Costantinopoli sarà contemplata nelle clausole del Trattato di Losanna relative ai diritti delle minoranze in Turchia. Benché nella seconda metà del XIX secolo, con la Costituzione nazionale armena, il potere temporale del patriarca armeno di Costantinopoli fosse molto diminuito, prima del 1915 il patriarcato aveva ancora autorità sull’intero millet armeno di Turchia e dei Balcani, per un totale di una cinquantina di diocesi con altrettanti vescovi.
Centinaia di chiese, monasteri e soprattutto un gran numero di scuole armene dipendevano direttamente dal patriarca. Oggi il Patriarcato armeno di Costantinopoli conserva un’autorità morale, essendo considerato la quarta cattedra per onore dopo i due catholicossati e il patriarcato di Gerusalemme; è però diventato la sede patriarcale più povera della Chiesa. Gli sono affidati gli armeni della Turchia e di Creta. Il numero delle parrocchie è molto basso, non esiste un seminario proprio, ma le scuole armene sono numerose.
Il governo turco limita fortemente ogni attività del Patriarcato armeno come, d’altronde, di ogni altra comunità cristiana: ciò significa grandi difficoltà burocratiche per restaurare i luoghi di culto, ricevere eredità e donazioni, il divieto di ogni manifestazione pubblica di religiosità, la chiusura delle chiese in provincia e la loro trasformazione in moschee o distruzione. La legge impone che il patriarca debba essere un cittadino turco; egli ha due vescovi collaboratori e meno di una trentina di sacerdoti. La comunità armena di Costantinopoli è tradizionalmente molto legata alla Chiesa, e ha, con Aleppo, le più alte statistiche di pratica religiosa. Circa il 70% degli armeni di Turchia, però, non conosce più la lingua dei padri, e la comunità è in diminuzione per via dell’emigrazione.
Come abbiamo visto, anche il catholicossato di Sis è sconvolto dal genocidio. Nel 1918, sotto il mandato francese, il catholicos Sahak ritorna in Cilicia dal suo esilio di Damasco. Ma poco prima del ritiro delle truppe francesi, nel 1922, deve nuovamente lasciare la sua sede; dopo un breve soggiorno in Siria, il catholicossato si stabilisce nel 1931 ad Antelias, nella periferia di Beirut, in Libano. Il Patriarcato di Gerusalemme gli cede la giurisdizione sul Libano e la Siria, poi a questo territorio canonico si aggiunge anche Cipro.
Solo più tardi al catholicossato della Grande Casa di Cilicia faranno riferimento alcune comunità armene di Grecia, Iran, Kuwait, due diocesi negli USA e una in Canada. Nella confusione del genocidio, scompare il catholicossato di Aghtamar, che era però in decadenza già da tempo.
Anche gli armeni cattolici e protestanti soffrono del genocidio perdendo migliaia di fedeli e centinaia di ministri (18); solo pochi protestanti riescono a mettersi in salvo grazie all’intervento dell’ambasciata americana e qualche cattolico per interessamento di altre ambasciate (prima della Guerra soprattutto quella francese, poi quella austro-ungarica) o del Nunzio apostolico. Come si è visto, la Santa Sede fa pressioni sugli alleati dei «Giovani Turchi»; in particolare, la congregazione armena cattolica dei mechitaristi di Vienna più volte si rivolge al proprio governo. In seguito a queste pressioni agli armeni cattolici a un certo punto viene concesso un “perdono” del sultano che interrompe le deportazioni.
Papa Benedetto XV, che fin dall’inizio aveva severamente condannato la Prima Guerra mondiale, per ben due volte (nel 1915 e nel 1918) scrive personalmente al sultano Mehmet V, dicendosi inorridito per quanto appreso circa le stragi degli armeni, e chiedendogli di intervenire. Il 6 dicembre 1915 in un discorso pubblico il Papa denuncia al mondo intero l’annientamento degli armeni, e nell’agosto 1917, nella nota che indirizza ai belligeranti circa la necessità di porre fine alla Guerra, indica la creazione di un’Armenia indipendente come una delle condizioni indispensabili alla pace “.
Al suo primo rientro dall’esilio, nell’aprile 1919, il patriarca armeno apostolico di Costantinopoli Zaven scriverà a Benedetto XV una lettera di gratitudine per questi interventi (20). Molti protestanti americani e d’Europa si impegnano a denunciare le stragi, sensibilizzando l’opinione pubblica mondiale e facendo forti pressioni sui loro governi (21).
Per quanto riguarda la solidarietà delle varie Chiese nell’aiuto ai sopravvissuti, è da segnalarsi il gesto del Papa che ospita nella sua residenza estiva di Castelgandoifo centinaia di orfanelle armene scampate alle stragi, e la notevole opera di soccorso svolta nei campi profughi armeni da diverse comunità protestanti (22).
Dopo la fine del genocidio, un ruolo importantissimo in favore degli scampati armeni sparsi per il mondo sarà svolto dal grande naturalista e esploratore norvegese Fridtjof Nansen che, dopo essersi reso celebre con l’esplorazione del Polo Nord, si era dedicato all’attività diplomatica. Nominato dalla Società (o Lega) delle Nazioni alto commissario per organizzare l’opera di rimpatrio dei prigionieri di guerra dì tutte le nazionalità, nel 1920-1921 riuscì a farne tornare a casa centinaia di migliaia.
Si occupò poi dei profughi, per i quali istituì il passaporto degli apolidi, detto «passaporto Nansen». Di esso, tra gli altri, beneficeranno migliaia di armeni nei primi tempi della loro vita in diaspora. Durante la terribile carestia in Russia, Nansen fu a capo dell’opera internazionale di soccorso, salvando dalla morte per fame milioni di persone. Nei suoi ultimi anni, allo scopo di scuotere le grandi potenze dalla loro indifferenza nei confronti della sorte degli armeni, scrisse un libro di difesa della causa armena che diventerà celebre (23).
Cercò poi, per conto della Società delle Nazioni, di promuovere un’opera di fertilizzazione di alcune regioni aride dell’Armenia. Per studiare sul luogo la possibilità di irrigazione artificiale, ma anche allo scopo di verificare le condizioni dei rifugiati armeni, Nansen si recò in Armenia nel 1925 a capo di una commissione speciale (24); ma il progetto di irrigazione fu bloccato proprio dal Consiglio della stessa Società delle Nazioni.
Nel 1928 e 1929 riuscì comunque a ottenere il rimpatrio di alcune decine di migliaia di profughi armeni. Nansen nel 1922 ottenne il premio Nobel per la pace per essere «riuscito a trasformare l’amore del prossimo in una vera e propria potenza mondiale, in piena indipendenza politica».
Il RICONOSCIMENTO DEL GENOCIDIO E IL TERRORISMO ARMENO
NELLA SECONDA METÀ DEL XX SECOLO
Dal punto di vista strettamente giuridico, l’operato dei governanti turchi degli anni 1876-1923 nei confronti degli armeni corrisponde a ciò che il diritto internazionale definisce come genocidio (25). I termini della «Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio» dell’ONU del dicembre 1948 si applicano esattamente all’insieme dei crimini, abusi, deportazioni e massacri, pianificati e eseguiti da tre diversi governi della fine dell’impero ottomano (26).
Come abbiamo detto, il genocidio degli armeni è stato ufficialmente riconosciuto; la responsabilità politica dello Stato turco e la responsabilità penale delle persone fìsiche sono state stabilite dalla Conferenza di Pace di Parigi del 1920. Eppure, lungo quasi tutto il XX secolo la maggioranza degli Stati moderni è rimasta in silenzio e ha dimostrato pressoché totale indifferenza per la causa armena.
Questo, nonostante la valutazione sostanzialmente unanime degli avvenimenti data all’epoca dai diplomatici dei diversi Paesi (compresi i tedeschi, alleati dei turchi) (27), nonostante varie prese di posizione esplicite di diversi Stati già durante lo svolgimento del genocidio, soprattutto nonostante i governi russo, inglese e francese avessero fatto, il 24 maggio 1915, la dichiarazione comune di cui abbiamo detto, in cui definivano i fatti come «delitto contro l’umanità» e minacciavano che «i governi alleati (…) riterranno personalmente responsabili di questi crimini i membri del governo ottomano e i loro agenti implicati in questi massacri».
Gli armeni, soprattutto quelli della diaspora, hanno fatto di tutto perché i diversi Paesi riconoscessero il genocidio. L’esperienza frustrante dì vedere il totale disinteresse delle grandi potenze e delle organizzazioni internazionali alla riparazione di una delle più grandi ingiustizie del XX secolo ha ossessionato più di una generazione di armeni. I discendenti degli scampati al deserto hanno alternato delusione e rabbia davanti alla generale indifferenza nei confronti del genocidio.
All’inizio degli anni 70 il Libano entra in una crisi politica, che nel giro di pochi anni degenera in una guerra civile destinata a durare molto a lungo. È in seno alla numerosa comunità armena del Libano, doppiamente oppressa da questo sentimento di delusione per l’indifferenza mondiale per la causa armena e dalla crisi libanese, che ha origine il terrorismo armeno della seconda metà del secolo.
La scintilla che fa scoppiare il fenomeno è la ricorrenza, Del 1975, del sessantesimo anniversario degli avvenimenti più terribili del genocidio: alcuni armeni decidono di far giustizia da sé. Già il 23 gennaio 1973 a Los Angeles Kurken Yanikian, un anziano armeno sopravvissuto al genocidio, aveva ucciso il console generale della Turchia Mehrnet Baydar e il viceconsole Bahadir Demir.
Per la prima volta gli armeni erano così ricorsi a un atto di violenza contro un funzionario dello Stato turco per ricordare al mondo il genocidio, da troppo tempo passato sotto silenzio. A parure dal 1975 si formano due organizzazioni terroristi-che armene: la prima, detta «Giustizieri del genocidio armeno», braccio armato del partito Dashnag, attenta alla vita dei diplomatici turchi all’estero e normalmente non fa altre vittime al di fuori di essi. L’altra, l’Armata Segreta Armena di Liberazione (abbreviata come ASALA), recluta le sue forze tra la gioventù armena di Beirut, ha legami con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e compie attentati generici, in Turchia e all’estero, contro società e gruppi turchi e anche privati cittadini (28).
Le azioni terroristiche dei due gruppi si moltiplicano lungo gli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80 in diverse città del mondo: a Vienna, Parigi, Beirut, Zurigo, Roma, Atene, Bruxelles, Londra, Madrid, Ginevra, Francoforte, L’Aia, Milano, Amsterdam, Berna, Marsiglia, Lione, Los Angeles, New York, Strasburgo, Sydney, Copenaghen, Teheran, Losanna, Ottawa, Dortmund, Boston, Lisbona, Rotterdam, Lussemburgo, perfino nell’Europa dell’Est (Bulgaria, Jugoslavia), e nella stessa Turchia (a Istanbul, Ankara, Izmir, Sassun); tra le azioni più clamorose, la presa di alcune rappresentanze diplomatiche turche, di uffici esteri di banche turche o della Turkish Airlines.
Attraverso questi attentati, la causa armena improvvisamente si impone all’attenzione mondiale e nel complesso riscuote stupore e interesse: fino a quel momento, infatti, il genocidio degli armeni era assolutamente sconosciuto alla ;. maggioranza dell’opinione pubblica di molti Paesi.
D’altra parte, alcuni attentati dell’ASALA suscitano un malcontento generalizzato contro gli armeni in molte parti del mondo. E’ il caso dell’attentato di Orly, nel luglio 1983. Inoltre le comunità della diaspora armena sono sempre più divise a causa del terrorismo, e alla lunga gli attentati offrono allo Stato turco l’occasione di presentarsi all’opinione pubblica nel ruolo di vittima. Ma a questo punto il terrorismo armeno si interrompe.
La posizione della Chiesa armena a proposito di queste azioni terroristiche è chiara. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese considera nel 1984: «La Chiesa armena, conformemente al ruolo che svolge nelle comunità armene del mondo intero, è l’interprete e il veicolo naturale della protesta armena contro il genocidio del 1915 come della richiesta armena di giustizia. A diverse riprese, essa ha disapprovato le azioni dei gruppi terroristici armeni.
Tuttavia, essa ha anche attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sul fatto che tali azioni sono le spiacevoli conseguenze della tragedia permanente di un popolo al quale è stata rifiutata la giustizia più elementare: il riconoscimento della realtà che contro di esso è stato perpetrato un crimine mostruoso».
Il terrorismo armeno degli anni 1975-1983 ha sicuramente riproposto la questione armena all’attenzione del grande pubblico. Tuttavia, il primo autorevole riconoscimento ufficiale del genocidio dopo questi fatti viene da ambienti ecclesiastici ed è dovuto molto più all’impegno della Chiesa armena che non all’impatto emotivo delle azioni terroristiche. Nell’agosto 1983 il Consiglio Ecumenico delle Chiese a Vancouver chiede alle istanze internazionali di riconoscere il genocidio degli armeni.
Proprio nell’estate 1983 termina il suo mandato di vicepresidente (1975-1983) del comitato centrale del Consiglio Ecumenico delle Chiese Karekin II, catholicos di Cilicia, che in seguito diverrà catholicos di tutti gli armeni, con il nome di Karekin I. L’impegno ecumenico del catholicos Karekin e di entrambe le sedi della Chiesa armena, unito agli sforzi diplomatici della diaspora, riescono a ottenere, lungo gli anni ’80 e ’90, il riconoscimento del genocidio da parte di molte istituzioni internazionali e Paesi.
Così il Tribunale permanente per i diritti dei Popoli, nella seduta della Sorbona (Parigi) del 13-16 aprile 1984, ha dichiarato ufficialmente che gli armeni sono stati vittime di genocidio da parte dei turchi durante la Prima Guerra mondiale.
La risoluzione del Tribunale dice: «Lo sterminio delle popolazioni armene con la deportazione e con il massacro costituisce un crimine imprescrittibile di genocidio ai sensi della “Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio” del 9 dicembre 1948. Il Governo dei «Giovani Turchi» è il colpevole di questo genocidio, per quanto concerne i fatti perpetrati dal 1915 al 1917. Il genocidio armeno è anche un “crimine internazionale” di cui lo Stato turco deve assumere la responsabilità, senza il pretesto, per sottrarsi, della discontinuità nella esistenza di questo Stato» (29).
Il 2 luglio 1985 Benjamin Whitaker, speaker straordinario della «Sottocommissione dell’ONU per la Prevenzione della Discriminazione e la Difesa delle Minoranze», nel proprio rapporto ufficiale all’ONU qualifica i fatti avvenuti in Turchia nel 1915 come genocidio; e il 18 giugno 1987 anche il Parlamento Europeo a Strasburgo riconosce il genocidio e pone alla Turchia il riconoscimento di esso come condizione per la sua domanda di ingresso nella Comunità Europea (30).
Oggi alcuni Paesi e Organizzazioni internazionali hanno ufficialmente riconosciuto e condannato il genocidio degli armeni. In ordine cronologico: Uruguay, Canada, Cipro, il Parlamento Europeo, Argentina, Russia, Grecia, Libano, Belgio, Francia, Svizzera e 36 Stati degli USA (31). Questi riconoscimenti ufficiali sono avvenuti soprattutto negli ultimi due decenni del XX secolo. La Russia ha riconosciuto il genocidio con una Dichiarazione della Duma del 14 aprile 1995, cioè ottant’anni dopo gli avvenimenti.
Gli ultimi riconoscimenti da parte di Stati europei appartengono alla Francia e alla Svizzera. Il Parlamento francese il 29 gennaio 2001 ha adottato all’unanimità una legge il cui testo accusa apertamente i turchi del genocidio compiuto contro il popolo armeno; Ankara ha subito richiamato l’ambasciatore da Parigi e per qualche mese le relazioni tra i due Paesi sono state tese. Il 16 dicembre 2003 il Parlamento svizzero ha adottato una risoluzione che riconosce il genocidio degli armeni; anche questa volta il governo turco ha minacciato ritorsioni diplomatiche e economiche.
IL NEGAZIONISMO TURCO
La Turchia moderna non riconosce né il genocidio in quanto tale, né i singoli eccidi. Con la fine dell’impero ottomano e la capitolazione del loro governo, molti «Giovani Turchi» scapparono in Germania e alcuni, in seguito, si rifugiarono in Russia. Dal febbraio 1919 al gennaio 1920 le autorità turche, sotto le insistenti pressioni delle potenze, organizzarono a Costantinopoli alcuni processi sulle stragi degli armeni. Il 6 luglio 1919 il tribunale condannò alla pena di morte «per il coinvolgimento della Turchia nella guerra mondiale e per l’organizzazione della deportazione di massa e della strage degli armeni» il ministro degli interni Talaat, quello della guerra Enver, quello della marina Djemal, e il ministro dell’istruzione e segretario generale del Partito dei «Giovani Turchi», dottor Nazim (32).
Tuttavia questi processi, benché abbiano condannato formalmente i responsabili, erano volti soprattutto a screditare il governo precedente dell’Ittihad e assolvere la nazione turca nel suo insieme. I «Giovani Turchi» condannati (funzionati del governo e militari) erano comunque per la maggior parte già all’estero; la Turchia ne chiese l’estradizione alla Germania, ma ebbe un rifiuto. Infine, ben presto il nuovo governo kemalista annullò tutti i verdetti.
L’unico colpevole a essere giustiziato dalle nuove autorità turche fu uno dei principali ideologi del genocidio, il dottor Nazim; tuttavia egli fu impiccato non per la partecipazione al genocidio degli armeni, ma per un attentato alla vita di Mustafà Kemal. I maggiori responsabili del genocidio sono comunque stati giustiziati. Infatti, fin dall’inizio degli anni ’20 il partito Dashnag forma un’organizzazione di giustizieri armeni chiamata Nemesis che uccide Talaat a Berlino il 15 marzo 1921, Djemal-pasha a Tiflis il 25 luglio 1922, il fondatore dell’Organizzazione Speciale Behaeddin Shakir a Berlino il 17 aprile 1922, oltre ai colpevoli del massacro di Trebisonda, dei pogrom di Baku e Shushi, e diversi altri dirigenti dell’Ittihad.
II giustiziere di Talaat, Solomon Teylirian, arrestato sul luogo del delitto, fu processato a Berlino nel giugno del 1921. Secondo il codice penale tedesco del momento, trattandosi di un omicidio intenzionale, Teylirian doveva essere condannato alla pena di morte. In più, la vittima era un governante in esilio di un Paese alleato alla Germania, il che rendeva la posizione dell’imputato ancora più difficile.
Tuttavia, le testimonianze sugli eccidi di scampati e testimoni oculari (tra i quali il pastore Johannes Lepsius), che risuonarono nel processo, furono così sconvolgenti, che la corte assolse pienamente Teyliran. Avvenne così che la «parte lesa» e l’imputato si scambiarono di posto e il processo contro Teyliran si trasformò di fatto in un processo contro Talaat: per la prima volta l’operato «Giovani Turchi» veniva condannato solennemente, dinanzi l’opinione pubblica mondiale.
L’argomento del genocidio degli armeni è in sostanza ancora tabù nella Turchia di oggi. La sua verità storica è generalmente negata, nonostante la gran quantità di prove oggi pubblicate in atto il mondo. I documenti turchi dell’epoca (telegrammi del governo con ordini di esecuzioni e deportazioni), che sono stati accuratamente studiati e la cui veridicità è accettata dal mondo intero, sono definiti falsi.
Le foto dei carnai sono spiegate come vittime turche della violenza armena. Ufficialmente si ammette solo una deportazione coatta e provvisoria degli armeni nel 1915 spiegandola con il fatto che, essendoci la Guerra e avanzando il fronte russo, gli armeni dovevano essere trasferiti per impedire che sostenessero i russi. In tal modo, la responsabilità della «spiacevole questione armena» (secondo l’espressione di Ismet Inonu, delegato turco alla Conferenza di Losanna), ovvero dei «trasferimenti preventivi» che il governo turco «fu costretto di organizzare», in ultima analisi è da attribuirsi ai russi, che intendevano utilizzare gli armeni come loro agenti.
Questa versione dei fatti è quella ufficiale del governo turco, fino ai nostri giorni. La falsità di questa presentazione degli avvenimenti salta agli occhi se si considera semplicemente la cronologia del genocidio. Innanzitutto, esso ha chiaramente inizio già nella seconda metà del XIX secolo, e lungo tutta la sua prima fase (1876-1914) si sviluppa in tempo di pace (ad eccezione degli anni 1877-1878), comunque molto prima delle prime avvisaglie della Guerra mondiale.
In quanto azione metodicamente organizzata esso entra in una nuova fase all’inizio del 1915, con la deportazione degli armeni di Zeytun e gli arresti dell’intellighenzia armena di Istanbul: si tratta quindi di due comunità lontanissime dal fronte russo e che non avevano particolari contatti con gli armeni orientali o con i russi.
Nel quadro della mobilitazione generale, progressivamente tutti i maschi armeni di età compresa tra i 18 e 60 anni furono arruolati nell’esercito ottomano. Come abbiamo visto, fin dall’inizio della Guerra essi furono disarmati, utilizzati in squadre di lavoro e infine eliminati. In tal modo, le comunità armene che il governo turco deportò per cosiddette ragioni di sicurezza militare – per evitare che si unissero al nemico -, in realtà erano costituite quasi esclusivamente da donne, vecchi e bambini.
Ciò è testimoniato anche da fonti ufficiali (diplomatiche e militari) degli alleati tedeschi. «In assenza di popolazione maschile – sono stati quasi tutti chiamati alle armi – come possono essere considerati pericolosi donne e bambini?», scrive nel rapporto al proprio governo il console tedesco di Aleppo, già nel luglio 1915.
Ed ecco quanto comunica al proprio comando militare il colonnello tedesco Stange, a capo di una divisione dell’Organizzazione Speciale: «A parte un numero irrisorio, tutti gli uomini armeni sani sono stati chiamati alle armi. Perciò non ci può essere alcuna ragione di temere veramente (34) una rivolta» (35).
Infine, l’argomento del «trasferimento provvisorio», affermato dalle autorità turche, assai mal concorda con la confisca dei beni degli armeni operata da esse all’indomani delle deportazioni. Oltretutto, i turchi non permisero mai il ritorno dei deportati: il «trasferimento provvisorio» fin dall’inizio era stato concepito come definitivo e irreversibile… In realtà, i governanti turchi hanno utilizzato la Guerra mondiale per portare a compimento un piano preesistente, ben organizzato e avviato da parecchio tempo: quello di liberarsi degli armeni per poi conseguire il sogno panturaniano di riunire tutti i popoli turchi in uno Stato monoetnico e monoconfessionale.
La prova ne è che le stragi sono iniziate prima della Guerra e si sono protratte ben oltre la fine del conflitto. La politica dei turchi lungo tutto questo periodo e, purtroppo, molto oltre, fu sempre coerente: soffocare, una dopo l’altra, le minoranza etniche armene, greche, bulgare, curde.
NEGAZIONE E MEMORIA
Il negazionismo turco però non si accontenta di negare la realtà del genocidio, ma vorrebbe cancellare dall’attuale Turchia perfino la memoria degli armeni. Così, lo Stato turco sovvenziona “studi” storici (sia di autori turchi che di prestanomi occidentali) volti a negare il genocidio. Ma il tentativo è più ambizioso: si cerca di riscrivere la storia in generale, minimizzando la presenza degli armeni in Anatolia.
Così le guide turistiche turche che fanno visitare la città di Ani (capitale dell’Armenia medievale, e poi per soli 19 anni occupata dai bizantini prima della conquista dei selgiuchidi), la presentano come una città greca, prima di essere turca… Gli armeni per millenni hanno vissuto nei tenitori conquistati dagli ottomani a partire dal XVI secolo. Per rivendicare il diritto dei turchi di occupare queste terre originariamente armene, si arriva a far discendere in maniera fantasiosa i turchi dagli ittiti.
Dalle carte geografìche turche spariscono i toponimi del tipo “Altopiano armeno” che diventa “Anatolia orientale”… Dietro il negazionismo turco sta innanzitutto la paura di una richiesta, da parte dell’opinione pubblica mondiale, di risarcimento economico o riparazione territoriale all’Armenia.
Infatti, in virtù della risoluzione 2391 del 26 novembre 1968 dell’ONU, il crimine del genocidio è imprescrittibile, ovvero non si estingue e resta perseguibile indipendentemente dal periodo di tempo trascorso dagli avvenimenti. Per quanto riguarda la responsabilità penale delle persone fisiche colpevoli di tale crimine, essa resta anche nel caso della loro già avvenuta morte. La sparizione dei responsabili del genocidio non può privare le vittime e i loro discendenti dal diritto al risarcimento, anch’esso imprescrittibile.
Ciononostante, il governo turco nel 1927 ha promulgato una legge che vietava l’ingresso in Turchia degli armeni sopravvissuti alla deportazione e da allora ha sistematicamente rifiutato ai sopravvissuti e ai loro discendenti O diritto di ritornare alle loro terre e rientrare in possesso dei loro beni o ricevere una compensazione (36).
Principio base del diritto è che un crimine continua finché durano i suoi effetti. Da questo punto di vista, come ritengono diversi giuristi, il crimine compiuto dal 1876 al 1923 durerà finché le terre armene saranno occupate e i beni di chi vi abitava saranno usurpati (37). Il genocidio in tal modo continua a perpetrarsi a livello psicologico, morale, culturale, come attentato all’identità stessa del popolo.
«Paradossalmente, l’esistenza di sopravvissuti rende la situazione, in certo senso, perfino più tragica, in quanto il genocidio continua, o può continuare, a vivere come una ferita perennemente sanguinante nella loro memoria collettiva. La continuazione del genocidio non è un problema che riguardi soltanto i immediati sopravvissuti né solo i loro figli – la seconda generazione di sopravvissuti – ma spesso ha un impatto molto reale e forte sulle generazioni a venire finché la tragedia è mantenuta viva nella loro memoria collettiva» (38).
Il riconoscimento del genocidio da parte della Turchia comporterebbe la rimessa in discussione dei tre regimi di Abdul-Hamid, dei «Giovani Turchi» e di Kemal. Ma se AbduI-Hamid è ufficialmente presentato all’opinione pubblica turca come un personaggio negativo, i due governi che lo hanno seguito sono visti positivamente dai turchi di oggi. Talaat-pasha è sepolto a Istanbul nella «collina dei martiri»; quanto a Ataturk, padre della Turchia moderna, la sua autorità morale è assolutamente intoccabile.
Inoltre una rinuncia inequivocabile e definitiva al panturanismo pare ai nostri giorni ancor meno verosimile che in tempi recenti, dato che dopo l’autonomia delle repubbliche turaniche dell’URSS questa ideologia, benché in una forma diversa, conosce oggi una nuova stagione. Infine, ammettere che i governanti turchi abbiano commesso, nei confronti degli armeni un tempo loro concittadini, un «crimine contro l’umanità», può avere serie conseguenze nella realtà della Turchia di oggi.
Non si deve dimenticare che il problema curdo è tuttora irrisolto, e la causa curda, pur essendo diversa da quella armena per via del carattere nomade di questo popolo, riceverebbe comunque un sostegno indiretto da un riconoscimento mondiale del genocidio armeno. Tuttavia, nonostante le autorità turche abbiano cercato finora con ogni mezzo di negare il genocidio armeno e condannare alla dimenticanza questi avvenimenti, negli ultimi tempi la società civile turca mostra timidi ma importanti segni di interesse alla causa armena.
La .più giovane generazione di storici, sociologi e politologi turchi (specialmente quelli che hanno fatto i loro studi all’estero) comincia a rivedere la storia nazionale e di conseguenza ad affrontare la questione circa il genocidio degli armeni in maniera differente. Lo studioso turco (ma residente all’estero) Taner Akçam, autore di numerosi studi sulla questione armena, già da tempo si batte per il riconoscimento del genocidio da parte della Turchia. Tale posizione è condivisa (più o meno apertamente) da alcuni insegnanti delle Università di Istanbul, Ankara e di altri atenei turchi.
L’editrice dissidente Ayşe Nur Sarisözen Zarakolu (morta nel 2002) e il marito Ragip Zarakolu fin dal 1993 hanno pubblicato in lingua turca libri di autori stranieri sul genocidio degli armeni: di Yves Ternon (II tabu armeno), Vahagn Dadrian (Il genocidio dal punto di vista del diritto nazionale e internazionale), Franz Werfel (I 40 giorni di Mussa Dagh); per questa ragione essi hanno subito persecuzioni fino al 1997 e più volte sono stati arrestati e imprigionati.
Oggi in Turchia, accanto alle numerosissime pubblicazioni che riflettono la posizione ufficiale dello Stato, esiste già un minimo di letteratura che non nega la realtà storica del genocidio. Si tratta soprattutto di traduzioni di opere di specialisti stranieri (p.e. V. Dadrian, Il ruolo delle organizzazioni internazionali nel genocidio degli armeni, 2004), dei libri di Taner Akçam (L’identità turca e la questione armena, 1992; I diritti dell’uomo e la questione armena, 1999; Finché il tabù armeno non è svelato. Che soluzione oltre al dialogo?, 2000), dei lavori degli storici di Ankara Taner Timur (p.e. Turchi e armeni. Il 1915 e le conseguenze, 2001), di Istanbul Halil Berktay e di qualche altro studioso indipendente che lavora in Turchia.
Oggi anche nelle belle lettere turche si può osservare un certo interesse alla questione armena. Il celebre scrittore Orhan Pamuk (in passato candidato turco al premio Nobel), nel suo recente romanzo La neve (Kar, 2002) (39), ambientato nella città di Kars, non senza una certa nostalgia fa menzione delle chiese e delle costruzioni armene, come testimonianze di un’epoca di splendore culturale ormai perduta. Nel febbraio del 2005 Orhan Pamuk è stato al centro di una campagna di stampa denigratoria, condotta dai maggiori mass media turchi, per aver detto in un’intervista a un giornale svizzero che in Turchia nel 1915-1916 furono ammazzati un milione di armeni.
Il romanziere dissidente Kemal Yalcin nel suo libro Con te sorride il mio cuore (Seninle Güler Yüreğin) parla estesamente dei cosiddetti “criptoarmeni”, cittadini della Turchia di oggi, discendenti di quegli armeni che riuscirono a scampare alle stragi a prezzo della rinuncia alla loro identità nazionale e religiosa. Ma la storia stessa dell’edizione di questo libro, come ha messo in evi-denza l’armenista italiano Aldo Ferrari, mostra in maniera eloquente quanto, ancora oggi, in Turchia tutto ciò che riguarda la questione armena resti estremamente problematico.
«Il libro di Kemal Yalcin avrebbe dovuto essere pubblicato già nel 2000 dall’editore Dogan di Istanbul, con una tiratura di 3.000 copie ed un forte battage pubblicitario che prevedeva tra l’altro anche un film documentario. Pochi giorni prima della pubblicazione, l’autore fu invece informato dall’editore che per “istruzioni dall’alto” il libro non avrebbe potuto vedere la luce. Lo scrittore decise allora di pubblicarlo a sue spese in Germania, a Bochum, dove vive attualmente. La prima edizione fu esaurita in breve tempo; seguirono una seconda edizione e l’inizio delle traduzioni in tedesco, armeno e inglese. Nel 2002 Kemal Yalçin si recò a Istanbul per discutere con l’editore del suo volume, ma questi gli spiegò di aver unilateralmente cancellato il contratto, mostrando anche un atto notarile che attestava l’avvenuta distruzione dell’intera tiratura, 3.000 copie» (40).
Questa storia non è che un esempio degli abusi che spesso in Turchia devono subire quanti osano trattare un tema così scomodo per le autorità.