di Giovanni Guaita
La Turchia moderna nel XX secolo ha avuto un ruolo unico che le ha garantito, se non la simpatia, almeno il sostegno di gran parte della diplomazia internazionale. Stato musulmano non arabo e “laico”, essa si è posta ad alternativa importante per l’Occidente al fondamentalismo islamico. Inoltre, alleata degli americani e membro della NATO, ha costituito il più sicuro baluardo in Medioriente contro il comunismo sovietico.
Certamente, il fatto che gli Stati moderni e l’opinione pubblica internazionale non abbiano a suo tempo, né perseguito giuridicamente le autorità turche, né condannato adeguatamente il primo grande genocidio del XX secolo, è una delle cause per le quali nuovi crimini dì genocidio e innumerevoli altri tentativi di «pulizie etniche» si sono ripetuti fino alla fine del millennio.
Il 22 agosto 1939, alla vigilia dell’invasione della Polonia, Hitler diceva agli ufficiali superiori del III Reich: «La nostra forza sta nella nostra rapidità e nella nostra brutalità. È con coscienza e a cuor leggero che Gengis Khan ha mandato a morte migliaia di donne e bambini. E la Storia non vede in lui che il grande fondatore di uno Stato (…). Ho dato l’ordine a unità speciali delle SS di mandare a morte senza rimpianti e senza pietà uomini, donne e bambini di origini e lingua polacca. Soltanto così otterremo lo spazio vitale di cui abbiamo bisogno. Chi parla ancora oggi dello Sterminio degli armeni?».
Diversi storici si rifanno a queste espressioni per paragonare i due più grandi genocidi del XX secolo. Tuttavia, le parole del Führer non si riferiscono allo sterminio degli ebrei, ma all’invasione tedesca della Polonia; inoltre, l’autenticità di questa frase, che non figura nel testo ufficiale di quel discorso di Hitler, è stata messa in dubbio. Alcuni testimoni, comunque, sostengono che il Führer anche in altre occasioni si sia riferito al genocidio degli armeni (41).
Comunque stiano le cose, se anche queste testuali parole dovessero non essere state pronunciate apertamente da Hitler, tale senza dubbio dovette essere la logica spietata di quanti si resero responsabili dello sterminio degli ebrei, degli zingari e di altri popoli durante la Seconda Guerra mondiale. Ciò mostra chiaramente che i crimini contro interi popoli, che non ricevono una condanna inequivocabile ed esplicita da parte dell’opinione pubblica mondiale, sciolgono le mani ad altri carnefici e portano a nuovi e peggiori delitti contro persone innocenti. In questo senso, il genocidio degli armeni, che mise in guardia il mondo circa il pericolo imminente del nazismo – e, purtroppo, non fu ascoltato -, può senz’altro essere considerato anche un’anticipazione e una causa remota dell’Olocausto del popolo di Israele.
Quel testimone d’eccezione dei due grandi genocidi del XX secolo che fu il tedesco Armin Wegner vedeva molto chiaramente il loro legame. Scriveva infatti, molto più tardi: «All’inizio degli anni ’20, quando il testimone di questi orrori, immaginando che qualcosa di simile potesse succedere anche in Occidente, illustrava quanto aveva visto con una gran quantità di fotografie e tutti i documenti che aveva potuto raccogliere nei lager della morte, gli abitanti della Germania e dei paesi vicini, conosciuti quei fatti, furono presi dalla paura, ma pensarono tranquillamente: il deserto dell’Arabia… è così lontano!».
Molti parallelismi corrono tra la fase più terribile del genocidio degli armeni (le deportazioni e le stragi degli anni 1915-1923) e quello degli ebrei durante il nazismo (42). Entrambi questi crimini sono stati compiuti in concomitanza con un grande conflitto (le Guerre mondiali) al fine di passare inosservati o di rendere improbabile e difficile l’intervento degli altri Paesi.
Sotto numerosi aspetti, il partito dei «Giovani Turchi» e l’Organizzazione Speciale sono paragonabili al partito nazista e alle SS, così come simili sono i loro rapporti: materialmente le deportazioni sono compiute da un corpo paramilitare non sottoposto a controllo se non da parte del partito, ma lo Stato in quanto tale rimane come estraneo alle brutalità.
In entrambi i casi, notevole è la disciplina interna degli esecutori del genocidio e nel contempo la disinformazione degli amministratori statali. Ancora, comune è l’utilizzo di un’ideologia nazionalistica e la creazione di un’atmosfera sociale ostile ai perseguitati, accusati di complotti a danno dello Stato. Infine, identico è il metodo di realizzazione, il copione del genocidio: dalle confessioni di complotti estorte sono tortura, all’arresto dell’intellighenzia, all’immediata esecuzione dei giovani e di chi poteva opporsi, alla deportazione di tutti gli altri.
Ma il genocidio degli armeni ha avuto un’unicità che lo distingue da quello degli ebrei, a parte il fatto di essere stato il primo (di tale portata) di una purtroppo lunga serie (43), e a parte il fatto di essere stato il più lungo nella sua esecuzione (44). A differenza della Shoah, il Metz Yeghern è avvenuto nella patria storica stessa del popolo sterminato, l’Armenia occidentale, dove gli armeni avevano abitato per più di tremila anni. Uno dei risultati del genocidio, oltre allo sterminio della popolazione, è quello di aver privato l’Armenia di circa nove decimi della sua terra e di aver forzato i pochi superstiti alla dispersione per il mondo intero.
L’Armenia occidentale, riconosciuta oggi dalla comunità internazionale come territorio turco, è culla dell’antichissima civiltà armena e ne è sempre stata la residenza; qui è il monte Ararat, al-. l’ombra del quale essa ha avuto origine, qui sono fiorite le antiche i capitali di Tushpa, Van, Tigranakert, Ani. Ciò significa che questo popolo, oltre ad essere stato quasi annientato, è stato forzato ad abbandonare definitivamente la terra in cui aveva sempre vissuto.
«Ciò che diventa subito evidente a chiunque si occupi del caso armeno – ha scritto B.L. Zekiyan – è il completo sradicamento di un intero popolo dalla sua patria, dal suo Paese ancestrale dove la sua identità, lingua, cultura e genio si sono formati e espressi in un processo continuo di circa tremila anni di storia. Ciò che ci pare essere la peculiarità più caratteristica di questo sradicamento è che non si tratta in alcun modo di una situazione solamente di fatto, ma di un’autentica proscrizione de jure e del tutto violenta dalla propria terra: è una condizione di esilio che si rinnova perpetuamente fìntanto che l’immagine della patria non è cancellata dalla memoria collettiva del popolo» (45).
STORICIDIO E CULTURICIDIO
La Turchia moderna nel XX secolo ha avuto un ruolo unico che le ha garantito, se non la simpatia, almeno il sostegno di gran parte della diplomazia internazionale. Stato musulmano non arabo e “laico”, essa si è posta ad alternativa importante per l’Occidente al fondamentalismo islamico. Inoltre, alleata degli americani e membro della NATO, ha costituito il più sicuro baluardo in Medioriente contro il comunismo sovietico.
Certamente, il fatto che gli Stati moderni e l’opinione pubblica internazionale non abbiano a suo tempo, né perseguito giuridicamente le autorità turche, né condannato adeguatamente il primo grande genocidio del XX secolo, è una delle cause per le quali nuovi crimini dì genocidio e innumerevoli altri tentativi di «pulizie etniche» si sono ripetuti fino alla fine del millennio
.Il 22 agosto 1939, alla vigilia dell’invasione della Polonia, Hitler diceva agli ufficiali superiori del III Reich: «La nostra forza sta nella nostra rapidità e nella nostra brutalità. È con coscienza e a cuor leggero che Gengis Khan ha mandato a morte migliaia di donne e bambini. E la Storia non vede in lui che il grande fondatore di uno Stato (…). Ho dato l’ordine a unità speciali delle SS di mandare a morte senza rimpianti e senza pietà uomini, donne e bambini di origini e lingua polacca. Soltanto così otterremo lo spazio vitale di cui abbiamo bisogno. Chi parla ancora oggi dello Sterminio degli armeni?».
Diversi storici si rifanno a queste espressioni per paragonare i due più grandi genocidi del XX secolo. Tuttavia, le parole del Führer non si riferiscono allo sterminio degli ebrei, ma all’invasione tedesca della Polonia; inoltre, l’autenticità di questa frase, che non figura nel testo ufficiale di quel discorso di Hitler, è stata messa in dubbio. Alcuni testimoni, comunque, sostengono che il Führer anche in altre occasioni si sia riferito al genocidio degli armeni (41).
Comunque stiano le cose, se anche queste testuali parole dovessero non essere state pronunciate apertamente da Hitler, tale senza dubbio dovette essere la logica spietata di quanti si resero responsabili dello sterminio degli ebrei, degli zingari e di altri popoli durante la Seconda Guerra mondiale.
Ciò mostra chiaramente che i crimini contro interi popoli, che non ricevono una condanna inequivocabile ed esplicita da parte dell’opinione pubblica mondiale, sciolgono le mani ad altri carnefici e portano a nuovi e peggiori delitti contro persone innocenti. In questo senso, il genocidio degli armeni, che mise in guardia il mondo circa il pericolo imminente del nazismo – e, purtroppo, non fu ascoltato -, può senz’altro essere considerato anche un’anticipazione e una causa remota dell’Olocausto del popolo di Israele.
Quel testimone d’eccezione dei due grandi genocidi del XX secolo che fu il tedesco Armin Wegner vedeva molto chiaramente il loro legame. Scriveva infatti, molto più tardi: «All’inizio degli anni ’20, quando il testimone di questi orrori, immaginando che qualcosa di simile potesse succedere anche in Occidente, illustrava quanto aveva visto con una gran quantità di fotografie e tutti i documenti che aveva potuto raccogliere nei lager della morte, gli abitanti della Germania e dei paesi vicini, conosciuti quei fatti, furono presi dalla paura, ma pensarono tranquillamente: il deserto dell’Arabia… è così lontano!».
Molti parallelismi corrono tra la fase più terribile del genocidio degli armeni (le deportazioni e le stragi degli anni 1915-1923) e quello degli ebrei durante il nazismo (42). Entrambi questi crimini sono stati compiuti in concomitanza con un grande conflitto (le Guerre mondiali) al fine di passare inosservati o di rendere improbabile e difficile l’intervento degli altri Paesi. Sotto numerosi aspetti, il partito dei «Giovani Turchi» e l’Organizzazione Speciale sono paragonabili al partito nazista e alle SS, così come simili sono i loro rapporti: materialmente le deportazioni sono compiute da un corpo paramilitare non sottoposto a controllo se non da parte del partito, ma lo Stato in quanto tale rimane come estraneo alle brutalità.
In entrambi i casi, notevole è la disciplina interna degli esecutori del genocidio e nel contempo la disinformazione degli amministratori statali. Ancora, comune è l’utilizzo di un’ideologia nazionalistica e la creazione di un’atmosfera sociale ostile ai perseguitati, accusati di complotti a danno dello Stato. Infine, identico è il metodo di realizzazione, il copione del genocidio: dalle confessioni di complotti estorte sono tortura, all’arresto all’immediata esecuzione dei giovani e di chi poteva opporsi, alla deportazione di tutti gli altri.
Ma il genocidio degli armeni ha avuto un’unicità che lo distingue da quello degli ebrei, a parte il fatto di essere stato il primo (di tale portata) di una purtroppo lunga serie (43), e a parte il fatto di essere stato il più lungo nella sua esecuzione (44). A differenza della Shoah, il Metz Yeghern è avvenuto nella patria storica stessa del popolo sterminato, l’Armenia occidentale, dove gli armeni avevano abitato per più di tremila anni. Uno dei risultati del genocidio, oltre allo sterminio della popolazione, è quello di aver privato l’Armenia di circa nove decimi della sua terra e di aver forzato i pochi superstiti alla dispersione per il mondo intero.
L’Armenia occidentale, riconosciuta oggi dalla comunità internazionale come territorio turco, è culla dell’antichissima civiltà armena e ne è sempre stata la residenza; qui è il monte Ararat, al-. l’ombra del quale essa ha avuto origine, qui sono fiorite le antiche i capitali di Tushpa, Van, Tigranakert, Ani. Ciò significa che questo popolo, oltre ad essere stato quasi annientato, è stato forzato ad abbandonare definitivamente la terra in cui aveva sempre vissuto.
«Ciò che diventa subito evidente a chiunque si occupi del caso armeno – ha scritto B.L. Zekiyan – è il completo sradicamento di un intero popolo dalla sua patria, dal suo Paese ancestrale dove la sua identità, lingua, cultura e genio si sono formati e espressi in un processo continuo di circa tremila anni di storia. Ciò che ci pare essere la peculiarità più caratteristica di questo sradicamento è che non si tratta in alcun modo di una situazione solamente di fatto, ma di un’autentica proscrizione e del tutto violenta dalla propria terra: è una condizione di esilio che si rinnova perpetuamente fìntanto che l’immagine della patria non è cancellata dalla memoria collettiva del popolo» (45).
Con il genocidio, la trimillenaria cultura armena è stata sradicata, calpestata. La scomparsa degli armeni dall’Anatolia ha significato anche la scomparsa delle loro città, chiese, scuole, biblioteche, monasteri, università. Il genocidio ha causato un danno irreparabile anche alla letteratura armena e universale: durante le ruberie e gli incendi che hanno accompagnato la deportazione sono stati distrutti manoscritti antichissimi e unici. Grazie alla venerazione degli armeni” per il loro patrimonio culturale è stata salvata una piccola parte di libri antichi: a volte i deportati li nascondevano seppellendoli sotto la sabbia, lungo le vie della deportazione.
A partire dal 1920 la Turchia ha trasformato in moschee centinaia di chiese e monasteri armeni, ma soprattutto ha distrutto o lasciato cadere in rovina monumenti secolari della cultura armena. Al momento dell’entrata in guerra dell’impero ottomano, nel 1914, in Turchia esistevano 210 monasteri armeni, 700 chiese maggiori e 1.639 chiese parrocchiali. Nel 1974 delle 913 chiese armene ancora conosciute in Turchia, 464 erano totalmente distrutte, 252 ridotte a rovine e solo 197 in stato relativamente decente. Nei decenni che seguirono molti altri monumenti dell’arte armena rimasti in territorio turco sono stati distrutti.
Tra le chiese e i monasteri scomparsi e distrutti sono anche centri di fondamentale importanza per la cultura armena e universale, come gli innumerevoli monasteri che punteggiavano le rive del lago di Van, simili a quello dove visse e operò Gregorio di Narek (46), in pessimo stato sono autentici capolavori di architettura, come le celebri chiese di Ani o il gioiello della chiesa di Santa Croce di Aghtamar, con la straordinaria sinfonia dei suoi bassorilievi. Nello stesso stato di abbandono e profanazione sono i monumenti armeni dei tenitori attribuiti dal potere sovietico all’Azerbaigian, per esempio nel Nakhitchevan (47).
La Turchia teme la muta testimonianza dei capolavori dell’architettura armena. Ha per questo creato zone vietate ai turisti. Dagli anni ’20 del XX secolo lo studio dei monumenti di architettura armeni in territorio turco è stato praticamente vietato o comunque impedito. Gli storici e architetti locali ricorrono sfacciatamente alla menzogna, arrivando ad attribuire al popolo turco capolavori architettonici armeni anche universalmente conosciuti.
Insomma, il genocidio degli armeni a cavallo tra XIX e XX secolo, oltre ad avere barbaramente privato della vita due milioni di esseri umani dopo atroci tormenti, sparpagliato i sopravvissuti per il resto del mondo, derubato un popolo di nove decimi della sua patria storica, ha anche causato un enorme danno alla cultura: tanto armena che universale. Anche per questo esso deve essere considerato un crimine contro l’umanità tutta intera.
Infine, sempre relativamente al danno culturale, oltre alla repentina scomparsa di grandissima parte dell’intellighenzia armena di Costantinopoli nell’aprile 1915, le violenze di quell’anno hanno avuto anche conseguenze più remote, come la morte per follia del musicista armeno Komitas a Parigi nel 1935: il Metz Yeghern ha fatto, a distanza di anni, ancora una vittima; e chissà quante altre, sconosciute agli storici… Ma se il genocidio, a vent’anni di distanza, ha causato la morte fisica di Komitas, esso, già molto prima, ha privato la cultura mondiale di questo genio musicale, spegnendone per sempre il talento.
Infatti, dopo gli orrori di cui fu testimone in Turchia nel 1915, Komitas non compose più (48). E come avrebbe potuto? Dotato di una sensibilità straordinaria, questo geniale musicista e santo sacerdote visse, in maniera tragica, la stessa esperienza di cui Armin Wegner scriveva alla madre dalla Turchia, durante il genocidio: «Posso io ancora vivere? Ho ancora il diritto di respirare, di fare progetti per anni futuri così fantasticamente irreali, quando attorno a me c’è un abisso di occhi morti?» (49) .