INTRODUZIONE al SEMINARIO ESTIVO di ALLEANZA CATTOLICA:
il «marxismo-leninismo-gramscismo».
di Umberto Bringheli
Detto altrimenti: cosa impedisce che la credenza di avere dalla propria parte le leggi bronzee dell’economia, anche se ciò non è vero, abbia sui rivoluzionari – purchè fortemente convinti, e, soprattutto, purché riescano ad infondere quella fede fanatica nei loro seguaci – la stessa forza di spingerli a tutto osare, che ha avuto sui cristiani la credenza nella Divina Provvidenza, indipendentemente dall’esistenza o inesistenza di Dio? E, si badi, (…) Gramsci – che intendeva riferirsi in particolare all’Italia e in generale ai Paesi occidentali – chiariva come la scorciatoia del volontarismo e del mito, il primato della coscienza sull’essere, della politica sull’economia, del potere sulle leggi spontanee di sviluppo della società, della fede sulla scienza (…) si rendeva indispensabile» [1].
E sin qui siamo ancora nell’ambito «volontarista» del paradigma leniniano. In più, rispetto ad una concezione positivista del materialismo – potremmo dire «engelsiana» – nell’italiano Gramsci prevale quella dialettica, per la quale le basi materiali dell’esistenza («l’essere») sono condizionate, se non determinate, dalle idee, dal pensiero, dalla cultura («la coscienza») [2]. Perciò, secondo il suo pensiero, in quei paesi sviluppati e civilizzati socialmente e politicamente, in cui la «via militare», golpistica, non è quella giusta, o almeno non basta, si pone l’esi-genza di conquistare l’anima della società prima ancora del suo corpo.
In mondi ricchi di storia, di articolazione e stratificazione sociale e culturale, dunque, la conquista del potere politico non basta, e men che meno è possibile mirarvi attraverso tecniche golpistiche e/o insurrezionali: la società ha una sua soggettività che la rende capace di reazione e resistenza tali da poter infliggere alla Rivoluzione una storica sconfitta. Occorre allora pazientemente conquistarla dal di dentro: se in Russia la Rivoluzione «dall’alto» – dal Palazzo alla società civile – era stata possibile, anzi era l’unica possibile, «altrove» la Rivoluzione deve procedere «dal basso», anche accettando sul piano politico un lungo periodo di «guerra di posizione» [3].
Gramsci, riecheggiando tematiche tipiche di un certo pensiero che potremmo definire reazionario [4], distingue tra «società politica» («paese legale», il Palazzo, i luoghi del potere politico-burocratico-amministrati-vo), e «società civile» («paese reale», corpi sociali intermedi, i luoghi dell’autorità e delle gerarchie spontanee o naturali).
Si deve conquistare l’egemonia su quest’ultima per essere in condizione di cogliere finalmente il potere politico come un frutto maturo, senza dover poi temere alcun sussulto reattivo [5]: ed intanto, altro vantaggio di questa strategia, la Rivoluzione è già in corso nel profondo della vita sociale, e la successiva conquista anche del potere politico serve a proteggerla nelle sue realizzazioni, a consolidarle e ad accelerarne il processo.
La scelta insurrezionale, dunque, per il PCI, diventa una subordinata eventuale, e non per ragioni di principio o etiche – bandite per definizione – ma perché giudicata inadeguata alla realtà italiana [6], e cioè perdente [7]. E se qualcuno se ne dimentica o non lo comprende, lo stesso Stalin (Josif Vissarianovic Dzugašvili, 1879-1953) («che temeva in particolare una rivoluzione prematura» [8]) provvede a ricordarglielo: «Il 26 marzo [1948] Molotov telegrafò a Kostylev la risposta del Comitato Centrale sovietico per Togliatti: (…) “per quanto riguarda la presa del potere attraverso una insurrezione armata consideriamo che il PCI in questo momento non può attuarla in nessun modo”» [9].
La cosiddetta «svolta di Salerno», e cioè la decisione di collaborare con la monarchia e con il governo di Pietro Badoglio (1871-1956) accettando di farne parte, comunicata da Togliatti ai suoi allorché rientra in Italia dopo quasi venti anni di assenza nel marzo ’44, con la quale spegne ogni velleità insurrezionale («trasformare la guerra civile – la cosiddetta Resistenza – in guerra Rivoluzionaria») è voluta da Stalin stesso, e comunicata ad un Togliatti che ancora pensava all’insurre-zione nel corso di un colloquio al quale è presente Georgi Dimitrov (1882-1949), il potente segretario del Comintern, che lo attesta nei suoi diari: «L’interpretazione della svolta come un atto di indipendenza da parte di Togliatti nei confronti della (…) linea politica di Stalin si dimostra soltanto un mito politico» [10].
Tuttavia, il Partito conserva quell’apparato clandestino illegale ed armato [11] la cui esistenza ed organizzazione era condizione di adesione alla Terza Internazionale [12]: in occasione della riunione costitutiva del Cominform a Szklarska Poreba il 22-27 settembre 1947, «Longo con dignità e una certa fierezza, “Vi assicuro” dice fra l’altro “che il nostro partito dispone di un apparato clandestino di speciali squadre che sono dotate, per il momento in cui sarà necessario, di ottimi comandanti e di adeguato armamento”» [13].
E tutto questo è reso possibile anche da una certa benevolenza complice della polizia, che nel 1946, come Togliatti riferisce all’ambasciatore sovietico a Roma, «lascia in pace le forze di sinistra e nello stesso tempo dimostra il suo attivismo nel perseguire e liquidare l’attività dei fascisti e dei monarchici.
Se la polizia di Roma avesse voluto in questi giorni dare un’occhiata a cosa succede in certe sezioni dei partiti di sinistra avrebbe scoperto alcuni seri mezzi di difesa» [14] (non è da escludere che «l’apparato», come i comunisti chiamavano la loro organizzazione armata clandestina [15], «inabissatosi», sia poi riemerso all’epoca del terrorismo prima gruppuscolare e poi professionalmente organizzato [16]). Ma, lo si ripete, la prospettiva insurrezionale e l’azione violenta rimangono una subordinata, utile comunque la seconda, e quindi da agitare periodicamente, per intimorire il «nemico di classe».
L’egemonia di cui parla Gramsci non si caratterizza come direzione esplicita ovvero come infiltrazione: la sua essenza è l’influenza, la penetrazione «radioattiva» nella società per informarne la mentalità, il costume, la cultura. Ma è anche modalità di condizionamento dei centri di decisione e delle polarità di potere attraverso la sapiente creazione di un clima ostile, ovvero favorevole a determinati orientamenti: il partito, moderno principe che organizza i suoi intellettuali organici, cioè coloro che preparano la giustificazione ai suoi gesti, si trasforma in gigantesco agente d’influenza, senza tuttavia trascurare il compito di conquistare, là dove è possibile, le «casematte del potere borghese».
Tipico, da questo punto di vista, è il coordinamento tra l’opera di infiltrazione (facile perché vi si accede per concorso e quindi non è necessario conquistarsi un consenso) e la conquista dell’egemonia sul potere giudiziario: ordine senza vertice gerarchico e quindi luogo ideale di sperimentazione di un potere di fatto, di direzione o orientamento piuttosto che di dominio, a prescindere da qualsiasi titolarità formale ed istituzionale di un posto di comando.
Senza che sia necessaria una qualsivoglia disposizione espressa, e spesso seguendo l’esempio di «avanguardie» costituite da veri e propri infiltrati, la magistratura italiana si allinea periodicamente a determinati orientamenti: lassisti quando si tratta di «spezzare l’apparato repressivo dello Stato» o di proteggere i «socialmente e politicamente vicini»; duri e giustizialisti quando si tratta di colpire i «nemici dell’ordine e della legalità» progressisti e i «fascisti», ovvero quando si tratta di abbattere «legalmente» un potere costituito avversato [17].
Altrettanto tipico, se non di più, è il processo di conquista dell’egemonia sui centri di elaborazione e diffusione dell’istruzione, dell’ educazione, dell’informazione e della cultura popolare: dall’asilo all’Uni-versità, dai mass media ad ogni forma di spettacolo, massime quello cinematografico, mentre i sedicenti anticomunisti governano, da titolari dei ministeri competenti, badando al piccolo cabotaggio di un clientelismo miserabile, il PCI orienta sempre di più e sempre meglio questi pedagoghi di massa.
Né vengono trascurati, dallo sforzo di egemonizzarli, i poteri economici e sindacali, e nemmeno quello ecclesiastico, cioè quello della Chiesa-soggetto sociale, opinion-maker. Trascuro qui di esaminare il ruolo «tri-bunizio» del partito [18], che comunque sembra avere soprattutto un fine «promozionale».
Si può dire che mentre Lenin, nella sua realtà sociale, si poteva accontentare di instaurare un potere sui corpi, pretendendo, ed ottenendo con i più atroci mezzi terroristici, l’obbedienza esteriore, tale obiettivo non è consigliabile, perché difficilmente conseguibile, in società altamente sviluppate ed articolate, tanto dal punto di vista culturale che da quello socioeconomico, con una pluralità di soggetti sociali attivi, radicati e corporativamente coesi, oltre che culturalmente coscienti della propria identità. Pertanto per ottenere l’obbedienza esteriore occorre passare per quella interiore e dirigere le coscienze.
Se a Lenin, almeno inizialmente, basta che «si faccia quel che lui vuole», per Gramsci è indispensabile che «si pensi come lui vuole»: questo è il significato di «quel tutto è politica» [19], che elimina ogni ambito neutro e sottratto al pubblico controllo, prefigurando un totalitarismo tanto più insopportabile e tremendo, quanto più sottile, «democratico» ed esteriormente inavvertito: il soggetto non reagisce non perché imprigionato, ma perché persuaso a rimanere immobile; non viene ucciso, ma si uccide; non viene censurato, ma si auto-censura.
La lotta per l’egemonia interna.
Ma poiché nemo dat quod non habet, se il partito vuole conquistare l’egemonia sulla società, esso deve innanzitutto «egemonizzare» se stesso, cioè ottenere al proprio interno il controllo del modo di pensare e di essere dei militanti: «Il PCI (…) è l’avanguardia organizzata e cosciente della classe operaia (…) comprende i migliori elementi della classe dotati di vasta esperienza, di spirito di sacrificio e di devozione illimitata (…). Il partito deve essere il cervello pensante che sa dove, come e quando muoversi e in quale direzione, senza tuttavia perdere mai il collegamento con le masse, senza essere cioè troppo innanzi ad esse» [20].
Ma questo è un obiettivo, piuttosto che una realtà di fatto, allorché il partito passa dalle poche migliaia di iscritti (circa tremila) degli anni trenta, ai due milioni del 1948: come perseguirlo?
La modalità organizzativa non rinuncia al paradigma leninista: la coorte di ferro, ben disciplinata e gerarchicamente costituita, sebbene adattata ai tempi (non v’è più la clandestinità che favorisce una struttura rigida), ed ai luoghi (l’Italia, ça va sans dire, non è la Russia). La formazione del militante, la sua fedeltà alla linea, la sua capacità di essere un rivoluzionario di professione, ancorché alla ricerca dell’egemonia piuttosto che dell’insurrezione armata, sono esigenze irrinunciabili da soddisfare inderogabilmente.
Si distingue, però, di fronte al carattere di massa assunto dal partito, tra «dirigenti» – i veri rivoluzionari di professione – e compagni di base, dai quali si pretende di meno (in ogni caso, sempre tantissimo a fronte di quanto si è preteso – ed ottenuto – dai militanti di base degli altri partiti). La formazione degli uni e degli altri viene curata, con modalità evidentemente diverse, ma, ciascuna nel suo genere, ugualmente rigorose, allo scopo di «assicurare a tutti almeno quel tanto di marxismo-leninismo di cui non si poteva fare a meno per comprendere la linea del partito (…). C’erano almeno due ordini di problemi da risolvere: quello dell’omogeneità del sapere da trasmettere (…) e l’altro della maggiore semplificazione possibile dei processi di divulgazione (…). Chiunque avesse già posseduto una preparazione culturale (…) sarebbe stato inviato a Mosca o, almeno, all’“università” italiana del Partito, la Scuola centrale quadri A. Zdanov di Roma. Ma per la massa (…) era necessario organizzare un lavoro didattico-ideologico più diretto, rapido, capillare, essenziale ed efficace. (…) La strumentazione della didattica fu affidata a una rete (…) di “scuole” provinciali e regionali (…) che organizzavano (…) corsi e seminari di formazione politica ed ideologica. (…) le scuole di partito (…) perseguivano [il fine] di una vera e propria ristrutturazione della personalità umana e intellettuale degli allievi. Questi, distribuiti in “brigate di studio” (…) erano chiamati tra l’altro a compiere un fondamentale atto di verifica della loro conseguita maturità marxista-leninista: l’autocritica, ovvero la pubblica confessione dei loro limiti personali e degli errori ideologici o politici commessi in tempi più o meno vicini. (…) L’avvenuta nascita dell’uomo nuovo, pronto alla professione rivoluzionaria, era testimoniata dall’autobiografia nella quale venivano appuntati anche gli elementi essenziali dell’autocritica. (…) “si realizza collettivamente quell’inventario, quel conosci te stesso di cui parla Gramsci”» [21].
Complessivamente, tra il 1945-50 si organizzano 2.946 corsi per 52.713 allievi; tra il 1951-54, i corsi sono 13.479, per 254.072 iscritti [22]. Uno sforzo enorme per l’auto-egemonia, in modo che la linea del partito, elaborata ed imposta secondo i criteri del «centralismo democratico» [23], venisse effettivamente seguita ed attuata nel lavoro rivoluzionario quotidiano.
La «questione cattolica».
In questo sforzo, il partito oltre a dover affrontare la complessità della costituzione della società italiana, deve fare i conti con la sua identità nazionale, con la sua cultura profonda, con il suo senso comune [24], tutti inequivocabilmente cattolici.
L’ambasciatore sovietico in Italia, Kostylev, scrivendo a Molotov, sostiene che «la reazione italiana è capeggiata dal Vaticano», unica «istituzione che ha il coraggio e la sfrontatezza di (…) ignorare i nostri interessi e permettersi dichiarazioni antisovietiche in forma così aperta» [25]. E Togliatti definisce il Vaticano «l’avversario più irriconciliabile e organizzato di una maggiore trasformazione democratica dell’Italia» [26]. Ma se il Vaticano – nell’ottica gramsciana esso, rispetto al mondo storico presente, equivale a quel che rispetto al mondo storico futuro è il partito: intellettuale collettivo – è il nemico, come combatterlo?
L’esperienza spagnola di attacco frontale e violento era stata fallimentare, ancora una volta e semplicemente in quanto perdente [27]. Occorre quindi «dialogare», al fine di coesistere in vista di uno svuotamento del cattolicesimo italiano dei suoi contenuti culturali e di una sostituzione del senso comune nazionale: «ristrutturazione» dell’identità sociale analoga a quella dell’identità personale svolta sui quadri e sui militanti. Ma «dialogare» con chi?
Togliatti distingue subito «tra la posizione della DC e di De Gasperi e quella del Vaticano, ma anche all’interno della DC tra la posizione di De Gasperi e quella degli altri dirigenti» [28], facendo propria la lezione gramsciana sulle capacità disgregatrici dell’identità e della presenza cattoliche da parte del popolarismo [29] di cui coglie tutta la vena progressista [30], conformemente alla sua natura di espressione politico-sociale del modernismo teologico [31].
Egli sa che per la DC la questione della «messa fuori legge» del PCI non esiste [32]. Sa, ancora con Gramsci, che il senso comune delle masse cattoliche è «arretrato», conservatore, quando non reazionario. E perciò sa, finalmente, che rompere con la DC non gli conviene, perché se essa perde il legame con il PCI può essere risucchiata a destra; ma che non conviene nemmeno trascinarla troppo a sinistra, perché allora potrebbe perdere il suo legame con la base cattolica.
Egli perciò accetta sia l’estromissione dal governo del 1947 (per prevenire la seconda dannosa ipotesi), sia la sconfitta elettorale del 1948, contro ogni estremismo, sempre ritenuto leninisticamente una «malattia infantile del comunismo» [33], per prevenire la prima: non scende dal «cavallo di Troia» eletto [34].
E attraverso il dialogo permanente con la DC, anche negli anni in cui l’opposizione appare più dura, il PCI lavora per l’egemonia, cioè contro il «senso comune» nazionale: «La posizione della filosofia della prassi [35] è antitetica a quella cattolica: la filosofia della prassi non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune» [36]. «Una filosofia della prassi non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico, come superamento del modo di pensare precedente e del concreto pensiero esistente (o mondo culturale esistente). Quindi innanzitutto come critica del “senso comune”» [37].
Si tratta come è facile capire di una «rivoluzione culturale» [38], che ha bisogno, per riuscire, di un sostanziale accordo con i rappresentanti politici del mondo cattolico, che ne smorzino la reattività e provvedano ad emanciparlo, almeno sul piano della cultura politica e cioè della dottrina sociale, dal magistero della Chiesa e dalle gerarchie ecclesiastiche, alla cui ulteriore «modernizzazione», poi, gli stessi democristiani contribuiscono per contagio attraverso il sostegno che ne ricevono in campo politico, quasi prezzo che il clero di fatto finisce col pagare, magari di buon grado per la presenza in esso di precise tendenze culturali in tal senso.
Misura di tanto è l’osservazione secondo la quale «i privilegi riconosciuti dalle legislazioni scolastiche e dai concordati all’insegnamento religioso sono diventati in effetti privilegi concessi ad un insegnamento privato che si deconfessionalizza nella misura in cui la Chiesa non è più capace di formare un personale insegnante ecclesiastico», in tal modo perdendo ogni controllo, dopo averlo perso per opera dei democristiani sulle «branche cattoliche degli apparati sindacale e politico, (…) su altri apparati ideologici [come quello] scolastico» [39].
In altre parole, il cattolicesimo tende a perdere ogni influenza sulla società italiana, che si allontana così dalla propria identità, mentre i cattolici «emancipati» rimangono esposti all’influenza di dottrine e filosofie laiche, materialistiche, se non addirittura marxiste, in una parola secolarizzanti. Questa Rivoluzione culturale che si compie, fa sì che il «nuovo senso comune» preconizzato da Gramsci influisca su tutte le polarità di potere esistenti in una struttura sociale ricca, articolata e stratificata qual è quella italiana, e che l’egemonia comunista diventi una realtà.
Gli anni della solidarietà nazionale certificano in qualche misura, ma non in misura piena, sul piano politico, il potere culturale comunista, ed il compromesso storico (nato da una «riflessione sui fatti cileni» [40]: in paesi del tipo italiano e cileno anche quando si va al governo avendone finalmente la forza – non in senso militare intesa – non si lascia la DC all’opposizione ma la si porta con sé, anzi ci si fa portare al potere da essa) avrebbe dovuto perfezionare l’operazione. Ma di quello che è successo poi, un’altra volta.
Gli esiti della strategia gramsciana in Italia.
Conformemente alla sua «vocazione», «il partito di Togliatti, con le sue estese e variegate ramificazioni sociali, riusciva a funzionare davvero, oltre che come un grande coro di slogan, come un vero e proprio “cervello collettivo”» [41].
Esso esercita una formidabile influenza culturale, sempre crescente, soprattutto attraverso il controllo monopolistico dei mezzi di produzione e di divulgazione del pensiero, dell’arte, dello spettacolo, dell’istruzione e dell’educazione, e quasi monopolistico dei mezzi di produzione dell’informazione – prima forma di confisca, che «gramscianamente» deve precedere quella dei mezzi di produzione dei beni materiali e del potere politico.
Non tutti gli intellettuali sono progressisti – ed è difficile che tutti li diventino –, ma attraverso tale monopolio si censura ciò che non è riconosciuto «progressivo», per cui editoria ed informazione radicalmente anticomuniste, ma anche di una sinistra non allineata, sono sempre più ridotte ad una sorta di semi-clandestinità e comunque destinate a non avere eco sociale.
È il partito stesso – gigantesco ed occulto editore, impresario d’arte e spettacolo, oltre che produttore cinematografico – a decidere a chi dare la «patente» di progressista [42]. Accade così che si divulghi, promuova, pubblichi e pubblicizzi solo ciò che viene ritenuto dal partito conforme alla sua cultura politica e, di più, alla sua politica culturale [43], mentre l’informazione viene influenzata almeno «negativamente», spesso in forma di auto-censura, nel senso di attenuare o mettere la sordina su tutto quanto non sia gradito al moderno «principe» d’Italia.
Questo «cervello collettivo» si propone, come abbiamo visto parlando dello sforzo di «autoegemonia», «il “vero” cambiamento, ossia una ristrutturazione della società così radicale da dover essere realizzata solo dopo la conquista del potere» [44]. Ma non dopo la conquista del potere politico, bensì «dopo» la conquista del potere nella società civile, per «ristrutturarla dal basso», e prepararla ad accettare il successivo ed inevitabile lavoro di «ristrutturazione dall’alto» che segue la conquista del potere anche sulla società. Ben sapendo che non può chiederle esplicitamente se vuole il comunismo, perché, come riconosce Pajetta, di fronte alla domanda «volete il comunismo o no? (…) noi non potremmo mai avere una maggioranza legale» [45].
Intanto, il potere formale, cioè la partecipazione ai governi tra il 1944 ed il 1947, viene sfruttato – nella consapevolezza che non è un punto di arrivo, ma di partenza, e che non è ancora definitivamente conquistato, mancando la premessa dell’egemonia – per «ottenere il controllo sui servizi segreti e sui “ministeri di forza”, secondo il gergo bolscevico, cioè i ministeri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia. Durante la sua permanenza al governo (…) il PCI riuscì ad avere solo quello della Giustizia, ma ebbe comunque un ministero importante come le Finanze e posizioni chiave nei ministeri degli Esteri e della Guerra» [46].
La partecipazione ai governi di unità nazionale, anche dopo il 1947, non viene dunque concepita come il fine ultimo dell’azione rivoluzionaria, allo stesso modo in cui la democrazia formale viene vista fin dall’inizio come «un mezzo per avviare la prima fase di transizione ad un sistema di tipo sovietico, anche se i tempi di questo passaggio non erano definiti» [47].
Lungo il percorso non viene meno l’esigenza di agire per la «ristrutturazione» della personalità e del modo di pensare dei militanti – figli anch’essi, lo si ripete, della «vecchia Italia» cattolica, e quindi impregnati dello stesso senso comune che bisogna rimuovere sostituendolo con quello rivoluzionario [48]– non solo con attività di formazione teorica, ma anche con iniziative «pratiche».
Si tratta cioè di fare ai militanti quel che si vuol fare all’intera Italia: de-cattolicizzare. «Inizia così la battaglia contro le debolezze mostrate in materia di religione. (…) Prendono corpo addirittura le controiniziative mattutine domenicali nelle campagne, in concomitanza e come alternativa alle funzioni religiose del giorno festivo (…). Così alla Messa si sostituisce l’assemblea nell’aia o nel granaio, all’officiante il capocellula, al Vangelo le “Questioni del Leninismo” o il “Breve corso di Storia del PC(b) dell’URSS» [49].
Questo lavoro produce i suoi effetti all’interno del PCI e nell’intera società italiana, che viene culturalmente trasformata nel suo ethos e nel suo modo di pensare. La Rivoluzione culturale modernizzatrice proclamata da Gramsci contro il senso comune nazionale si compie. L’egemonia è una realtà, l’Italia cambia la sua anima. Seppure non si perfeziona la socializzazione dell’economia, sebbene lo Stato non diventa totalitario more sovietico, se anche il PCI non lo conquista del tutto, tuttavia il socialismo diventa reale sul piano delle idee e del costume, nonché dell’influenza diffusa su tutte le polarità di potere esistenti.
«Quell’Italia (…) era allora una ben povera Italia, ben distante dalla matura modernità industriale degli anni sessanta. (…) resisteva (…) un rapporto profondo con idee e valori di tradizione contadina (…). In quel contesto il PCI fu qualcosa di simile ad un grande laboratorio per la modernizzazione delle masse (…)» [50].
«Il PCI togliattiano (…) fu (…) un’immensa centrale di educazione collettiva» [51]. «Il PCI a partire dalla sua battaglia per le riforme di struttura, esercitò su tutti i processi della modernizzazione (…) una spinta costante, conquistando un’egemonia che sarebbe fazioso disconoscere» [52].
«Senza la complessa dialettica di fede vigorosa e di prudente e abile arte politica (…) probabilmente non sarebbe stato possibile attuare quella grande e molecolare mediazione tra il marxismo e la tradizione cattolica (…) i cui effetti sarebbero venuti pienamente alla luce dal ’68 agli anni settanta, quando poi la società italiana, dinanzi alle consultazioni referendarie sul divorzio e sull’aborto, avrebbe scoperto di essere (…) più democratica, più responsabile, più tollerante, più laica» [53].
Al di là degli aggettivi e dei sostantivi, sapientemente usati con funzione demonizzante o angelizzante, questo bilancio di decenni di elaborazione e applicazione all’Italia della strategia Rivoluzionaria gramsciana, che, lo ripetiamo, è «culturale», descrive la realizzazione forse più piena del marxismo, o «filosofia della prassi», che si possa ipotizzare. Infatti, la critica dell’esistente, cioè un giudizio di condanna del reale storico sottoposto a processo dai filosofi – ciò in cui consiste l’ideologia comunista, come abbiamo visto [54] –, muove dalla critica della religione nella prospettiva della radicale «mondanizzazione» del mondo: Marx è più qui, di quanto non sia in qualsivoglia programma di riforma socio-economica [55].
La Rivoluzione culturale gramsciana, forse non da sola, ma certamente con un ruolo da protagonista se non dominante, ha portato ad una totale secolarizzazione della società italiana, e in questo esito essa invera il marxismo nella sua più autentica essenza. Le conseguenze socio-economiche dell’e-gemonia (Stato sociale, affermazione del settore dell’economia pubblica, nazionalizzazione delle fonti dell’energia, Statuto dei lavoratori, pansindacalismo, riduzione degli spazi della proprietà e della iniziativa economica private attraverso una fiscalità persecutoria), che pure hanno abbondantemente «ingessato» il corpo sociale nella stessa armatura del socialismo reale, ancorché non integralmente, sbiadiscono di fronte all’effetto secolarizzante e di allontanamento dalla tradizione nazionale.
Molto ci sarebbe da dire ancora sulla penetrazione da parte del PCI nell’economia attraverso il movimento cooperativo, gigantesco imprenditore organicamente legato al partito, capace nel contempo di sostenerlo economicamente e di condizionare l’economia nazionale, per esempio con riferimento all’import-export con i Paesi del blocco comunista. Oppure sull’elefantiasi burocratica che la cultura statalista ha procurato.
Ma certo quel che davvero rimane del lavorìo pluridecennale del PCI secondo la traccia gramsciana, esito cui sarà molto difficile e penoso rimediare, è lo sfiguramento dell’identità nazionale, lo sradicamento dalle nostre tradizioni cristiane, la secolarizzazione, detta modernizzazione – che oggi è in voga nella forma del «pensiero debole», giustificazione teorica di una amoralità relativistica che nega la verità e la stessa idea di poterne parlare [56] –, insomma una sorta di «radicalismo di massa» proposto come conquista di cui vantarsi e che è invece la vera causa della disperazione e dello squilibrio sociale e personale che affliggono oggi più che mai il nostro popolo.
Note:
1) D. Settembrini, art. cit., pp. 71-72.