Biotecnologie e diritto: il confine della ricerca

biotecDialoghi n.3 settembre 2005

La tecnica ha assorbito la scienza. Ma il diritto può e deve intervenire nella prassi scientifica, non in nome di una prospettiva ideologica o confessionale, ma per tutelare una realtà oggettiva.

di Fabio Maciocie (*)

La scienza moderna, intesa nel senso di struttura teorico-tecnica, è davvero – come appare sempre di più – la forma suprema di potenza e “dunque (per dirla con Severino) di verità presente oggi sulla terra? Esiste, in altri termini, un criterio che possa indicare il confine tra possibile tecnico e possibile etico, che possa insomma vincolare la prassi scientifica entro un orizzonte assiologicamente accettabile e – cosa ancor più difficile – condiviso?

Tali domande, che sinteticamente espongono il problema intorno al quale mi muoverò, non ammettono, evidentemente, risposte immediate e dirette; per contro, se qualche risposta deve essere cercata, è necessaria anzitutto un’opera di chiarimento preliminare sui confini teoretici del problema, un lavoro insomma che sgombri il campo da pre-giudizi e da false evidenze.

L’IMPOSTAZIONE TRADIZIONALE

In questa prospettiva, laddove ci si ponga il problema dei limiti che l’etica e il diritto possono porre alla scienza, è affatto urgente e prioritario intendersi sull’estensione e la consistenza del concetto stesso di “scienza”. Non intendo, si badi, proporre qui una sintetica quanto inadeguata teoria della scienza; molto più semplicemente, intendo richiamare l’attenzione sul rapporto (tanto problematico quanto poco esplorato) fra scienza e tecnica.

Voglio dire che per cercare di individuare i confini etici della prassi scientifica, e valutarne la traducibilità normativa, è essenziale anzitutto comprendere se ciò che si desidera limitare sia la scienza in se stessa o soltanto alcune modalità di acquisizione e applicazione delle conoscenze, se cioè si ritenga di poter individuare limiti oggettivi al progresso delle conoscenze, o piuttosto unicamente alle modalità con cui tali conoscenze vengono prima trovate e successivamente applicate.

Ora, stando a tale tradizionale prospettiva (che per inciso, e anticipatamente, non ritengo più attuale), la distinzione tra scienza e tecnica si potrebbe identificare in quella più generale tra mezzi e fini; la scienza stabilirebbe i fini, e la tecnica si limiterebbe a offrirle i mezzi più adeguati. La scienza, insomma è ciò che garantisce la conoscenza del reale, anzi è questa stessa conoscenza; è una tra le molte possibili letture della realtà, accanto a quella religiosa, giuridica, ideologica, sensista, ecc…, e probabilmente una delle più autorevoli e significative.

Tutt’altro è la tecnica: mera elaborazione di strumenti e metodi per l’osservazione, la lavorazione, la manipolazione, il mutamento del reale, essa è costitutivamente “serva” delle scienze, non potendo individuare da sé le proprie finalità ma dovendosi limitare a elaborare modalità efficaci per il raggiungimento di fini eteronomi.

Stando a tale impostazione, il problema dei limiti deve essere elaborato in modo diverso a seconda che ci si riferisca alla scienza o alla tecnica. Più precisamente, anzi, di limiti si potrebbe parlare propriamente solo a proposito della tecnica, solo cioè a proposito della prassi scientifica, delle concrete modalità con le quali si acquisiscono conoscenze e delle possibili applicazioni di esse; soltanto queste, in effetti, potrebbero contrastare con la dignità della persona o con altri principi fondamentali, ma non certamente le acquisizioni scientifiche.

Anche e soprattutto nella prospettiva cristiana, infatti, la conoscenza è sempre un bene. «Non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato» (Mt. 10, 26): la conoscenza del reale è in se stessa positiva, posto che fondamentalmente positivo è il reale medesimo. L’esoterismo, il nascondimento e l’oscurità della mente non hanno alcuno spazio nel cristianesimo, e l’ignoranza non può in alcun modo essere preferita alla conoscenza.

Peraltro, anche volendo andare al di là di una prospettiva strettamente religiosa, non c’è alcun motivo teoreticamente consistente per ritenere che in sé la conoscenza possa essere in qualche modo negativa, o che possano darsi conoscenze negative in se stesse; che l’uomo intenzioni il reale per cono-scerlo e comprenderlo, e non soltanto per adattarvisi o per utilizzarlo, è non soltanto legittimo, ma probabilmente costituisce uno dei tratti più significativi e caratterizzanti della natura umana.

INATTUALITÀ DELL’IMPOSTAZIONE TRADIZIONALE

Questo schema interpretativo, come accennavo, non è più applicabile con sicurezza nelle condizioni attuali. E ciò perché non è più accettabile la distinzione tra scienza e tecnica su cui detto schema si fondava; non si può più sostenere, in altre parole, che la scienza orienti ancora la tecnica, o che della tecnica la scienza non faccia che servirsi per i propri scopi.

Per comprendere appieno questa affermazione, sarebbe necessario riflettere anzitutto sul rapporto tra il nichilismo moderno (che ha frantumato l’idea classica di un ordine immanente al reale e tale da costituire per esso una struttura normativa fondamentale) e l’accrescimento vertiginoso della potenza tecnica dell’uomo; sarebbe cioè istruttivo analizzare la relazione tra questi due fenomeni, verifìcando quale dei due possa considerarsi la causa dell’altro.

La necessaria sinteticità di questo scritto, tuttavia, impedisce tale approfondimento preliminare; ciò nonostante, possiamo considerare in ogni caso rilevante di per sé il nesso tra nichilismo e tecnica, e osservare come l’aumento della potenza e della capacità tecnica sia ormai divenuto una sorta di Assoluto indiscutibile, un’evidenza antropologica, qualcosa insomma di così naturale da non tollerare alcun vincolo in nome di un’ipotetica natura.

Più semplicemente, la tecnica ha in qualche modo assorbito la scienza. La produzione di capacità e possibilità (che, in fondo, è l’essenza della tecnica) non è più orientata alla realizzazione di scopi ulteriori, ma è – o sta progressivamente diventando – scopo in se stessa; l’accrescimento della potenza tecnica, ovvero delle possibilità pratiche ed esistenziali dell’uomo, da semplice mezzo che era sta divenendo un fine primario, al quale la scienza stessa si adegua e dal quale è orientata.

Oggi, insomma, è molto difficile sostenere che la scienza sia ancora in grado di determinare da sé le proprie finalità epistemiche, e che la tecnica si limiti a fornirle l’apparato strumentale e le “capacità” indispensabili al raggiungimento rapido ed efficace di esse. Più esattamente, avviene pressoché l’opposto: la tecnica tende ad accrescere esponenzialmente se stessa, nel senso che tende all’aumento esponenziale delle possibilità e della potenza umane, e la scienza si limita a offrirle la base cognitiva indispensabile a tal fine.

Dall’evoluzione impressionante dell’informatica “di consumo” che ha segnato gli ultimi anni, alla vera e propria rivoluzione biotecnologica, gli esempi potrebbero essere davvero infiniti. Il caso delle tecniche informatiche è forse più evidente: produciamo e consumiamo un’infinità di tecnologie, che costituiscono altrettante infinite possibilità e capacità impensabili fino a poco tempo addietro, le quali tuttavia non hanno alcuna diretta finalità scientifico-conoscitiva, e che anzi orientano la scienza medesima.

Ma si rifletta altresì sul caso delle tecniche biomediche; qui il confine è senza dubbio molto esile, e la possibilità di distinguere tra finalità scientifiche e potenzialità tecniche si sta facendo sempre meno agevole. Assistiamo in effetti a un impressionante aumento delle possibilità manipolatene che la tecnica mette a disposizione della scienza; la capacità di agire sul vivente sin dalle primissime fasi della sua esistenza avanza a un ritmo affatto imprevedibile, e nulla lascia ritenere che tale avanzamento debba arrestarsi.

È evidente, credo, che tale sviluppo delle tecniche biomediche si lega più o meno direttamente alle necessità e alle finalità della ricerca scientifica; ma è altrettanto evidente che è sempre meno individuabile il confine tra necessità della scienza e autonomo incremento della potenza tecnica, tra finalità conoscitive e aumento indefinito delle capacità tecniche. Il caso della clonazione umana può costituire un’utile esemplificazione di quanto detto sin qui: in se stessa, ovvero a livello puramente teorico e conoscitivo, è una pratica abbastanza banale, la quale difficilmente può rappresentare un vero e proprio progresso per la conoscenza dell’uomo; eppure, poiché la tecnica ha la possibilità concreta di aumentare le proprie capacità in tale dire/ione, la scienza assume la clonazione come oggetto dei suoi interessi e favorisce (in un movimento circolare) il perfezionamento e l’affinamento delle tecniche a tal fine orientate.

Se scienza e tecnica, alla luce di queste considerazioni, non possono più essere gerarchicamente ordinate, se cioè la tecnica non è più in una posizione ancillare, ma a sua volta condiziona e indirizza la scienza, tutto il discorso sui vincoli etici e giuridici condotto al punto precedente non si regge più.

Non regge, per così dire, l’idea che la conoscenza sia sempre buona e che i limiti possano essere imposti solamente alle tecniche o alle applicazioni delle conoscenze; è tale la forza della tecnica, e la sua capacità di indicare a se stessa, come propria finalità, il proprio potenziamento continuo e incessante, che cercare di limitare la tecnica in nome del rispetto di valori fondamentali significa necessariamente limitare anche la scienza.

Ciò che si rende necessaria, allora, è una franca accettazione di questa inscindibile unità tra scienza e tecnica (per non arrivare, come pure sì sostiene, a sostenere il completo assorbimento della scienza nella logica della potenza tecnica), e una scelta tra due vie alternative; quella dell’accrescimento indefinito della potenza – umana, tecnica, scientifica… – e quella della tutela di una struttura fondamentale della natura umana: una struttura che, proprio perché fondamentale, non può che costituire anche un limite per ogni attività umana, e dunque un confine all’incremento ed allo sviluppo della tecno-scienza.

L’ILLUSIONE DEL DIRITTO DEBOLE E LIBERALE

II problema è dunque, in modo affatto evidente, quello di individuare questa struttura di fondo, o più semplicemente quello di individuare i limiti e i criteri fondamentali per orientare la prassi tecnoscientifica, sulla base di tale struttura fondamentale. Ed è un problema particolarmente spinoso posto che, a fronte dell’aumento vertiginoso della potenza vi è stata — lo accennavo — una progressiva erosione di un orizzonte etico condiviso, tale da poter costituire un quadro di riferimento per la prassi dell’uomo: è solo dalla sovrapposizione di questi due dati — lo sviluppo tecnoscientifìco e la perdita di riferimenti etici condivisi — che si determina quello spaesamento tipico della contemporaneità di fronte alle possibilità della scienza.

La recente vicenda referendaria, in modo macroscopico, è una conferma di queste considerazioni; da un lato, infatti, si è manifestata in tutta la sua forza una prospettiva assolutamente “libertaria”, secondo cui non sarebbe prospettabile alcun limite alla ricerca e all’incremento della tecnica, nel presupposto che qualunque limite sarebbe di per sé indebito, e precisamente un’indebita e inopportuna intromissione del diritto e della morale nel libero dominio della scienza. Dall’altra, si è toccata con mano la difficoltà a riproporre un discorso sui limiti “naturali” dell’agire umano, senza che questo venga tacciato di oscurantismo, o meglio di essere viziato da pregiudizi di tipo religioso e perciò, fondamentalmente, di natura rigidamente soggettiva e privata.

Ora, al di là della questione referendaria, il problema fondamentale resta – sinteticamente – quello di individuare e giustificare l’esistenza di una “natura” intrinsecamente normativa, tale cioè da costituire un riferimento imprescindibile per la legittimità dell’agire umano, e di far ciò in un contesto assiologicamente frantumato e ostile, in larga misura, a ogni ipotesi di metafisica. Indubbiamente, sembra di dover quadrare il cerchio. Nondimeno, cercherò di indicare alcuni vicoli ciechi nei quali sembra essersi incamminata la nostra società e — per quel che mi compete — la cultura giuridica contemporanea, e alcuni criteri per la formulazione di soluzioni laiche al problema in esame.

Il principale vicolo cieco, ovvero la principale illusione di gran parte della cultura giuridica attuale, consiste nell’enfasi con la quale si invoca un diritto leggero, un soft law, o in altre parole un diritto sostanzialmente autolimitato alle procedure. È una soluzione non nuova, peraltro, e che si traduce — a esempio nel caso delle biotecnologie — in una sorta di astensionismo giuridico, in virtù del quale il diritto dovrebbe limitarsi a elaborare procedure trasparenti e funzionali, imponendo un formale rispetto di esse e non sindacando oltre una certa misura la sostanza delle pratiche disciplinate.

Nel caso delle biotecnologie il diritto dovrebbe dunque arretrare tanto di fronte alla libertà della scienza, quanto di fronte all’autonomia dei singoli, e limitarsi a tutelare le concrete possibilità di estrinsecazione delle libertà di ciascuno, adeguandosi a un pluralismo fattualmente esistente e svolgendo una funzione di controllo dei confini rispetto alle opzioni morali private.

Tale prospettiva, qui sinteticamente richiamata, è con tutta evidenza fallace; e lo è proprio nella misura in cui pretende di contrapporre alla potenza autoreferenziale della tecnica, che ha come unica ragione il pròprio indefinito accrescimento, la debolezza di un diritto di confine. Non comprendendo che, così, il diritto si sottrae al suo compito specifico di tutelare la coesistenza e si riduce al riconoscimento pubblico di una potenza, quella della tecnica, che lo trascende e non accetta alcuna eterolimitazione.

LA RICERCA DI UNA LAICITÀ FORTE

La via da percorrere deve perciò essere tale da permettere di coniugare la necessità imprescindibile di un diritto forte con la realtà ineliminabile di una società eticamente e culturalmente plurale; deve, in altre parole, consentire di tenere insieme l’esigenza di un orizzonte assiologicamente forte sì da orientare la prassi scientifica, con quella della laicità del diritto e delle scelte pubbliche.

In sostanza, ciò che si impone come lavoro teoreticamente primario è un ripensamento della nozione di laicità, troppo spesso confusa con una vuota neutralità assiologica o, peggio, con la negazione laicista di ogni valore pubblico alle scelte etiche e religiose; e, d’altra parte, tale da scongiurare ogni chiusura ideologica o strettamente confessionale. Una laicità che non si riduca all’espulsione degli argomenti teologici o etici dal dibattito pubblico, e che soprattutto traduca un modello giuridico (e bio-giuridico, per il caso delle biotecnologie) francamente cognitivista, nel quale cioè l’intervento del diritto nella prassi scientifica non sia percepito come un’indebita invasione, ma come oggettivamente fondato e giustificato.

Il diritto può e deve insomma intervenire in bioetica (ed in generale nelle questioni che riguardano la prassi scientifica) non in nome di una specifica prospettiva ideologica o assiologica o confessionale, ma per tutelare una realtà oggettiva, una struttura fondamentale che non può essere subordinata all’utilità o all’autonomia individuale.

A tal fine, peraltro, sarebbe sufficiente riprendere una nozione classica di laicità — legata alla riflessione di Congar, soprattutto — secondo la quale la realtà delle cose precede colui che la osserva o la manipola; laico è colui per il quale la realtà delle cose esiste in se stessa ed è in sé interessante, al di là dell’utilità che se ne può trarre manipolandola o della specifica prospettiva ideologica in cui il soggetto si colloca. Laico, insomma, è chi crede alle cose e ne rispetta la natura e le esigenze.

Su tale base è forse possibile ripensare anche al rapporto fra tecnoscienza e diritto; questo deve sì operare “sul confine”, ma sul confine tra possibile tecnico e possibile etico, individuando i limiti sostanziali della prassi scientifica, e deve farlo restando quanto più possibile laico, o per meglio dire restando se stesso. Un diritto che voglia definirsi laico deve dunque evitare le strettoie di un astensionismo tanto vuoto quanto debole e inefficace, e la tentazione di chiusure ideologiche, di false e preconcette letture del reale, ma deve appunto rifugiarsi nelle cose, in quella realtà che chiede di non essere mistificata e di essere salvata da ogni indebita manipolazione.

Non è un lavoro facile, perché si tratta soprattutto di convincere i giuristi a uscire allo scoperto, allontanandosi dal loro esilio volontario nelle procedure; ma è un lavoro che non può attendere, se si vuole che la tecnica e la scienza non si autogovernino, ma siano indirizzate alla promozione del bene umano.

(*) Fabio Macioce è ricercatore dì Filosofia del Diritto all’Università di Roma “Tor Vergata” e docente di Filosofia e Teoria Generale de! Diritto presso la “Lumsa”, sede di Palermo. È Segretario Centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani.