La questione del Crocifisso in aula non fa più notizia ma ma la conflittualità processuale sulla questione non si è placata. Sì è anzi intensificata in modo esponenziale ed ha dato luogo a ulteriori pronunce. Appare dunque corretto dar conto degli sviluppi di questa tormentata vicenda, che ha messo allo scoperto problemi di drammatica attualità.
di Luisa Preden
Tutti ricorderanno l’esplosione mediatica sul “caso di Ofena” e la pressoché corale reazione negativa con la quale la comunità nazionale accolse l’ articolata ordinanza del giudice de L’Aquila che condannava una scuola a rimuovere il crocifisse dalle aule, dato che le disposizioni regolamentari che ne prevedevano l’esposizione, e che trovavano la loro matrice storica e giuridica nel sistema costituzionale disegnato dallo Statuto albertino, erano da ritenersi abrogate per effetto della legge del 1985 di modifica del Concordato.
Nell’ordinanza si sosteneva, tra l’altro, che le giustificazioni addotte per ritenerne l’esposizione non in contrasto con la libertà di religione erano ormai divenute “storicamente e socialmente anacronistiche, addirittura contrapposte alla trasformazione culturale dell’Italia”. La collettiva reazione emotiva, talora scomposta, ha invece fatto emergere come la diffusa sensibilità della società italiana, “post-modema” e secolarizzata, percepisca nel Crocifisso non soltanto un simbolo religioso ma l’espressione della cultura, del patrimonio storico e della stessa identità nazionale.
Ha anche dimostrato, però, come si tratti di un problema che non può essere affrontato “caso per caso” e come la tutela dei diritti fondamentali delle minoranze non possa essere suffragata dal “senso comune”. Sono passati solo due anni, il clamore generale così come si è acceso si è rapidamente spento, l’ordinanza è stata velocemente revocata, in seguito a reclamo, dallo stesso Tribunale de L’Aquila, ma la conflittualità processuale sulla questione non si è placata.
Sì è anzi intensificata in modo esponenziale ed ha dato luogo a ulteriori pronunce (ben sei in meno di due anni dopo la pronuncia del Tribunale de L’Aquila in data 19.9.2003 di revoca della tento contestata ordinanza).
Questa “crescita” si è sviluppata nella quasi totale disattenzione dei non addetti ai lavori: la stampa ha fornito qualche veloce informazione, ormai consumato il ghiotto “boccone” dell’evento creato intorno al “caso Adel Smith”.
Appare dunque corretto dar conto degli sviluppi di questa tormentata vicenda, che ha messo allo scoperto problemi di drammatica attualità: dal principio stesso di laicità dello Stato, che si evolve anche per i mutamenti legati allo svolgimento dell’ordinamento e alle trasformazioni della realtà sociale, al concetto di laicità nella scuola che ha recentemente riacceso animi e dibattiti anche nel radicale “laicismo” francese, dalla libertà religiosa che, da diritto civile, nelle società multiculturali va sempre più assumendo i tratti di un diritto culturale o addirittura politico al problema nuovo e delicato della paura collettiva e della ricerca di un putte di equilibrio tra la” tutela della libertà religiosa delle minoranze, rivendicata spesso con toni accesi da parte delle comunità islamiche, e la sicurezza nazionale.
Non dimentichiamo, poi, la contesa sui riferimenti alle radici cristiane nella Costituzione europea. La questione dell’uso dei simboli religiosi nei luoghi pubblici coinvolge, quindi, una numerosa e complessa serie di aspetti teorici che investono la scuola oltre a toccare un problema squisitamente pratico, qual è, nel nostro caso, la stessa organizzazione della vita scolastica. In questa sede ci si limita a richiamare le pronunce più recenti, accennando esclusivamente ai profili giuridici che esse implicano.
I nodi formali
Anche se alcune pronunce sono state definite da qualche giurista “pilatesche”, dato che hanno saputo “individuare, più o meno fondatamente, la via giuridica per rimettere ad altri il quesito”, occorre notare come, tutto sommato, siano state utili per chiarire almeno alcuni nodi interpretativi e aspetti procedurali della questione.
Innanzitutto, la questione relativa alla giurisdizione. Il Tribunale de L’Aquila (ordinanza 29.11.2003), nel revocare l’ordinanza del giudice dello stesso tribunale, ha sostenuto che la controversia non rientrava nella competenza del giudice ordinario, investendo non un rapporto “individuale” di utenza nell’ambito di un servizio pubblico, bensì un problema di carattere generale ed organizzativo che riguarda tutti gli alunni delle scuole pubbliche, ma era attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Questa tesi è stata confermata anche di recente (ad esempio, dal Tribunale di Napoli con ordinanza 31.3.2005, a proposito della presenza del crocifisso nei seggi elettorali). La questione della competenza non è di poco contorse si considerano le “ricadute” che possono derivare a seconda se si pronuncia il giudice ordinario o quello amministrativo.
Nel primo caso, può essere emanata un’ordinanza che “caso per caso” inibisca alla singola scuola o alla singola classe l’esposizione del crocifisso, disapplicando le disposizioni regolamentari per violazione diretta del principio costituzionale di laicità (il che porrebbe problemi di disuguaglianza tra le varie situazioni); nel secondo, invece, la pronuncia del Tar dovrebbe annullare, con il provvedimento impugnato (di norma, delibera del Consiglio d’istituto) anche le disposizioni amministrative che regolamentano la materia, determinando, se la pronuncia fosse confermata dal Consiglio di Stato, un vuoto normativo su tutto il territorio nazionale.
Altro aspetto interessante che ha trovato soluzione: la natura strettamente regolamentare e la attuale vigenza delle norme che prevedono in ogni aula “l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re” (contenute, come è noto, nel r.d.n. 965/1924 per la scuola media e nel r.d.n. 1297/1928 per quella elementare e già ritenute dal Consiglio di Stato in un parere espresso all’amministrazione nel 1988 tuttora vigenti poiché mai abrogate dalla nuova regolamentazione concordataria sull’insegnamento della religione Cattolica).
Il Tar Veneto (ordinanza 14.1i2004, n.56), in seguito al ricorso proposto da un genitore avverso la delibera del consiglio d’istituto di un istituto comprensivo relativa alla decisione di “lasciare esposti i simboli religiosi”, aveva sollevato la questione di costituzionalità, sostenendo, con un forzato “sofisma” giuridico, che le disposizioni regolamentari in questione erano da ritenersi specificazione dei vigenti articoli 159 e 190 del T.U. n. 297/1994, relativi alle competenze dei comuni in materia di “arredi” e “arredamento” scolastico.
Nel merito, poi, aveva ritenuto la questione non manifestamente infondata, dato che la norma impone che sia apposto nelle aule scolastiche, luoghi sicuramente pubblici, “un simbolo il quale mantiene comunque un univoco significato confessionale, per tale percepito dalla maggior parte dei consociati: e non sì può essere certi che una siffatta prescrizione sia compatibile cori i principi stabiliti dalla Costituzione repubblicana, nell’interpretazione che la Corte ha nel tempo delineato”.
Grande l’aspettativa che ha preceduto la decisione della Corte Costituzionale, investita per la prima volta nella nostra storia a pronunciarsi su questa particolare e delicatissima applicazione concreta del principio costituzionale “supremo” (così definito dalla stessa Corte in una memorabile sentenza del 1989) di laicità.
La Corte non è entrata nel merito della questione, ma con un’asciutta e lineare ordinanza (ordinanza 15.12.2004, n.389) ha dichiarato la manifesta inammissibilità della .questione. Ha infatti ritenuto del tutto improprio e insussistente il rapporto di integrazione e specificazione tra gli articoli del T.U. del 1994 impugnati (peraltro attinenti all’onere finanziario per la fornitura degli arredamenti) e le norme regolamentari del 1924, sulle quali, proprio perché norme di “rango secondario” non può essere invocato in sindacato costituzionale né, conseguentemente, un intervento interpretativo. Non si è pronunciata, quindi, neppure un’eventuale abrogazione implicita delle torme regolamentari richiamate.
Nonostante questa “prudente” asciuttezza qualcuno ha evidenziato l’eccessiva cautela della Corte, che avrebbe “deciso di non decidere”), l’ordinanza è stata oggetto di un ampio dibattito in dottrina e non sono mancate contraddittorie ipotesi di lettura di un orientamento criptico della Corte: c’è chi vi la individuato una sorte di “imprimatur” costituzionale perché il Crocifisso restasse al suo posto; chi, al contrario ha notato che l’inammissibilità sta a significare proprio che “non c’è obbligo”, deducendo una sorta di riserva a sfavore del Crocifisso.
Possono evincersi, comunque, alcuni punti fermi: le disposizioni degli anni ’20 sono vere e proprie norme regolamentari (qualche purista in passato si era anche posto questo dubbio, data la difficoltà di cogliere con precisione la natura giuridica della normativa dell’epoca, caratterizzata dai regi decreti…); alla loro base non c’è una attuale “referenza” legislativa (per cui non può porsi nemmeno in futuro la questione di legittimità costituzionale); sono tuttora vigenti.
La “laicità cristiana”
Dopo i dubbi di legittimità costituzionale sollevati inutilmente nell’ordinanza di remissione giudicata inammissibile dalla Corte costituzionale, il Tar Veneto si è pronunciato nel merito della questione (sentenza 22.3.2005, n.1110) con una decisione ponderosa, ricca (forse, troppo) di ricostruzioni di carattere storico, religioso, filosofico dalle quali il dato giuridico sembra rimanere sommerso.
Una decisione di reiezione del ricorso dalle molteplici argomentazioni, senza più traccia dei dubbi e delle perplessità precedentemente manifestati nell’ordinanza di rinvio. Tra i tanti aspetti del problema affrontati nella sentenza, due sono i punti che in questa sede meritano di essere messi in evidenza: l’obbligatorietà e la legittimità della collocazione del Crocifisso nelle aule della scuola pubblica.
La prima questione può così riassumersi: se dalle nonne regolamentari citate si deduca un “obbligo” circa l’esposizione del crocifisso o il solo dovere per l’amministrazione di acquistarlo come dotazione (in questo caso là scelta dell’affissione sarebbe rimessa a ogni singola istituzione scolastica).
La sentenza chiarisce sul punto – e non si può non essere d’accordo- che l’esposizione è obbligatoria, sia per il dato testuale della norma (l’art.118 del r.d.965/1924 dispone che ogni istituto di istruzione media “ha la bandiera nazionale; ogni aula (ha) l’immagine del crocifisso e il ritratto del re”), sia in base all’interpretazione logica, in quanto non avrebbe senso dotarsi di un oggetto di uso, esclusivamente simbolico senza una sua estensione. Quanto alla libera scelta da parte della scuola, al di là del fatto oggettivo che la norma non la consente, Sta la considerazione che in una materia che coinvolge le libertà individuali non può essere la maggioranza a decidere.
Molto più delicato è il secondo aspetto (la norma sull’esposizione obbligatoria è vigente, ma si legittima nel nostro attuale ordinamento?) che sposta la questione su quale sia il significato o i significati che il simbolo evoca per verificare alla luce delle norme vigenti, e in particolare dei principi costituzionali, se essi siano compatibili con la sua esposizione in una scuola pubblica.
La sentenza al riguardo sostiene che nell’attuale realtà sociale il Crocifisso “debba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale”.
Sarebbe paradossale “escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità, che ha sicuramente una delle sue fonti lontane proprio nella religione cristiana”. Esso quindi può essere legittimamente collocato nelle aule di una scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante, “ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato repubblicano”.
La sentenza si spinge anche a segnalare la valenza formativa del simbolo del Crocifisso, con il suo richiamo ai valori di tolleranza, per i molti alunni extracomunitari che frequentano le nostre scuole “ai quali risulta molto importante trasmettete quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di Ogni integralismo – religioso o laico che sia – che impregnano di sé il nostro ordinamento”.
Aggiunge (purtroppo) che “viviamo in un tumultuoso incontro con altre culture, e, per evitare che esso si trasformi in uno scontro, è indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità, tanto più che essa si caratterizza proprio per i valori di rispetto per la dignità di ogni essere umano e di universalismo solidale”. Prendiamo atto comunque il Crocifisso è ancora lì, e non costituisce, certo, simbolo di nuove discriminazioni.