Unicef e Fao: l’80% del budget speso in stipendi e spot pubblicitari
di Paolo Cereda
L’Unicef, la Fao (con il suo programma alimentare mondiale), Usaid e altri sono stati accusati di inefficienza pressappochismo e lentezza nell’approntare i circuiti di emergenza alimentare e sanitaria che arrivassero effettivamente alle persone più bisognose e su tutto il territorio. In effetti ingenti somme di denaro sono state raccolte e mobilitate per i bambini della Somalia, ma quanti di loro hanno potuto in realtà ricevere, con tempestività e costanza, le razioni giornaliere di Unimix (integratore alimentare ad alto contenuto proteico) o le soluzioni di reidratazione orale (Sro), contro la diarrea?
Uno dei problemi principali di cui soffrono queste Agenzie è l’elefantiasi burocratica che soffoca, dall’interno, la rapidità degli interventi sul campo, la flessibilità e la capacità d’adattamento a situazioni particolari. Così, prima di organizzare un deposito di derrate alimentari in una regione interna, è necessaria una missione di logistici, che a sua volta deve essere autorizzata e controfirmata dal capo dipartimento e dall’ufficio amministrativo, che magari sono a Ginevra.
Inoltre, per motivi di rappresentanza e sicurezza, gli uffici delle organizzazioni internazionali sono sempre in città, nella capitale; quindi tutte le operazioni sul campo vanno e vengono da lì, con notevole dispersione di tempo, energie e denaro. Si può ben capire come una burocrazia così «kafkiana» sia impacciata in situazioni di estrema fluidità.
Un secondo grande motivo di attrito tra i funzionari delle organizzazioni internazionali e i loro «omologhi» locali risiede nella remunerazione e nelle facilities di cui godono i primi rispetto ai secondi. Gli stipendi da favola, le esenzioni fiscali, il lusso in cui vivono questi «managers della carità» – in stridente contrasto con la miseria della situazione in cui operano – mortifica chi, per meno di un decimo di tanta ricchezza, fa lo stesso lavoro, e pone delle questioni (non solo morali) alle persone che versano il proprio contributo sulla spinta di campagne pubblicitarie e come denuncia con spietata meticolosità Graham Hancock, autore del libro Lords of poverty (MacMillan. London, 1989), circa l’80% del budget di queste organizzazioni è destinato alle spese di funzionamento: cioè agli stipendi dei funzionari, pubbliche relazioni e campagne promozionali. Mentre solo il 20%, quando va bene, è costituito dagli aiuti reali alle popolazioni bisognose.
Il terzo problema, questa volta sollevato da quelli che dovrebbero essere i veri beneficiari degli aiuti, è che questi«nababbi della povertà», dall’alto della loro Toyota o negli uffici climatizzati, prestano poca attenzione alle reali esigenze delle persone più sfavorite, «dovendo» passare attraverso i canali ufficiali, che sono spesso costituiti da oligarchie dispotiche, interessate ad avere la loro parte (tangente) sulle derrate alimentari, sui beni materiali e finanziari destinati alle emergenze.
Se le Nazioni Unite e le Agenzie di cooperazione internazionale vogliono conservare il prestigio e la serietà del loro nome e ruolo, dovrebbero rivedre le strategie e capovolgere le percentuali dei loro bilanci.