Cinquanta anni fa le truppe del Fürer invadevano la Polonia. Da quel giorno la guerra sarà l’unica realtà di milioni uomini. Ma come e dove viene preparato il più grande conflitto mai accaduto? La storia controcorrente del fatale 1939.
di Franco Bandini
MUSSOLINI NEL GRANDE GIOCO
Nella gamma delle molte e disinvolte accuse che sono state fin qui fatte a Mussolini, la più antica e resistente è senza dubbio quella di aver tenacemente voluto la guerra, trascinando alla perdizione l’ignaro popolo italiano. È anche la più sciocca, perché, casomai, a Mussolini si può, con fondamento, rivolgere proprio il rimprovero opposto: cioè di essere l’unico uomo politico di questo secolo che, al momento venuto, abbia scientemente violato, pur di non scendere in guerra, un Patto fresco di firma che ad essa lo obbligava in modo del tutto automatico.
Molto probabilmente si trattò di un gravissimo errore, poiché la tempestiva certezza che l’Italia sarebbe rimasta alla finestra dette agli inglesi ed ai riluttanti francesi la possibilità di irrigidirsi nella loro opposizione ad Hitler, e vanificò le notevoli alternative di compromesso.
La Storia non si fa con i «se», e d’altra parte si è già detto nell’articolo precedente che in quel settembre 1939 l’elemento decisivo, il catalizzatore della situazione, fu non tanto e non solo la pretesa di Hitler di liquidare la Polonia, quanto la risoluzione britannica di accettare la guerra subito, prima di perdere a breve scadenza la propria superiorità navale: e tuttavia, anche detto questo, non si può sottacere che, almeno in quel momento, i piani di Hitler erano molto diversi, ed assai più modesti di quanto non gli è stato attribuito.
Diversamente da tanti altri Capi di stato di prima e dì poi, il cancelliere tedesco era un eccellente conoscitore dell’apparato militare ed industriale del suo Paese, e sapeva benissimo che tutto stava in piedi su un accorto miscuglio di relativa forza reale, propaganda, ed azioni troppo rapido per le cautelose reazioni delle Cancellerie di Londra e di Parigi.
Alla fine dei conti, in quel burrascoso agosto 1939 Hitler poteva far sfilare in passerella 2.900 carri e 1.500 aeroplani, ma si guardava bene dal raccontare che la sua «Wehrmacht» era in realtà costituita da un massimo teorico di 120 divisioni che andavano ancora a piedi, in un panorama ben poco cambiato dal 1918.
In realtà, era stato realizzato un riarmo «in larghezza», ma non «in profondità»: mancavano i sottufficiali, una considerevole frazione dei servizi, le caserme indispensabili, i terreni d’addestramento e persino l’addestramento stesso per una così considerevole massa d’uomini. Non solo perché c’era stato ben poco tempo per far sorgere tutto questo dal nulla, ma soprattutto perché non si erano affatto spesi per gli armamenti quei 90 miliardi di marchi-oro di cui inglesi e francesi favoleggiavano con apprensione: ancora alla chiusura del sesto anno fiscale, il 31 marzo 1939, ne erano stati utilizzati soltanto 40, e circa altri dieci lo furono tra quella data ed il 3 settembre 1939, con una accelerazione che da sola dovrebbe dimostrare la mancanza di un piano di guerra globale.
Val la pena di insistere sul negletto fattore delle reali intenzioni di Hitler, perché gli equivoci profondi nati attorno ad esso prima delle cannonate ebbero come tragica conseguenza quella di trasformare davvero in guerra il nervoso e pericoloso processo di riassestamento europeo, pressoché inevitabile dopo l’ingiustificata pace punitiva partorita a Versailles.
Gli inglesi ritennero, almeno sino a Monaco, che fosse possibile guidare con ben studiati accordi diplomatici un’espansione tedesca all’Est, e riconobbero quasi spontaneamente che essa si sarebbe tradotta nella scomparsa o almeno nella trasformazione da Stati sovrani ad aree a «sovranità limitata» di tutte le creature nate o ridisegnate appunto a Versailles; Cecoslovacchia. Ungheria, Austria, Polonia, Romania. Ed immaginarono che tutto questo avrebbe potuto avvenire senza guerra, ma soprattutto a condizione di una rinunzia tedesca alla competizione sul mare.
In termini poveri, essi dettero ad Hitler licenza di rompere tutte le fragili porcellane europee, purché neppure una delle chicchere britanniche riportasse scalfitture. Questo modo di pensare, molto antiquato, molto vittoriano, e per la verità poco europeo, ebbe il grande svantaggio di trovarsi di fronte alla mentalità sulfurea, astuta e modernissima di Hitler, il quale, è bene dirlo subito, non avrebbe mai avuto modo di esibirsi nel suo gioco delle tre tavolette, se non fosse stato per l’appoggio incondizionato di settanta milioni di tedeschi.
Più e meglio di ogni altro politico di quegli anni, Hitler aveva compreso l’enorme valore della propaganda e dell’astuzia, come sostituti ineguagliabili della potenza reale; fu forse il primo in assoluto, per esempio, ad invertire il segno algebrico della più tradizionale tra tutte le menzogne di governo nel campo degli armamenti, poiché non perse alcuna occasione per raccontare ai suoi potenziali avversari che era più forte di loro avendo più aeroplani, più carri e più cannoni di quanto essi supponessero.
Corredò queste grosse panzane, perché tali erano, con frasi che faranno per sempre l’invidia dei più agguerriti pubblicitari, come quando chiese al suo popolo di rinunziare al burro pur di avere cannoni: cosa che si guardò bene dal mettere in pratica persino durante la guerra, visto che una vera conversione dell’industria tedesca avvenne soltanto a partire dal 1943.
Questi metodi, di certo non nuovi per le tribù selvagge che si son sempre dipinte con colori violenti per terrorizzare l’avversario, ma inediti nel campo delle relazioni tra nazioni civili, funzionò per Hitler talmente bene che fini per danneggiarlo mortalmente quando a spaventarsi non furono soltanto le piccole nazioni che egli aveva nel mirino, ma le grandi, nelle quali venne a crearsi per contraccolpo una allarmata schiera di Cassandre, che si dettero ad agitare corpo ed anima, e con una sostanzialo irresponsabilità, lo spettro di un «piano» tedesco per la dominazione del mondo intero.
Oggi sappiamo molto bene, ma era possibile intuirlo anche allora, che non soltanto un piano simile non esisteva, ma anche che era impossibile esistesse. Per quanto ricca di linfe e di grosse capacità, la Germania di allora — come del resto nessun’altra nazione del tempo — non aveva la materiale possibilità di conquistare, annettersi ed amministrare popolazioni di ceppo dissimile oltre una frazione molto piccola.
Tutti i «Governi Quisling» sorti come funghi nel periodo della massima estensione germanica, e persino la Repubblica di Salò, gemella in questo della petenista Repubblica di Vichy, nascono dall’ovvia constatazione che nella nostra epoca non è più pensabile programmare un’espansione senza legarla ai criteri della collaborazione, degli Stati vassalli, o degli Stati a «sovranità limitata»: criteri dei quali, forse, potè non tener conto il solo Alessandro Magno, ma che furono ben presenti agli oculati ed insuperabili amministratori della costruzione imperiale romana ed ai loro tardi eredi britannici, nel cui Impero non esiste territorio uguale ad un altro quanto a legame istituzionale col centro.
Per quanto è dato capire oggi, e non è moltissimo, la linea di condotta centrale di Hitler fu soltanto quella di profittare di ogni occasione a portata di mano per ottenere successi nell’ambito limitato della riunificazione di tutte le genti tedesche nell’Est europeo. Poiché parie di queste popolazioni ora soggetta a Stati nominalmente sovrani, l’obbiettivo comportava anche la distruzione di questi Stati, o con manovre intimidatorie, o con piccole guerre locali.
Ma mai una guerra generale, poiché Hitler si rendeva ben conto della verità di quell’assioma per cui una Grande Potenza è tale quando non accelta di combattere quei conflitti mortali, dai quali esce distrutta come Grande Potenza. E’ straordinariamente istruttivo costatare la consequenzialità tra questa sua persuasione di fondo ed il «tipo» di guerra che egli ispirò e fino ad un certo punto condusse, ancorandola ad una serie di inediti «trucchi» che spaventarono e disorientarono i suoi molti avversari, ma che non furono altro che i sostituti di una forza che egli fu sempre molto lontano dal possedere.
Erano un trucco i carri armati, e lo erano i paracadutisti, gli Stukas con la sirena nella coda, i fantocci fatti piovere di notte alle spalle del nemico: era un «trucco», insomma, l’intera teoria della «Blitzkrieg», che trasportava in sede militare i procedimenti ed i non solidi successi della propaganda politica.
Certo, le campagne di Polonia, di Norvegia, di Francia, ed anche quella di Russia fino al 1942. si studiano ancor oggi con una stupefatta ammirazione, poiché costituiscono esempi non ancora superati di quanto contino anche sul campo di battaglia il coraggio morale, l’intelligenza e la penetrazione psicologica, prima ancora che le armi.
Ma il fatto che la « Blitzkrieg » si sia infranta contro l’Armata Rossa, cioè contro una macchina militare abbastanza ottusa e brutale per non lasciarsi ingannare dai trucchi, e d’altra parte disposta a spendere a piene mani tutto il sangue necessario, dimostra ad usura, ed una volta di più, che nel quadro mentale di Hitler l’idea di un conflitto generale, di un conflitto davvero «serio» era del tutto esclusa.
E forse fu questo il suo errore più grande; temeva oscuramente la Russia, e ne guardava con inquietudine la crescita industriale, in quel momento seconda soltanto a quella degli Stati Uniti. Ne ricercò l’amicizia, ancora una volta, per mettere Londra e Parigi di fronte ad un’alternativa drammatica, o accettare la disintegrazione polacca, o risolversi ad una guerra «seria».
Quando con suo dispetto e stupore vide svanire la speranza di farla franca ancora una volta, allora si risolse a liquidare la Russia, convinto, ma forse non del tutto, che bastasse «un calcio alla porta per far crollare l’intero edificio». Si sbagliava, ma la medesima convinzione — e lo vedremo — nutrivano Churchill, Roosevelt e persino lo stesso Stalin. Fu un bel granchio generalizzata, che fini per giovare soltanto al dittatore georgiano: da «belva sanguinaria» divenne da un giorno all’altro il «buon zio Joe». con conseguenze di così vasta portata che è quasi impossibile rendersene pienamente conto oggi.
Nel 1939 gli inglesi non capirono affatto cosa in realtà girava nel cervello di Hitler, e perciò si spaventarono. E quando gli inglesi sì spaventano, si attengono sempre all’ipotesi peggiore, perché è assai meglio ricredersi che prendere randellate impreviste. Fecero benissimo, dal loro punto di vista, anche perché, ma questo lo si scoperse non certo nel 1939, Hitler stava al volante di una macchina ideologica capace di sprigionare nefandezze allucinanti, come infatti avvenne a guerra inoltrata.
Ma questo fattore, che per noi oggi è iscritto al passato, un passato ben conosciuto, meditato ed assimilato, nel 1939 apparteneva al futuro: mentre era al presente, almeno per chi volesse contemplarlo con occhio imparziale, il gigantesco massacro che stava spazzando la Russia almeno dal 1934. Non saremo troppo ingiusti coi politici eminenti di quegli anni se rileveremo che essi ebbero la più grande cura di applicarsi una benda sull’occhio sinistro, tenendocela ben ferma fino al 1945, con una decisione sostanzialmente immorale, per la quale Churchill coniò la disinvolta ricetta dell’allearsi «col diavolo e sua nonna».
Chi veramente cadde a capofitto nella pania delle grandi menzogne di Hitler fu proprio Mussolini che, pur essendo giornalista ed allenato da anni ad ogni genere di menzogne per uso popolare, non seppe mai coniarne una che avesse la stessa efficacia di quelle del suo collega. La più pietosa, ed anche la più rivelatrice, fu quella degli otto milioni di baionette, perché anche i ragazzini sapevano che con 42 milioni di abitanti l’Italia non avrebbe mai potuto mettere in divisa un esercito di questa grandezza.
E poi perché le baionette evocavano più il «quadrato di Villafranca» e le tavole di Beltrame sulla Domenica del Corriere 1915-1918, che lo scenario di guerre veramente moderne con quegli affascinanti mostri meccanici alati, terrestri e marini che popolavano la fantasia dei giovani d’allora, assai più informati e proiettati noi futuro di quanto non immaginassero i loro padri, ivi compresi i politici ed i generali che tenevano in quel tempo la cosa pubblica nelle loro mani.
Se son consentiti ricordi personali, mi par giusto indicare qui. in questo specifico punto tecnico-intellettuale, la vera linea di frattura tra le classi giovani del 1939 e quelle dei padri o dei nonni. Ed anche la ragione profonda dell’ammirazione quasi senza limiti che nelle stesse classi giovani destarono almeno sino al 1942 le imprese militari tedesche.
Sentivamo, forse, confusamente, che la mentalità ottocentesca dei discorsi, delle parate, delle lezioni di Cultura militare, materia obbligatoria nelle scuole, non era adatta ai tempi correnti, e capivamo anche che era pericolosa. Mussolini assicurava che «la mitragliatrice non conta, se non c’è lo spirito che la fa cantare», ma questa ci sembrava soltanto una mezza verità, per di più legata al mondo psicologico della trincea, antiquato — ai nostri occhi — quanto le opere ossidionali del maresciallo di Turenne.
Nel 1939, una volta alla settimana eravamo trascinati controvoglia alle lezioni di Mistica fascista, con oratori e professori per la verità assai eloquenti. Una sera, prendendo il coraggio a quattro mani mi alzai al termine di una lezione e chiesi al professore, il quale aveva dimostrato quanto fosse facile battere l’Inghilterra, come si poteva fare a raggiungere questo scopo, se la Flotta inglese era composta delle tali e tali navi da battaglia, quella francese dalle tali e tali, quella italiana dalle tali e tali, e se infine gli aeroplani, come si era visto nelle manovre, ma soprattutto in Spagna, erano in grado di far alcune cose, ma non altre.
A onor del vero mi lasciarono parlare liberamente, ascoltando con attenzione. Il professore, che poi passò disinvoltamente dal nero al rosso a tempo debito, meditò un poco e quindi disse: «Il Duce avrà pensato certamente a come risolvere il problema che voi avete posto».
Come sappiamo oggi, il Duce aveva ben fermo soltanto il principio di non farsi mai trascinare in un conflitto veramente generale, in un conflitto «serio», purché — qualunque cosa si ami sostenere ora — non era affatto uno stupido e conosceva benissimo la situazione italiana.
In tutta la penisola c’erano nel 1339 soltanto 300mila tra automobili ed autocarri, ed altrettante patenti, quando in Francia eran già due milioni, le une e le altre. Dalle Accademie di Livorno, di Caserta e di Modena uscivano meno di tre o 400 ufficiali effettivi ogni anno, e non c’era nemmen da pensare ad una grande Marina e ad una grande forza aerea, se prima non si fossero creati ed addestrati i marinai ed i piloti necessari.
Non avevamo né scorte di nafta, né di carbone, e non si era data mano ad alcun programma per quei succedanei che i tedeschi già fabbricavano, ottenendo gomma sintetica e, dall’idrogenazione del carbone, petrolio di buona qualità.
Queste gravi carenze costituivano una potente indicazione negativa nel caso di una guerra lunga e dura, ma contavano assai meno, o niente del tutto, nel caso di un conflitto limitato nel tempo, tanto più mettendo nel conto la straordinaria debolezza delle posizioni imperiali inglesi, ed il fatto che l’intera organizzazione militare francese era ipnotizzata e bloccata sul problema delle frontiere di Nord-Est.
Galeazze Ciano, in ricognizione a Salisburgo, apprese già il 12 agosto che «probabilmente» ci sarebbe stato un accordo coi russi. Gli entrò da un orecchio e gli uscì da un altro, sopraffatto dall’emozione di quanto Ribbentrop gli disse subito dopo, «ora vogliamo la guerra». Era una menzogna sfacciata. perché mai come in quel momento Hitler stava trescando sottobanco con quelli che chiamava «i vermi di Monaco», per ottonare il massimo al prezzo minimo.
Quel 12 di agosto, è assai probabile che nei suoi piani a corto termine non fosso neppur compresa una guerra vera e propria con la Polonia, innanzitutto perché poteva anche darsi che essa cedesse, ed accettasse il ritorno di Danzica nel seno tedesco, ed un plebiscito per il Corridoio. Ma poi anche per una ragione più generale: le Democrazie potevano forse accettare che la Polonia divenisse davvero uno Stato a sovranità limitata, ma non ne avrebbero probabilmente inghiottita la sua conquista manu militari.
Se poi avvenne proprio questo, la decisione di Hitler non può essere considerata autonoma, per il semplice fatto che egli aveva potuto firmare un accordo con Stalin, sulla base di un prezzo che era appunto la metà della sventurata nazione. I protocolli segreti del 23 agosto, stabilendo questa moneta di scambio, non soltanto aprirono le porte della Seconda guerra mondiale, ma furono senza dubbio l’origine prima della campagna tedesca in Polonia del primo settembre.
Senza il Patto, e persino con un atteggiamento di Stalin imparzialmente neutrale, Hitler non avrebbe osato, e si sarebbe contentato di Danzica e del Plebiscito, avendo dalla sua ragioni storielle che, per un curioso paradosso, erano anche più valide di quelle che lo avevano mosso alle precedenti imprese. Oggi si tende a dimenticare che la «città libera» di Danzica, antico anello forte della Lega Anseatica, era sicuramente una città tedesca, quanto era italiana la Trieste del 1915, benché si debba aggiungere che gli ultimi mille anni di storia non hanno ancora stabilito in modo sicuro per decidere sulla sorte di città come Danzica, che hanno la disgrazia di sorgere nel etnie completamente diverse.
E si dimenticano anche quei particolari minori, che son così utili a comprendere il senso degli avvenimenti: la seconda notte di guerra, Heinz Guderian, celeberrimo padre dei corazzali tedeschi, raggiunse col suo XIX Corpo la cittadina di Cross—Klonìa, e dormì nel castelluccio in cui erano sepolti suo padre e suo nonno, nel cui giardino aveva giocato da piccolo. I suoi pensieri, le sue «motivazioni», dovettero essere le stesse di quei tanti italiani che domani avessero la ventura di tornare a dormire nelle abbandonate dimore natali di Fola, di Parenzo o Abbazia.
Mussolini e Ciano ebbero dieci giorni di tempo per mettersi a tavolino ed analizzare con pazienza la nuova situazione che si stava creando, e della quale avevano notizie di prima mano. Non risulta che lo abbiano fatto, paralizzati com’erano dai sinistri presentimenti della “guerra grossa”.
Quando scoppiò su tutti i giornali la incredibile notizia delle strette di mano tra Ribbentrop e Molotov, si persuasero definitivamente che la danza infernale stava per cominciare, e svilupparono un’attività frenetica per tirarsene fuori in tempo. La sera del 31 agosto. Ciano convocò a Palazzo Chigi sir Percy Lordine, ambasciatore inglese, e gli disse puramente e semplicemente che l’Italia non avrebbe fatto nessunissima guerra.
Il giorno dopo, Mussolini annunzio agli italiani ed al mondo la sua «non belligeranza», fedele, una volta di più, alla tradizione curiale di un popolo che è di Santi e di Eroi, ma soprattutto di avvocati, capaci di produrre una gamma estesissima di etichette per le situazioni più imbarazzanti: per cui si è alleati, ma in una «guerra parallela», si combatte, ma come «cobelligeranti», e si fa persino il Re, ma come «luogotenente».
Prima ancora che immorale, la nostra «non belligeranza» fu un errore; non soltanto perché tolse efficacia alla guerra dei nervi che Hitler stava conducendo, ma soprattutto — ed è questo che importa — perché dette agli inglesi una attendibile misura della irresolutezza e debolezza mussoliniana. Fino a quel momento, essi erano stati alquanto incerti sulle possibili modificazioni profonde nel carattere degli italiani che il Fascismo forse aveva prodotto.
Da quell’istante cominciarono a pensare — purtroppo — che se la facciata era stata ridipinta, si trattava pur sempre del vecchio edifìcio. Non vi è alcun dubbio che una gran parte della strategia mediterranea di Churchill, tra il 1940 ed il 1943, fu influenzata dalla convinzione che contro l’Italia fosse possibile ottenere una cospicua serie di vittorie a buon mercato. Però, che il basso ventre dell’Asse fosse molle, non io aveva scoperto da solo.
Per essere onesti fino in fondo, bisogna aggiungere che in quell’agosto 1939 anche un fatto tragico come la guerra venne sommerso nelle coscienze di tutti dalla specialissima paralisi mentale indotta dal Patto Hitler-Stalin, al quale seguì in ogni parte del mondo un maremoto psicologico, politico e pratico la cui dimensione è stata accuratamente cancellala dalla memoria collettiva.
In Francia, quel primo ministro che per solito sfilava a pugno levato ogni 14 luglio, proprio Edouard Daladier, mise fuori legge il Partito comunista, di cui fece processare davanti ai Tribunali militari una quarantina di deputati. La polizia eseguì 11mila perquisizioni, sequestrando radio clandestine, armi, esplosivi ed opuscoli nei quali Francia ed Inghilterra eran denunziate come le «potenze imperialiste», da ostacolare e sabotare con ogni mezzo.
Thorez, presentatosi in un primo tempo au drapeau, disertò quasi subito, seguito da una robusta schiera di comunisti fedeli, inaugurando dal Belgio la prima «collaborazione» della storia. Goebbels, con alcuni comunisti francesi, tra i quali compare anche il tedesco Ernst Toergler, sospetto autore dell’incendio, del Reichstag, mette in piedi addirittura una radio emittente che si chiama «Humanité».
Ci sono anche dei martiri, in questa strana causa prò Hitler: tre operai comunisti fucilati a Parigi nel febbraio 1940 per gravi sabotaggi ed esplosioni ai danni dell’industria bellica. Velocemente, i grandi campi di concentramento sì riempiono di bei nomi dell’aristocrazia intellettuale ed operaia comunista: sindaci, deputati, giornalisti di sinistra, reduci della guerra di Spagna, e naturalmente le «teste» dei PC stranieri, in primo luogo Luigi Longo.
La polizia francese piomba subito nel segretissimo rifugio parigino di Ercoli, al secolo Palmiro Togliatti, e lo studio della storia non sarebbe quella cosa così affascinante che è, se non riservasse delizie come queste, lo scoprire per esempio che il leader numero due della Internazionale vien tenuto in galera per sei mesi, senza che nessuno lo riconosca, ufficialmente, si capisce.
In realtà, l’occhialuto professore vien recapitato a Mosca nel marzo 1940, in funzione di quegli scambi di chiarimenti sottobanco che qualunque regime intrattiene sempre coi suoi avversari, anche in tempo di guerra. Del resto, la stessa cosa succede in Italia, dove all’improvviso il Tribunale Speciale sembra dimenticarsi che esistano dei comunisti. Nel primo settembre del 1939 se ne condannano più di 250, che scendono ad una trentina nel secondo, e questa stracca attività repressiva continua così fino al giugno 1941.
Non soltanto: tra condoni, buone condotte e pentimenti ante litteram. in carcere non rimane quasi più nessuno, e pochissimi al confino di polizia, con una linea di condotta che sopravvive anche dopo l’attacco alla Russia. Quando la Francia di Pétain, o i tedeschi, restituiscono a Mussolini i comunisti italiani ristretti nei campi dell’Esagono, tutto si limita al confino di polizia nelle isole, in condizioni leggermente diverse da quelle che negli stessi anni sperimentano milioni di Ivan Denisovic nelle miniere d’oro dì Kolyma, o a Vurkuta, o anche milioni di ebrei a Buchenwald e Dachau.
È difficile sottrarsi all’impressione che tra Mussolini od il Pci non sia corsa un’intesa duratura, sul cui profilo psicologico si tornerà, per osservarne più da vicino il meccanismo. La catastrofe del Patto, in realtà, colpisce a morte la componente idealista del comunismo internazionale, al punto che i comunisti tedeschi arrivano a reclamare dal Komintern una maggiore rappresentanza «in quanto esponenti di un Paese alleato».
Tutti o quasi i Comitati centrali volano in pezzi, e migliaia e migliaia di comunisti abbandonano il partito. Rimangono i «duri», ma a prezzo di un’ automutilazione intellettuale che è la condizione indispensabile per sopravvivere all’interno del sistema, E potremmo considerarla sbrigativamente affare che non ci riguarda, se essa non fosse all’origine di una «lezione» sulla natura e sui motivi del Secondo conflitto mondiale che scarica sulla sola Germania la colpa primaria di esso. Assolvere Stalin, difatti, comporta di necessità il sostenere che la guerra sarebbe comunque scoppiata, dati i progetti hitleriani di dominazione mondiale.
Questi progetti non esistevano, perché non esistevano le condizioni di minima necessario a renderli operanti. Ma sembrò che esistessero perché all’azione circoscritta di Hitler venne a sovrapporsi il dirompente aiuto dell’espansionismo sovietico, ingrediente altamente esplosivo sul quale l’Europa occidentale si era tranquillamente addormentata dopo la scomparsa degli zar, la sconfitta militare dei loro eserciti la guerra civile, e le atroci vicende intestine successive alla morte di Lenin.
Allo storico, oggi, incombe lo sgraditissimo dovere morale di accettar di passare per ciò che non è, cioè per il difensore di Hitler, dei fascismi e di tutto ciò che essi hanno rappresentato. Ma questo accade proprio per le ragioni che si sono appena dette: in questo 1989, a mezzo secolo di distanza dai fatti, risulta quasi impossibile cercar di presentarli nella loro realtà obiettiva, senza che entrino immediatamente in gioco quei potenti meccanismi di autodifesa e di offesa ai quali dobbiamo, in fondo, la nostra incapacità collettiva a comprendere i tempi che corrono.
E questo dimostra, per nostra disgrazia, che la Storta non insegna nulla, cosicché i mezzi utilizzati volta a volta per fronteggiare le nuove emergenze son di regola quelli sbagliati, appunto perché dedotti da interprelazioni di comodo del passato.
Cercar la verità e tentare di dirla è perciò obbligo morale dello storico. Ma, forse, sarebbe più saggio parlare della coltura delle barbabietole, o della diffusione della pastasciutta nel mondo. Però un premio c’è: ed è lo scoprire che anche nella Storia, come in matematica, due e due fanno sempre quattro.
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CRONOLOGIA
E Galeazze Ciano celebrò il funerale dell’Asse
23 AGOSTO. Patto di non aggressione russo-tedesco
1 SETTEMBRE, ORE 13. Annunzio radio del governo italiano; l’Italia non prenderà alcuna iniziativa di operazioni militari.
3 SETTEMBRE. Dichiarazione di guerra anglo-francese alla Germania
17 SETTEMBRE. L’Armata Rossa attacca la Polonia da Est. Dichiarazione del governo russo secondo cui il patto di non aggressione russo-polacco del luglio ’32 è scaduto.
28 SETTEMBRE. Termina la campagna di Polonia.
3 OTTOBRE. La Conferenza Panamericana dichiara la neutralità di tutte le Repubbliche americane.
12-14 OTTOBRE. Richieste russe per basi militari alla Finlandia.
30 NOVEMBRE. Attacco russo alla Finlandia.
14 DICEMBRE. L’Unione Sovietica viene espulsa dalla Società delle Nazioni.
16 DICEMBRE. Il ministro degli Esteri italiano Galeazze Ciano, pronuncia alla Camera il discorso poi battezzato «Funerale dell’Asse».
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Il Sabato 16 settembre 1989
UNA FALCE SULLA TOUR EIFFEL
La «phoy war», o «guerra in sordina», o «guerra degli altoparlanti», o «dróle de guerre» , o comunque sia stata chiamata allora, dura sino al 9 aprile 1940, sino al momento in cui forze tedesche assai esigue ma audacemente manovrate occupano Danimarca e Norvegia, precedendo di un soffio un’analoga operazione anglo-francese studiata con le consuete lentezze, irresolutezze ed anche disinvolture tipiche degli Stati Maggiori e dei politici delle due democrazie. Vedremo il profilo ed il perché di questa stravagante svolta così periferica, ma forse è meglio esaminare prima proprio la «guerra in sordina», poiché i suoi sette mesi sono ricchissimi di insegnamenti, anche se si fa sempre finta di ritenere che durante quel lungo periodo non sia successo nulla.
Invece ci sono molte cose da dire, a cominciare dal fatto che nessuno si muove semplicemente perché nessuno ha un piano. Ci sono soltanto i limiti non scritti e non descritti, ma tassativi, entro i quali ciascuna Potenza impegnata intende mantenere gli avvenimenti. E da questi limiti che nascono le strategie, ed è su questo punto che la Seconda guerra differisce tanto dalla prima.
Nel 1914, tutte le Potenze hanno gettato nel conflitto, e subito, ogni loro risorsa impegnandola fino allo spasimo in un vero e proprio cozzo di tori infuriati. Il costo spaventoso delle tragiche esperienze maturate sul campo, da Tannenberg a Ypres, da Gallìpoli a Verdun, dalla Somme al Piave, filtra sui figli attraverso i racconti dei padri e modifica profondamente il carattere del secondo conflitto.
Tra quei padri, ci sono i politici, soprattutto i generali, passati allora attraverso l’inferno di quelle battaglie. Per cui nella Seconda guerra si realizza uno speciale accordo silenzioso tra masse e capi, basato sul rifiuto inconscio o semiconscio non tanto della guerra, quanto di «quel tipo» di guerra. Differenza sottile ma importante, perché essa condiziona dì sé l’intera gestione del conflitto, coi suoi splendori e le sue miserie, le sue contraddizioni apparenti.
Nel 1939 il periodo delle «masse grigie» è alle spalle in tutto il mondo civile. Son già nati i tecnici, gli specialisti e con loro son nati i motori, le radio, i telefoni, e perciò un nuovo tipo di consapevolezza e di rapporto con la realtà. Se si deve andare alla guerra, si va alla guerra ma, per la prima volta nella storia, col sottinteso che per fare un uomo ci vogliono vent’anni, e per un carro armato venti ore. Il carro è spendibile, l’uomo no.
Da questo punto di vista, la strategia più razionale del secondo conflitto è quella britannica, benché tutte le altre seguano ad una corta incollatura. Londra ha mandato sul continente, tra il 1914 ed il 1918, probabilmente più di 190 divisioni, ma ora, all’inizio del secondo conflitto, ne molla soltanto due, salite poi faticosamente a cinque, ed a sette nella primavera del 1940.
Il loro compito non è quello di combattere, ma di rincuorare i francesi, dicendo loro «siamo qui anche noi». Al momento in cui cominceranno a fischiare le pallottole, esse ripiegheranno prontamente sui porti della Manica in esecuzione di ordini che non hanno nulla a che vedere con la pericolosità dell’attacco tedesco, ma che son dettati esclusivamente dal fermo desiderio di non invischiare mai più in una battaglia terrestre le forze britanniche.
Tra il 27 ed il 28 maggio del 1940 c’è un momento in cui tutto sta appeso ad un filo, a Londra: se il Corpo dì Spedizione riuscirà a rientrare in Inghilterra, si rimarrà in guerra. Se sarà catturato, ci si metterà d’accordo con Hitler. Vedremo il come ed il perché. In realtà, la scelta irrevocabile inglese è quella di una strategia periferica, basata sul tentativo di attrarre le riserve centrali tedesche il più lontano possibile dal cuore dell’Europa, in modo da disperderle e logorarle.
Tradotto nella pratica, questo metodo comporta fatalmente di attizzare fuochi di guerra dovunque sia possibile, profittando di un dominio marittimo che consente di spostarsi con facilità lungo tutta la periferia. Comporta anche l’identificazione dei punti deboli del nemico, secondo il vecchio principio del «battili dove non sono»: purtroppo per noi italiani, il punto debole più vistoso dell’Asse è proprio io Stivale, e gli inglesi vi ricercheranno con tenacia, preveggenza e successo quelle occasioni che l’enorme potenza ed alta qualità della «Wehrmacht» negano altrove.
Il nostro orgoglio nazionale ci impedisce di distillare il succo profondo di alcuni sintomi: ma è un fatto che la Flotta britannica del Mediterraneo mette a punto già nelle manovre del 1936 quel piano di aerosiluramento delle navi da battaglia italiane che avverrà nella «notte di Taranto», quattro anni dopo. Ed un altro fatto è che i piani di sbarco dell’operazione «Influx», lo sbarco in Sicilia, sono già pronti alla fine del 1940, sulla premessa che l’isola offrirebbe «grandi opportunità».
Che poi son quelle che Anthony Eden codifica in una frase lapidaria: «Preferiamo avere l’Italia nemica, anziché amica». Linea di condotta che ci causerà una sequela di disgrazie. Una strategia periferica sta in piedi soltanto se c’è qualcuno disposto a «tenere il fronte» sul Continente. E questo qualcuno, per gli inglesi, è la Francia.
Ma la Francia non ha piani, perché non ha i mezzi per farne funzionare nessuno, neppure limitato. Si può ben essere coinquilini della glorie ed avere tra i propri avi Napoleone, ma nulla può porre riparo al fatto che i francesi sono quaranta milioni ed i tedeschi quasi il doppio. Perciò la Francia combattente si seppellisce nella Linea Maginot, dimenticando che essa e stata costruita allo scopo principale di risparmiare sul Reno quelle forze cospicue che dovrebbero funzionare da massa di manovra.
Anche Hitler è senza piani, ed è anche il solo a sapere che la posizione della Germania è critica al punto da non lasciare alcuna via di uscita reale. I suoi avversari e l’Unione Sovietica, provvisoriamente amica, divengono ogni giorno più forti e lo spazio centroeuropeo è troppo angusto per una manovra a linee interne.
Attaccare la Russia significa immobilizzare la «Wehrmacht» per un minimo di tre o quattro mesi su quelle lontanissime terre, e fornire ai francesi un’occasione irripetibile. Attaccare i francesi è soltanto un po’ meno pericoloso, richiedendo sei settimane: ma immobilizzerebbe egualmente l’esercito ad ovest, e Stalin sarebbe uno sciocco a non approfittarne, allungando le mani troppo vicino alle fonti di petrolio rumene, al Baltico, ai Balcani meridionali. In nessun caso sarebbe comunque possibile sbarcare in Inghilterra: perché conquistare Londra con le ingenti forze necessarie obbligherebbe Stalin a piombare su Berlino. Quello della guerra è un gioco duro, e vi sono ammessi soltanto i piccoli sbagli. Quelli grandi sono mortali.
Neppure Mussolini ha un piano, né la voglia di farne uno. Le sue valutazioni sulle possibilità militari di questo e di quello son di regola sbagliate, il che del resto lo accomuna a molte «teste fini» inglesi, francesi e anche americane. In compenso, fiuta da buon politico — e politico socialista — un insistente «vento dell’Est», con una intuizione a lungo termine che non pare sia mai stata messa nel dovuto rilievo.
E’ questa l’epoca in cui crescono i suoi sfoghi contro la borghesia, colpevole di ogni nequizia, e contro la monarchia, «relitto del passato»; e contro la Chiesa, che guarda «sempre più da ghibellino». Vorrebbe eliminare questi tre ostacoli, nell’inconscio tentativo di avvicinare quello che ritiene «un fascismo slavo, dato che il comunismo è morto».
Su questa strada si spinge piuttosto avanti, facendo pervenire a Mosca parecchie indiscrezioni sulle intenzioni tedesche, e persino una lettera anonima. Dichiara in pubblico di esser disposto anche «a marciare coi russi», e quando gli studenti di Milano e Torino insorgono contro il brutale attacco sovietico alla piccola Finlandia, egli li approva, autopersuadendosi che quelle manifestazioni «sembrano» contro i russi, ma invece sono contro i tedeschi.
Eppure, erano proprio contro i russi, e furono una delle ribellioni più autentiche di un’opinione pubblica ancora molto legata al senso morale della Storia. Non soltanto in Italia, perché tutto il mondo civile prende le difese della microscopica Repubblica finnica, attaccata senza motivo il 30 novembre 1939 dall’orso sovietico, in una «guerra dimenticata» le cui ragioni profonde forse non conosceremo mai: ma che ha per effetto immediato quello di ridurre quasi a zero il credito sovietico presso l’Occidente, già indignato, senza distinzioni di frontiere, per l’invasione da parte dell’Armata Rossa della Polonia orientale in appoggio a Hitler, con quello che subito i giornali inglesi chiamarono «il colpo di pugnale alla schiena».
Questa espressione passerà poi alla storia come coniata da Roosevelt e Daladier nei riguardi del tardivo attacco italiano alla Francia. Con ragione. Ma sarà bene non dimenticare che essa nasce nel 1939, con un bersaglio molto diverso. I «cento giorni» della Finlandia dimostrano assai bene la difficoltà dì far aderire la narrazione della Storia vera a tesi di comodo, perché essi creano quasi istantaneamente un «fronte» antisovietico, che finisce per legare sul piano psicologico le due democrazie in guerra alle due dittature europee.
Unica eccezione gli Stati Uniti, e meglio sarebbe dire Roosevelt ed i suoi consiglieri, fortemente radicati già da questo momento in una visione del mondo dominata da due sole Potenze, appunto Stati Uniti e Russia. Questa visione viene di lontano, perché nasce dalle viscerali simpatie dell’opinione pubblica americana per la Rivoluzione sovietica, «scopa degli odiosi zar», e dai potenti supporti morali e materiali forniti a Lenin nelle sue fasi più critiche: si sviluppa a ridosso del secondo conflitto sulle ali di una new left che è contemporaneamente antinazista, antibritannica e filosovietica. Durante la guerra produrrà guasti enormi, origine prima della disgraziata situazione nella quale oggi il mondo deve acconciarsi a vivere.
Ad aiutare la Finlandia corrono tutti, Stati e cittadini, con un fenomeno almeno tanto rilevante quanto quello delle Brigate internazionali nella Spagna del 1936. Arrivano 145 apparecchi, in gran parte da caccia, acquistati a prezzo fittizio, ed altri 79 regalati: Morane francesi, Gloster inglesi, Brewster americani ed anche 35 ottimi G50 della Fiat, che i finlandesi ribattezzano «Fijju», impressionati dalla velocità sibilante.
Ma ci sono, oltre alle macchine, anche i volontari, danesi, norvegesi, svedesi, tedeschi, spagnoli, italiani, americani: nasce una grossa Squadriglia internazionale, e nasce il progetto di un Corpo d’armata autonomo al comando di Kermit Roosevelt. personaggio «prezzemolo» che si ritrova qua e là, un po’ in tutte le vicende della guerra, come accade al suo omologo britannico, Randolph Churchill: entrambi più occhi ed orecchie dei loro illustri parenti che uomini d’azione autonoma.
Come si sa, la Finlandia regge eroicamente fino al marzo del 1940 contro forze russe che salgono durante i cento giorni da 36 a 50 divisioni, e da 500mila ad 800mila uomini, con 2mila carri e 2mila aeroplani. A Salla, Suomusolmj, in Carelia, sul Ladoga i disgraziati «tavarisc» cadono a centinaia di migliaia, subito incapsulati dai ghiacci perenni della notte artica.
Stalin destituisce un nugolo di generali, ne fucila altri, fa bombardare Helsinki, «fa la pace» con un governo fantoccio subito istallato appena al di là della frontiera careliana, ed alla fine è costretto a contentarsi di qualche chilometro quadrato nella regione di Petsamo ed in quella di Viborg. In compenso, la Russia viene espulsa nel dicembre 1939 dalla Società delle Nazioni all’unanimità. Particolare così trascurabile e così poco citato, che il parlarne oggi sembra pura malvagità.
Questa «guerra d’inverno» non soltanto consolida nelle democrazie occidentali e nello Stato Maggiore tedesco un giudizio fortemente negativo sulle capacità dell’Armata Rossa, ma innesca una stupefacente cascata di piani anglo-francesi, molto confusi e molto incauti, il cui obbiettivo finale è quello di «punire» la Russia anche a costo di guerra.
Non sapremmo quasi nulla di questi progetti, la cui esecuzione avrebbe potuto cambiare il corso della storia, se nel giugno del 1940 i tedeschi avanzanti in Francia non avessero trovato a La Chiarite un treno abbandonato di una ventina di vagoni, carichi dell’intero archivio dello Stato Maggiore francese. I documenti vengono passati al setaccio, e sottoposti ad Hitler, il quale ordina la pubblicazione di una ventina di essi, tenendosi in mano gli altri come arma di ricatto: poiché, come ognuno sa, un ricatto funziona soltanto se non esplode.
Dopo, non serve più. A riprova, si può ben rilevare che i documenti di La Charité sono scomparsi nel nulla: giacciono sicuramente in qualche archivio «chiuso», dove continuano a funzionare allo stesso modo.
I piani francesi ed inglesi erano due. Allo scopo un po’ ipocrita di aiutare la povera Finlandia, si sarebbe sbarcato un Corpo di spedizione in Norvegia e poi, chiedendo libero transito ed appoggio alla Svezia, lo si sarebbe fatto arrivare in Finlandia. Tutto questo avrebbe avuto come premio la possibilità di interrompere i vitali rifornimenti di ferro svedese alla Germania, nonché di sbarrare con estesi campi di mine le neutrali acque costiere norvegesi che servivano così bene ai sommergibili tedeschi per sboccare in Atlantico attraverso lo Stretto di Danimarca.
I politici inglesi, Churchill alla testa, erano assai attirati da questo gruppo di idee dalle quali si ripromettevano grossi successi a basso costo: obbligare Svezia e Norvegia ad una scelta di campo, minacciare da Nord il Baltico, tranquilla area per l’addestramento delle unità na (…)
(…)ta, di impadronirsi delle miniere di ferro del nord scandinavo e di minare le acque territoriali norvegesi. La spedizione fu organizzata così bene che nelle navi gli sci, indispensabili per scaricarle, erano stati stivati sotto cannoni, mitragliatrici, viveri e rifornimenti vari. Inoltre, nessuno aveva tenuto conto dei bassi fondali, per cui le navi dovettero fermarsi nei fiordi, senza poter attraccare. Agli inglesi toccarono navi francesi che portavano macchine da scrivere, ed ai francesi navi inglesi con materiale ferroviario. Comunque, Hitler precedette gli uni e gli altri con un’operazione audacissima, e basata su rischi alla fin fine paganti, ma insolitamente alti.
Il primo marzo chiamò il generale Falkenhorst e gli disse che doveva occupare la Norvegia con sette divisioni, e la Danimarca con altre due. Falkenhorst uscì dalla Cancelleria, comperò tutte le carte geografiche norvegesi che potè trovare nelle cartolerie vicine, e realizzò il suo colpo esemplare, passando sotto il naso della Flotta britannica, intenta a minare le coste ed a sorvegliare i convogli, senza un pensiero al mondo. I tedeschi avevano anche un piccolo asso nella manica.
A Narvik, situata a 1.800 chilometri dalle basi di partenza, c’erano due petroliere mandate graziosamente da Stalin, e vi son prove di un grosso lavoro sottobanco tra i due servizi informazioni. Finì come doveva. Giubilante, Chamberlain aveva annunziato che «Hitler aveva perso l’autobus». Ma quella volta non lo perse, anche se è vero che la Norvegia gli costò cara e gli servì a poco, comunque non subito. I franco-inglesi dovettero reimbarcarsi «coi loro giocattoli», come commentarono acidamente gli americani, ma Hitler si trovò a dover mantenere in Norvegia quella quindicina di divisioni che gli avrebbero fatto così comodo altrove.
Almeno uno degli obbiettivi primari britannici era stato raggiunto, quello di disperdere le riserve centrali nemiche. Che poi questo vantaggio fosse stato pagato di persona da un neutrale, era poco importante. Le truppe alleate avrebbero abbandonato i ghiacci norvegesi comunque, ma è certo che la loro decisione di mollare fu accelerata dal colpo di tuono dell’attacco tedesco alla Francia, il 10 maggio del 1940.
Il generale Gamelin aveva appena detto di essere disposto a dare un miliardo ad Hitler se gli avesse fatto il piacere di attaccare: ed Hitler glielo fece davvero, sbaraccando la Francia in sei settimane, così come aveva sempre detto. Le ragioni di questa stupefacente disfatta, non identificate allora e del resto neppure Oggi, sono assai sottili, rimontano alla Prima guerra mondiale, e sono a loro volta all’origine dei grossi equivoci che seguirono; alcuni di questi riguardano da vicino l’Italia, ed è per questo, oltreché per alcuni insegnamenti e riflessioni di carattere generale, che val la pena di analizzare un po’ meglio i preliminari, la gestazione di questa «battaglia di Francia» e la parte di primo piano che vi ebbe il sulfureo cancelliere tedesco.
Negli anni precedenti la Prima guerra, il capo di Stato Maggiore di Guglielmo II, conte Schlieffen, aveva studiato un piano di attacco alla Francia, passando attraverso il neutrale Belgio, con un’ala marciante molto forte che si sarebbe abbattuta come una pesante stecca di ventaglio sulla regione di Parigi, facendo perno sulla zona — più o meno — del Lussemburgo.
Il presupposto del piano era che quest’ala doveva essere la più forte possibile, ed anche che, ruotando sul perno, i corpi d’armata che la costituivano dovessero marciare allineati, in modo da non lasciare intervalli tra di loro: cosa non facile perché occorreva armonizzare la velocità, essendo ovviamente più alta quella dei Corpi estremi e più bassa quella dei corpi prossimi al perno. Morendo nel 1913, si narra che il conte Schlieffen mormorasse come estremo viatico: «Forte l’ala destra».
Nel 1914. Von Moltke junior mise in alto il piano, ma i corpi non marciarono come dovevano e l’ala si indebolì per una serie di ragioni secondarie. Sulla Marna il francese Joffre ebbe buone opportunità per sfruttare gli errori, le sue linee interne, ed anche la stanchezza dei boches che si eran fatti centinaia di chilometri a piedi in un’estate torrida. Fu il «miracolo della Marna» che distrusse nei tedeschi le speranze di una guerra rapida, come era stata quella del 1870, ed aperse le porte ai carnai successivi, per quattro lunghi anni e quattro milioni di morti, tutti in pochi chilometri quadrati di terra maledetta.
Tra le due guerre, fiorì una acre polemica tra francesi e tedeschi, che noi giovani seguimmo appassionatamente, poiché, a differenza di oggi, avevamo molto tempo disponibile per leggere, ed anche buoni testi e buone riviste specializzate. I tedeschi sostenevano che il piano del conte Schlieffen non aveva funzionato per difetti di esecuzione, ma che esso era geniale e tecnicamente corretto.
I francesi sghignazzavano, e ribattevano che l’esecuzione non c’entrava affatto: era il piano ad esser greve, teutonico ed opaco, pura applicazione di forza bruta, laddove la guerra è definita un’arte proprio perché la sua condotta non può essere preordinata come alle manovre, ma improvvisata sul campo, da comandanti che debbon essere non «trascinatori di sciabole», ma spiriti eletti, schermidori di gran classe, cervelli di logica cartesiana.
All’inizio del 1940, durante la stasi d’inverno. Hitler chiede all’Ufficio Piani della «Wehrmacht» un progetto di attacco risolutore alla Francia, e l’Ufficio ne prepara uno con lodevole rapidità, ricalcato sul piano Schlieffen, con alcune varianti destinate a riparare agli errori del 1914. Si estende l’ala marciante anche all’Olanda, si rivedono gli orari di marcia migliorandoli con l’uso dei motori, si piazzano le dieci divisioni blindate all’estrema ala destra, cosicché il colpo di maglio sia in grado di schiacciare qualunque resistenza.
In sostanza, una copia scolastica ed aggiornata del 1914. Hitler esamina il piano e lo restituisce dicendo bruscamente «non è quel che mi serve: i francesi si aspettano proprio questo. E voi. dandogli questo, sacrificate il più ed il meglio del pensiero militare tedesco, la sorpresa».
Quel che serve ad Hitler germina nello stesso momento in tre cervelli, nel suo, in quello di Heinz Guderian ed in quello di Von Manstein come prodotto di una collaborazione che abbina alle alte qualità di due generali, forse tra i migliori in assoluto messi in luce dalla Seconda guerra, l’impronta funambolica di Hitler, capace di percepire anche quelle qualità psicologiche del campo di battaglia che non entrano quasi mai nel bagaglio di un militare.
Manstein e Guderian, infatti, rovesciano l’impostazione del Piano Schlieffen, ed in questo scoprono di esser stati preceduti dallo stesso Hitler, con un abbozzo di progetto quasi simile. Essi vogliono utilizzare si un’ala marciante, ma finta: l’attacco vero e proprio sarà portato con tutte e 10 le divisioni corazzate sbucando «dal perno» direttamente su Sedan ed i ponti sulla Mosa, per puntare poi velocemente verso la Manica, in modo da tagliar fuori le forze francesi, britanniche, belghe ed olandesi dislocate più a Nord.
Hitler approva questo «colpo dì falce per sud», ma intanto divide in due battaglie distinte, una dopo l’altra, il complesso delle operazioni, e poi varia il dosaggio nella distribuzione dei carri: solo sette divisioni sbucheranno dalle Ardenne belghe, perché altre tre saranno collocate nell’ala marciante: l’avversario deve «vedere» i carri, deve essere assolutamente sicuro che la minaccia viene di lì, e soltanto in questo caso spingerà in avanti nel Belgio le sue forti Armate. Senza esca potrebbe non muoversi, ed allora il «colpo di falce» o batterebbe sul duro, o non taglierebbe fuori proprio nulla.
Così alle 5,35 del 10 maggio 1940, 135 divisioni tedesche, distese tra la Svizzera e l’Olanda, si lanciano all’attacco di 134 divisioni francesi, britanniche, belghe ed olandesi. Stessi aerei da una parte e dall’altra, stesso numero di carri, anzi con una leggera prevalenza alleata. Alle 6,30 Gamelin dirama i la sua «Istruzione numero 9 personale e segreta», in forza della quale 33 Divisioni franco-britanniche, le migliori, levano di volata le tende e si precipitano in Belgio, incontro «al tedesco», e dentro la rete.
Dal Quartier Generale giunge alle truppe il messaggio del Capo: sei righe, nelle ultime due delle quali suona la vecchia alterigia gallica: «Come ha detto 24 anni fa il maresciallo Petain: “Li avremo”».
All’alba di cinque giorni dopo, la voce isterica di Paul Reynaud, nuovo primo ministro francese, scoppia nel telefono di un assonnatissimo Churchill: «Nous somnies foutus, nous avons perdu la bataille». La polemica tra le due guerre dovrebbe terminare qui, perché, come dice la Bibbia «vi misero sulle bilance, ed il vostro peso fu trovato scarso». Ma le nazioni non accettano mai che il discrimine tra vittoria e sconfitta sia di natura intellettuale e preferiscono sostituirgli quello della forza. Bruta, possibilmente. Da questa speciale consolazione nascono nel 1940 equivoci immensi, e cambiali in bianco che un giorno o l’altro saremo pur chiamati a pagare.
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CRONOLOGIA
Hitler scatenato
30 NOVEMBRE 1939: l’Unione Sovietica attacca la Finlandia.
1 MARZO 1940: gli inglesi decretano il blocco dei piroscafi italiani che trasportano carbone dai porti tedeschi al Mediterraneo. Hitler decide per la conquista di Danimarca e Norvegia, precedendo analoghe operazioni anglo-francesi.
10 MAGGIO 1940: attacco tedesco alla Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo.
24 MAGGIO-1 GIUGNO 1940: reimbarco a Dunkerque del Corpo di spedizione britannico.
10 GIUGNO 1940: dichiarazione di guerra italiana a Francia ed Inghilterra.
17 GIUGNO 1940: richiesta di armistizio avanzata dal maresciallo Pétain.