“Cancellata” l’informazione scientifica proveniente dagli USA
Eugenia Roccella
Cosa diranno adesso, tutti coloro che hanno prospettato l’introduzione in Italia della pillola abortiva, la RU 486, come la nuova grande battaglia per la salute e la libertà delle donne? Cosa dirà chi giurava a destra e a manca “è un metodo sicuro e indolore, il più sicuro e il più indolore”?. Sul New England Journal of Medicine, una delle testate scientifiche maggiormente accreditate in campo interbazionale, è apparso il primo dicembre un articolo che mette severamente in guardia dai rischi dell’aborto chimico, e invita gli operatori a usare la massima cautela.
L’autore, il dr. Michael Greene, professore alla Harvard Medical School e prestigiosa firma della rivista, ricorda come la Food and Drug Administration sia stata costretta a modificare, per ben due volte in otto mesi, le avvertenze che riguardano il mifepristone, a seguito delle morti avvenute negli Stati Uniti per choc tossico da Clostridium Sordellii.
Inoltre sottolinea come le donne decedute fossero tutte giovani e in buona salute; nessuna di loro presentava visibili complicanze, nemmeno la febbre, e l’unico sintomo di cui si lamentavano era costituito da forti crampi addominali, problema del tutto comune tra chi assume la pillola abortiva. Morti, dunque, silenti e ingannevoli, asintomatiche e rapide, contro cui è stato impossibile lottare. Ma soprattutto, il dr. Greene ragiona seriamente sulle percentuali di mortalità dell’aborto chimico.
Poichè la RU 486 si può utilizzare solo fino all’ottava settimana di gestazione, bisogna paragonare il rischio con quello delle altre procedure abortive fino alla stessa data; è ovvio, infatti, che l’aborto chirurgico, che si può effettuare anche oltre questo limite (e in alcuni paesi anche senza limite alcuno) è tanto più rischioso quanto più la gravidanza è avanzata.
Se confrontato con questi criteri, gli unici corretti e scientificamente ammissibili, il tasso di pericolosità del metodo chimico si rivela 10 volte più alto di quello chirurgico. Una percentuale pesante, difficile da ignorare.
Eppure, è possibile che venga ignorata. In Italia i sostenitori della pillola abortiva, e purtroppo gran parte della stampa, tendono a sorvolare sui fatti per puntare euforicamente sull’ideologia: si discute sulla contrapposizione laici-cattolici, su chi vuole costringere le donne ad abortire con dolore e chi invece, avendo a cuore il loro bene, le vorrebbe far abortire con aerea leggerezza.
Dei fatti, e delle cautele che i fatti impongono, nessuno vuole sapere, né discutere pubblicamente.
Silvio Viale, il medico che per primo ha chiesto la sperimentazione della RU486, e che si è poi candidato alla segreteria del Partito Radicale, in un’intervista apparsa sul “Secolo XIX” ha liquidato le perplessità espresse dalla Fda come “balle messe in giro dal movimento per la vita americano”. Vila , però, è in primo luogo un militante politico; meno facile è capire perchè i nostri più diffusi e seri quotidiani si siano appiattiti su un’informazione sbilanciata, che tende a sorvolare sui rischi reali del metodo chimico.
Il “New York Times”, tempio dei liberal americani, ha dato conto del dibattito sulla Ru 486 sempre con grande equilibrio, ospitando più volte voci contrarie e notizie allarmanti.
Non solo ha riportato esaurientemente la notizia delle morti da choc tossico, ma già nel 2002 (il 25 settembre) aveva pubblicato un lungo articolo sulla diffidenza generalizzata degli operatori sanitari nei confronti dell’aborto chimico, e sui motivi per cui negli USA pochi medici lo consigliano e poche donne vi ricorrono.
Aspettiamo fiduciosi che la nostra stampa si adegui.