Ordine e pace. Dei due termini è il secondo quello che campeggia dovunque e comunque ma nel cristianesimo sono inscindibili
di Rino Cammilleri
Ordine e pace. Dei due termini è il secondo quello che campeggia dovunque e comunque. «Prima di tutto la pace», slogan spesso ipnotico che induce a pensare come la pace sia il fondamento irrinunciabile di ogni vita. Gli è stato opposto intelligentemente quest’altro: «se vuoi la pace difendi la vita», giacché la vita e la sua possibilità presuppongono tutto il resto. Le offensive di pace sempre perseguite da chi era sull’orlo di perdere la guerra, sono state uno degli strumenti privilegiati con cui l’Urss – perennemente in guerra col resto del mondo – ha cercato di disarmare psicologicamente e di fatto gli avversari.
Il «meglio rossi che morti» di Bertrand Russel andava bene in un mondo edonistico per il quale la vita materiale costituiva l’orizzonte ultimo. Ma fatti recenti, tra cui quelli di Romania – pur tra le loro disinformazioni – ci hanno mostrato come non sia vero che i diretti interessati considerino qualsiasi pace migliore del conflitto. Perché in apertura abbiamo accompagnato il termine «pace» con quello di «ordine»? Perché per il cattolico le due cose sono inscindibili.
Secondo Sant’Agostino, infatti, «pace» è «tranquillità nell’ordine». Ma cos’è l’«ordine»? C’è, come sappiamo, un «ordine» comunista, il cui «mantenimento» è sempre stato ingiusta repressione e campi di concentramento. L’ordine cristiano è di tutt’altra fatta e i suoi lineamenti sono da sempre insegnati dalla Chiesa nella sua dottrina sociale. Questo «ordine» parte non dalle costituzioni ma dall’enunciazione primaria degli imprescindibili diritti di Dio.
Perché l’«ordine» sia veramente tale ci vuole innanzitutto un popolo. E anche qui la confusione è somma. Se interroghiamo la storia vediamo che su questo termine non c’è univocità. Per i greci «popolo» era la comunità degli uomini liberi, da cui venivano esclusi gli stranieri, gli schiavi, le donne e i nullatenenti. Per i romani si trattava di coloro che avevano la cittadinanza, perché legati alle istituzioni (Senatus Popolusque Romanus, Spqr).
Nel significato romantico troviamo la «buona gente» di tipo manzoniano e sappiamo cosa intendevano gli Illuministi: la «volontà générale» di rousseauiana memoria. Il nazismo si riferiva alla comunità del sangue e Garibaldi identificava tout court «popolo» con «nazione». Il marxista dal canto suo, distingueva fra proletariato operaio e delle campagne (adesso si adegua alle mutate realtà e intende per «popolo» nient’altro che il «corpo elettorale», almeno da noi). In campo cattolico abbiamo il post conciliare «popolo di Dio», espressione che genera non poche ambiguità.
Cosa vuol dire esattamente? Popolo «che appartiene» a Dio? In questo caso l’accezione è senz’altro vetero-testamentaria ed attiene più agli ebrei. Se si intende parlare di popolo che «dà la sua fede» a Dio, allora siamo senz’altro nel campo del Vangelo. Se invece si vuol fare riferimento a un popolo «portatore» di una fede in Dio , cadiamo nel più puro storicismo e siamo di nuovo fuori strada.
Il «popolo» non è «la massa»: esso vive nelle sue comunità naturali e si sviluppa dal basso, ma movendosi di vita propria. Come ha acutamente osservato Massimo Fini nel sui «La Ragione aveva torto?», noi – a differenza dei medioevali – non siamo padroni neppure di piazzare un lampione nella nostra strada senza autorizzazione dello Stato.
E lo stesso progresso economico, non è forse termine tra i più ambigui? «Progresso deriva» dal latino «pro-gradus», cioè «passo in avanti». Ma «avanti» implica avere idea di dove si voglia andare e da dove si parta: infatti chi si trovasse esattamente al Polo Nord, in qualsiasi direzione si volgesse andrebbe sempre a Sud. L’idea stessa di un progresso economico indefinito (proprio perché «non definito») è letteralmente inumana. Si fatica a procurarsi dei beni, e – perché no? – magari per arricchire. Ma una persona normale vuole prima o poi godere di qualche ha guadagnato, e questo implica necessariamente il fermarsi. Altrimenti si entra in un altro ordine di idee, cioè quello marxista, in cui il lavoro non è più un mezzo ma il fine.
E’ curioso come la parola «lavoro» abbia soppiantato il latino «negotium» (composto di «nec otium», intendendo per «otia» le attività spirituali e letterarie). «Lavoro» deriva invece da «labor», che vuol dire «fatica», «travaglio» (ciò, insomma a cui fu condannato Adamo cacciato dall’Eden). Come si vede, si tratta di recuperare il senso esatto di parole la cui esatta definizione non è fatica superflua, poiché implica anche il capovolgimento della verità sull’uomo, che da «sapiens» corre sempre più verso il rischio di diventare davvero, marxianamente, «oeconomicus».