La seconda puntata della rassegna dei papi che hanno portato il nome Benedetto presenta la figura di Benedetto XI, il successore di Bonifacio VIII, e quella di Benedetto XII, il terzo dei cosiddetti papi avignonesi. In appendice, i due antipapi Benedetto XIII e Benedetto XIV
di Lorenzo Cappelletti
Il nome Benedetto si riaffaccia, forse non a caso, potremmo dire a posteriori, con Benedetto XI (1303-1304), l’immediato successore di Bonifacio VIII (1294-1303) che, sul crinale fra XIII e XIV secolo, era stato come l’ultimo alfiere di quella Riforma a presumere di poter dare scacco matto al re.
Benedetto XI
A quanto pare, Benedetto XI prese quel nome non in discontinuità ma per omaggio a Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), al quale fu fedele in vita e in morte. Eppure il suo pontificato, nei limiti delle possibilità e del tempo troppo breve di otto mesi, mostra una certa discontinuità rispetto a quello del predecessore, segnalata già, secondo gli autorevoli studi di Gerhart Ladner, dalla forma semplice della tiara da lui indossata a differenza di quella monumentale a triplice corona di Bonifacio.
Poco importa che questa discontinuità sia stata il frutto di un’impotenza piuttosto che di una deliberata strategia. La Chiesa è o non è del Signore? Sono gli idealismi vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, a cui piace distinguere nella storia del papato, quasi come fasi dialettiche, soggettività forti e soggettività deboli: «la fede e la volontà incrollabile» (G. Falco, La Santa Romana Repubblica, 346) di Bonifacio, da una parte; dall’altra, la inadeguatezza e incapacità di Benedetto XI, leitmotiv della voce a lui dedicata nella recente Enciclopedia dei papi.
Voce già comparsa identica, finanche negli a capo, nel Dizionario Biografico degli Italiani 35 anni prima (brutta pubblicità per la Treccani! Soprattutto in considerazione dei numerosi studi recenti di Vito Sibilio, Carlo Longo e altri).
In realtà il pontificato di Benedetto XI segna una discontinuità tanto più forte quanto più inalterata rimase la fedeltà di Benedetto a Bonifacio. In fondo, cedendo rispetto alle pretese del suo predecessore, Benedetto non solo ne preservò la memoria, ma preservò la successione apostolica. La condanna postuma di Bonifacio da parte di un concilio, richiesto pervicacemente dai consiglieri del re francese, avrebbe infatti significato l’annullamento degli atti di Bonifacio, e questo andava evitato comunque.
Benedetto XI, al secolo Niccolò di Boccassio, figlio di un notaio trevigiano, si fece domenicano nel 1257, nel convento della sua città natale, e percorse poi un iter normale sia come insegnante che come superiore all’interno dell’Ordo praedicatorum, che, insieme alla «sua propensione a comporre i grandi dissidi» (come si legge in Bibliotheca sanctorum, perché Benedetto XI, unico fra i papi che portano questo nome, fu proclamato beato: va tenuto presente), fu la migliore carta di credito al momento della sua elezione a maestro generale dell’Ordine nel maggio 1296.
In quel momento era in pieno svolgimento, infatti, l’asprissima contesa dei Colonna – eredi, si potrebbe dire, delle antiche pretese localistiche dei romani sul papato – contro Bonifacio VIII. Pretese efficaci perché si stavano per saldare a quelle nuove del re di Francia Filippo IV il Bello.
Niccolò di Boccassio, nel capitolo generale del 1297, schierò decisamente il suo Ordine dalla parte della legittimità di papa Bonifacio messa in discussione in quella lotta. L’elevazione al cardinalato l’anno successivo e poi, nel 1300, l’ulteriore promozione a decano del Sacro Collegio lo ricompensò di tale fedeltà.
Una fedeltà che lo portò non solo ad agire come legato in diverse missioni di pace, ma a condividere in prima persona tutto il dramma degli ultimi giorni di Bonifacio, dall’ingiuria di Anagni fino al ritorno e alla morte del Papa a Roma nell’ottobre 1303. Il misfatto si svolse «palam […] in nostris etiam oculis», scriverà poi Benedetto XI nella bolla di condanna degli autori materiali fra cui Sciarra Colonna e Guillaume de Nogaret.
D’altra parte egli non era Bonifacio né per temperamento né per curriculum. La sua elezione come papa alla prima votazione fu la scelta consapevole da parte dei cardinali di un pontefice che non smentisse, certo, ma che allo stesso tempo non ripetesse Bonifacio. Proprio il suo essere inerme e super partes favorì, almeno inizialmente, il venir meno di disastrose conflittualità.
Tanto che alcuni autori, come lo storico domenicano Pierre Mandonnet, hanno creduto di rinvenire in Benedetto XI il profetico Veltro dantesco che avrebbe dovuto sconfiggere la cupiditas dominandi simboleggiata dalla lupa e riportare la pace: «… infin che ’l veltro / verrà, che la [la lupa] farà morir con doglia. / Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro. / Di quella umile Italia fia salute / per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute. / Questi la caccerà per ogne villa, / fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, / là onde ’nvidia prima dipartilla» (Divina Commedia, Inferno, I, 101-111).
In effetti Benedetto tolse la scomunica a Filippo il Bello e l’interdetto a diverse città di Francia, concedendo il perdono a tutti, tranne a coloro che erano stati coinvolti direttamente nell’attentato di Anagni, i quali furono chiamati a comparirgli davanti, pena la solenne promulgazione della scomunica (ma il Papa morì improvvisamente e dunque neppure costoro furono colpiti da provvedimenti). Liberò dalla scomunica anche i due cardinali Giacomo e Pietro Colonna, pur non reintegrandoli nel Collegio cardinalizio. E dal carcere Iacopone da Todi.
Bisogna considerare, per capire la portata di tali atti di clemenza, che l’uso fin troppo esteso, anche per motivi politici e fiscali, della scomunica e dell’interdetto – cosa che significava privare dei sacramenti non solo singoli ma intere città e province – aveva e avrebbe costituito nella prima età moderna uno dei più gravi e oggettivi motivi di scandalo. E dunque non fu solo un escamotage diplomatico da parte di Benedetto, nella lettera del 2 aprile 1304 a Filippo il Bello, motivare tale magnanimità con la sua sollecitudine pastorale.
Ma, nonostante tutte le accortezze diplomatiche e pastorali, già col mese seguente Benedetto fu costretto a lasciare Roma, fattasi di nuovo pericolosa per lui, e a rifugiarsi a Perugia da dove non sarebbe più tornato. Morirà infatti il 7 luglio per un’improvvisa dissenteria attribuita a fichi. Avvelenati? «L’improvvisa morte dette corso alle solite dicerie che l’attribuirono al veleno dei cardinali o addirittura del Nogaret», taglia corto la voce dell’Enciclopedia dei papi, forse perché doveva uscire in fretta in occasione del Grande Giubileo.
Ma, stando anche solo a quel che alcuni cardinali insieme a Nogaret avevano tramato e continuavano a tramare, non sarebbe opportuno elevare la diceria almeno al rango di ipotesi? Vox populi…
Dunque è a partire da Benedetto XI che i papi e la Curia si allontanano da Roma per non farvi più ritorno se non dopo un sessantennio. È lui il primo papa “avignonese”. D’altronde il territorio di Avignone (non si tiene mai presente) era pontificio né più né meno di Anagni o Segni. E inoltre, già nei due secoli precedenti, il tempo trascorso dai papi fuori Roma era stato maggiore di quello trascorso in città. Per dire che va ridimensionata la «cattività babilonese» di Avignone lamentata dal Petrarca. Gli studi del Novecento l’hanno evidenziato.
Benedetto XII
Benedetto XII (1334-1342) è l’altro papa del Trecento ad assumere il nome Benedetto. Scelta che nel suo caso sembra di nuovo riferita innanzitutto al santo patriarca del monachesimo occidentale. Benedetto XII era stato infatti cistercense. Ma non è escluso che si volesse richiamare anche a Benedetto XI. In effetti accomunavano i due papi tanto la professione religiosa quanto il rigore della vita. Ma non solo.
Li accomunava anche la fedeltà personale, unita alla necessità di prendere le distanze, rispetto ai loro immediati predecessori che erano stati coinvolti in lotte talmente cruciali col potere regio e imperiale (ormai non più distinti se non per nazionalità) da costringerli ad affermazioni e reazioni aspre tanto quanto quelle che intendevano combattere.
Se Bonifacio VIII, predecessore di Benedetto XI, aveva ingaggiato una lotta senza quartiere con Filippo il Bello, Giovanni XXII (1316-1334) si era trovato a fronteggiare l’assalto per certi versi ancora più deciso, tanto dal punto di vista dottrinale che disciplinare, di Ludovico il Bavaro, che era arrivato a farsi incoronare imperatore a Roma da un antipapa fatto appositamente eleggere e che per la prima volta nella storia fu definito proprio con questo epiteto.
Tanto sovrani che papi duellavano con tutti i mezzi a disposizione, ivi compresi eserciti di scrittori e scorte di trattati. Quelli di ecclesiologia conoscono allora la loro nascita ufficiale: «Mentre la grande Scolastica non aveva redatto trattati separati di ecclesiologia, di colpo, nel giro di qualche anno, ne compaiono parecchi dai titoli simili. Titoli significativi in cui si parla essenzialmente dei poteri, dei due poteri e dei loro difficili rapporti». Così Yves Congar, ne L’Eglise de saint Augustin à l’époque moderne (ristampa del 1997, 270-271).
Il clima dell’epoca in effetti è determinato da contrapposte pretese di potere, in cui qualunque schieramento, anche il più legittimo, era destinato a servire un “particulare”. Tanto più si teorizzava una globalità tanto più i fatti intervenivano a smentirla. Non più il papa ma un francese a cui contrapporre un italiano, non più l’imperatore ma un tedesco a cui contrapporre un Angiò.
Dalle famiglie ai partiti, dalle nazioni ai chierici, tutti erano in lotta: Colonna contro Caetani, guelfi contro ghibellini, francesi contro inglesi, clero secolare contro clero regolare. Non era solo Dante nella Monarchia (rimasta all’Indice, ricordiamo, finché nel 1921 non venne l’enciclica di un altro Benedetto, la In praeclara di Benedetto XV, a legittimarlo) a richiamare la necessità e la necessaria autonomia del potere imperiale.
Più o meno nello stesso tempo insigni giuristi, come Bartolo da Sassoferrato, lamentavano che feroci tirannie erano insorte proprio dalla prostrazione dell’Impero: «Cum imperium fuit in statu et in tranquillitate totus mundus fuit in pace et in tranquillitate ut tempore Octaviani Augusti et cum imperium fuit prostratum insurrexerunt dirae tyrannides» (De tyranno).
E quando la politica del mondo va in crisi, anche la libertà nella Chiesa ne risente. È per questo dolore e non per altro, o se si vuole per questo amore, che uomini come Dante e Bartolo intervengono. «L’idea fondamentale di Dante non è la rivendicazione del potere laicale. L’idea è che la lotta contro la cupiditas implica la dualità dei rimedi», scriveva Augusto Del Noce in uno dei tanti inediti che attendono ancora di veder le stelle.
Ma torniamo a Benedetto XII, al secolo Giacomo Fournier. È il terzo dei sette papi cosiddetti avignonesi. Quello che ebbe il regno più breve, dal dicembre 1334 all’aprile 1342. Era nativo della contea di Foix (Pirenei), dove aveva imperversato e continuava a covare l’eresia catara (i genitori di Nogaret, anch’egli originario della Linguadoca, erano caduti sotto il giudizio dell’Inquisizione): contro di essa Giacomo Fournier avrebbe agito una volta divenuto vescovo di Pamiers e poi di Mirepoix. Anche per questa sua competenza Giovanni XXII lo elevò al cardinalato nel dicembre 1327, così da averlo accanto a sé come teologo della Curia pontificia. E sarà una fortuna, come vedremo.
La sua scelta come papa fu rapida, dopo appena qualche giorno di conclave, e anche questo ricorda Benedetto XI. «Sembra che la scelta rappresentasse una sorpresa: il nuovo Papa non aveva alcuna esperienza di questioni politiche, ma la sua competenza teologica, la sua attività pastorale, la sua austerità erano atte a produrre un serio sforzo di rettitudine dottrinale, morale e amministrativa. […] Fin dal suo primo concistoro segreto invitò i cardinali che lo avevano eletto ad aiutarlo a “rendere produttiva la vigna del Signore”» (dalla voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, a firma di Bernard Guillemain che, insieme a Guillaume Mollat, è forse il più grande studioso del papato avignonese).
Si può star certi che non intendeva la produttività in termini finanziari della Curia avignonese, che anzi diminuì. All’inizio del pontificato revocò infatti “grazie aspettative” (l’assegnazione di un beneficio ancora non vacante) e commende (l’assegnazione dei soli frutti economici di un beneficio a chi non avrebbe svolto il corrispondente ufficio); limitò le tasse pretese nelle visite pastorali e stabilì un’inchiesta sulle bustarelle intascate dagli ufficiali di Curia.
Ma soprattutto cercò di regolamentare la vita del clero secolare, rispedendo alle rispettive chiese la folla di chierici che girava attorno ad Avignone in aspettativa, e quella dei nuovi ordini religiosi che, insieme a tanto fervore, stavano portando anche turbamento in seno alla cristianità, fungendo spesso da legittimazione religiosa per l’una o per l’altra fazione o semplicemente da fattore di anarchia.
Tanti opposero però resistenze invincibili che vanificarono in parte il tentativo del Papa. Contro lo spirito del tempo, benché impalpabile (ma san Paolo è lì a ricordarci quanto pesino le potenze dell’aria, sottomesse sì dal Signore eppure gravitanti sulla nostra vita), a volte non c’è argine che valga. In Italia, ad esempio, lo scisma in cui erano incorsi tanti signori unitisi a Ludovico il Bavaro fu sanato, ma dietro il formale riconoscimento del potere di costoro sui rispettivi territori, ormai pronti a divenire tante signorie armate l’una contro l’altra e tutte contro il Papa.
A Bologna in particolare, che doveva costituire il primo ponte per il rientro a Roma da Avignone, proprio colui che aveva guidato la ribellione antipapale fu riconosciuto dal Papa come «amministratore dei diritti e dei beni della Chiesa», scrive Guillemain. Che conclude piuttosto amaramente la voce del Dizionario Biografico degli Italiani: «In realtà l’opera di papa Benedetto non modificò né lo Stato della Chiesa né il corso della politica europea».
Ma fuori dei confini dell’Europa, favorite da quella stessa temperie che determinava zuffe e contese all’interno, nuove occasioni di incontro con genti sconosciute si presentano a frati e mercanti che si ritrovano fianco a fianco fra la Persia e la Cina. «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio…», diceva ancora san Paolo all’Areopago. Il movimento degli uomini, popoli e nazioni, in ultima analisi è governato da Dio. E papa Benedetto fu pronto ad assecondarlo.
Ma il suo più duraturo successo papa Benedetto XII lo riportò in campo teologico. «Il documento più importante del magistero ecclesiastico circa l’escatologia intermedia è senza dubbio la costituzione Benedictus Deus di Benedetto XII» (C. Pozo, Teologia dell’aldilà). A secoli di distanza, in qualunque trattato di escatologia si legge un giudizio simile. Non è cosa da poco, vista la presunzione che spesso accompagna i teologi.
Bisogna partire da lontano per capire come e perché fu decisivo l’intervento di Benedetto XII sulla questione.
Il suo predecessore si era lasciato andare a pericolose elucubrazioni, sostenendo in una serie di sermoni che le anime non conosceranno la perfetta beatitudine se non al momento dell’ultimo giudizio, quando saranno riunite ai corpi. Era una tesi che Giovanni XXII pretendeva poggiare sull’autorità di san Bernardo. Benedetto XII, ancora cardinale, non solo salvaguardò l’ortodossia di san Bernardo, dando un’interpretazione dei suoi scritti che gli rendeva giustizia, ma anche quella di Giovanni XXII, riducendo la sua tesi a una pura opinione personale su di una questione ancora non formalmente definita.
Nel frattempo, mentre preparava quella definizione dogmatica che da allora fa testo al riguardo (cfr. Denzinger-Hünermann 1000-1002), corresse amabilmente il Papa fino a farlo ravvedere in punto di morte. Le parole che Eco nel Nome della rosa mette in bocca a Giovanni XXII sono quelle da lui effettivamente pronunciate, secondo la testimonianza dello stesso Benedetto, ma l’atmosfera in cui le situa è un debito pagato alla lettura convenzionale di quell’epoca, anzi… un credito acquistato.
Non basta. Nel De statu animarum, un grande trattato in sei libri che uscì una volta che fu fatto papa, Benedetto affrontò da par suo – come teologo tomista, ma allo stesso tempo memore della lezione che san Bernardo aveva tratto dai Padri, in particolare Agostino – tutta la questione, lasciando intravedere fra l’altro una possibile via per comprendere correttamente, senza tradire né Tommaso né Agostino, come si possa parlare di un progresso dell’intensità della visione beatifica fra giudizio particolare e giudizio finale.
Oggi che alcuni autori anche famosi sostengono un’assoluta coincidenza dei due momenti fino al punto da annullare il senso stesso del giudizio finale, potrebbe essere saggio valorizzare la dottrina di Benedetto, come d’altronde già indicava il padre Henri de Lubac (Cattolicismo, 81-92).
Benedetto XIII e Benedetto XIV antipapi
Ma torniamo alla storia. Fra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento incontriamo altri due Benedetti. L’aragonese Pedro de Luna, l’antipapa che sul finire del secolo XIV prese il nome di Benedetto XIII nella linea avignonese o clementista del Grande scisma d’Occidente, meriterebbe una lunga trattazione sia per la ricchezza della sua personalità sia per i problemi che coinvolge la sua elezione (la più recente monografia a lui dedicata nel 2002 si chiede ancora Benedicto XIII ¿Antipapa o papa?). Ci dovremo invece limitare a brevi note per non perdere anche gli ultimi dei venticinque lettori che hanno resistito fin qui.
Fatto cardinale ancora da Gregorio XI nel 1375, prima del definitivo ritorno da Avignone di questo Papa, si adoperò per portare all’obbedienza di Clemente VII – che era stato eletto nel 1378 in alternativa al papa romano successore di Gregorio XI – tutti i regni iberici. Succedette poi lui stesso nel 1394 a Clemente VII e pretese regnare anche dopo la deposizione in cui era incorso nel 1417 al Concilio di Costanza, che aveva risolto la compresenza non solo di Benedetto XIII e del papa romano, ma anche di un terzo papa che si era venuto ad aggiungere nel frattempo, deponendo anche costui e favorendo la rinuncia del papa romano.
La pretesa di Benedetto XIII, come abbiamo detto, rimase intatta fino alla sua morte avvenuta nel 1423 nel castello di Peñiscola dove si era ritirato, pretesa basata ancor più che su sponde politiche e su motivi giuridici soprattutto sul carattere indomabile dell’uomo. Fu l’ultimo vero antipapa, anche se altri due gli tennero dietro.
Uno dei quali, Benedetto XIV, fu antipapa dell’antipapa, perché segretamente eletto da uno dei quattro cardinali seguaci di Pedro de Luna in opposizione al candidato degli altri tre. La fine dell’Impero toglieva ormai ogni altro spessore agli antipapi che non fosse quello di poveri Don Chisciotte con un solo scudiero. La Chiesa non ne avrebbe infatti conosciuti altri, se non l’effimero Felice V (1439-1449) conosciuto in assoluto come l’ultimo antipapa. Da qui l’illusione che in epoca moderna il nemico stia solo all’esterno.
Dei legittimi Benedetto XIII e Benedetto XIV parleremo nella prossima puntata.
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Gli articoli precedenti di Lorenzo Cappelletti sui papi che hanno preso il nome Benedetto pubblicati su 30Giorni:
1) Nomen omen, n. 10, ottobre 2005, pp. 90-95;
3) Benedetti riformatori, n. 12, dicembre 2005, pp. 68-73.
4) Laico, cioè cristiano n.4 2006