Risponde su “L’Osservatore Romano” il Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 13 gennaio 2006
Presentiamo l’articolo pubblicato sull’edizione quotidiana del 14 gennaio de “L’Osservatore Romano” firmato da Francesco D’Agostino sul riconoscimento delle convivenze. Il sottotitolo dell’articolo è “Le scorciatoie delle provocazioni”
Queste, ed altre domande, stanno crescendo nell’opinione pubblica italiana e diventeranno, con ogni probabilità, questioni non marginali nella prossima campagna elettorale. Di fughe in avanti, chiaramente volte a predisporre l’accettazione psicologico-sociale dell'”evento”, ne percepiamo ormai molte. Alcuni Comuni italiani hanno già istituito pubblici registri per le coppie di conviventi (si è però prestata ben poca attenzione al fatto che, indipendentemente dall’irrilevanza giuridica di simili registri, le conseguenti registrazioni sono state numericamente irrisorie).
A Roma, uno dei Municipi della capitale ha tentato (ma per ora il progetto è fallito) di fare lo stesso. Ma soprattutto è sul piano delle provocazioni che sembra che il dibattito si stia collocando: è tipica la convocazione, in una centralissima piazza di Roma, di una manifestazione per “benedire laicamente” le unioni di fatto di personaggi, più o meno mediaticamente conosciuti, da parte di altri personaggi dotati di un carisma fornito loro dalla carica istituzionale di cui sono portatori (come può essere quello di cui gode un altissimo magistrato, che ha posto deplorevolmente tale carisma al servizio di una causa che non è istituzionalmente sua).
In una società democratica la battaglia delle idee non può che essere sempre benvenuta, perché della società democratica il dibattito e il confronto costituiscono l’essenza più preziosa.
A condizione, però, che di dibattito e di confronto davvero si tratti. Quando invece al posto delle idee fioccano gli slogan; quando il ragionamento, soprattutto il ragionamento lucido e pacato, viene sostituito da cortei e da invettive; quando si operano assurdi corto-circuiti, appiattendo uno sull’altro clericalismo e difesa del matrimonio e chiamando a raccolta gli anticlericali, come se la lotta a favore del PACS sia una lotta per i diritti civili, oppressi dall’oscurantismo religioso, della democrazia e del suo spirito più autentico non ne rimane più nemmeno l’ombra.
Siamo ancora in attesa di un argomento, di un solo argomento consistente, a favore del riconoscimento legale dei PACS. Un breve ragionamento, assolutamente laico, potrà convincerci di quanto appena detto.
Le coppie di fatto si dividono in due categorie: quelle che non vogliono e quelle che non possono sposarsi. Delle prime, ragionando in linea di stretto principio, non solo è opportuno, ma è doveroso che il diritto non si occupi: l’intenzione dei conviventi (apprezzabile o meno che sia sul piano strettamente morale) è proprio quella – pur potendolo fare – di non legarsi giuridicamente e non si vede proprio perché la legge dovrebbe far loro la “violenza” di considerarle comunque legate, sia pure attraverso un labile PACS, contro la loro volontà.
Si osserva: ma queste coppie escludono solo il matrimonio “tradizionale”, non altre forme di riconoscimento giuridico; se chiedono l’istituzione del PACS è proprio perché vorrebbero usufruire di alcuni diritti (in genere di carattere economico), che non sono attualmente riconosciuti se non alle coppie sposate.
Ma la ragione per la quale tali diritti non sono loro riconosciuti è che esse non hanno l’intenzione di assumere quei doveri che sono parte essenziale dell’istituto matrimoniale. Non si può, in buona sostanza, non valutare se non come parassitaria e quindi indebita l’intenzione di coloro che pretendono un riconoscimento pubblico della loro convivenza per ottenere diritti senza doveri.
Peraltro, i giuristi ben sanno che praticamente tutti quei diritti al cui riconoscimento aspirano i partner di una unione di fatto possono essere attivati tramite il diritto volontario e senza alcuna necessità di introdurre nel codice nuovi istituti. Il testamento, ad es., esiste proprio per far sì che si possa trasmettere il proprio patrimonio a chi non avendo vincoli legali e/o familiari col testatore sarebbe escluso dalla successione legittima.
La locazione della casa di comune residenza può essere stipulata congiuntamente dai due partner, in modo tale che al momento della morte dell’uno essa possa, senza alcuna difficoltà, proseguire a carico dell’altro. Non è vero, in altre parole, che ai conviventi vengano negati specifici diritti civili: la differenza rispetto al matrimonio sta semplicemente qui, che quei diritti che la legge riconosce automaticamente alla coppia che contrae matrimonio (assieme a corrispondente numero di doveri) nel caso delle convivenze devono essere, per dir così, attivati dai conviventi stessi.
Il che, oltre tutto, è particolarmente coerente col principio, tipicamente moderno, dell’autonomia della persona, un principio che viene costantemente rivendicato ed elogiato dalla cultura c.d. “laica” e che non si vede perché, solo nel caso delle convivenze, debba essere messo da parte.
Le coppie che non possono sposarsi si dividono a loro volta in due sotto-categorie. La prima è composta da coloro che non possono ancora sposarsi per impedimenti transitori di tipo in genere legale (ad es. per la minore età o perché uno dei partner è in attesa del divorzio, ecc.). Per queste coppie l’offerta del PACS è senza senso: la stessa difficoltà, destinata a risolversi comunque da sola, che preclude loro le nozze precluderebbe loro anche il PACS. La seconda sotto-categoria è composta invece da quelle coppie che vorrebbero sì sposarsi, ma ritengono di non poterlo fare, per difficoltà economiche, e rimandano quindi, a volte sine die, il matrimonio.
L’autentico modo di venire incontro ai bisogni sociali di queste coppie non è certo quello di offrire loro un “piccolo matrimonio” (secondo l’incisiva e ironica definizione del Card. Ruini), come è appunto il PACS, che non risolverebbe alcuna delle difficoltà in questione, ma quello di attivare quelle iniziative sociali a favore della famiglia, che oltre tutto sarebbero doverose già in base al dettato della nostra Costituzione.
Cosa resta dunque delle istanze sociali, che giustificherebbero l’introduzione in Italia del PACS? Sembra nulla di nulla. A meno che non si voglia vedere dietro la richiesta del PACS una richiesta profondamente diversa, quella di una prima forma di riconoscimento legale delle coppie omosessuali, che dovrebbe aprire la strada, in tempi ora come ora imprevedibili, ma che per alcuni dovrebbero essere brevi, ad una compiuta equiparazione al matrimonio tout court del matrimonio omosessuale. Che le cose stiano proprio così è fuor di dubbio, per le esplicite dichiarazioni fatte dai principali rappresentanti del movimento degli omosessuali e dai loro simpatizzanti.
L’onestà intellettuale vorrebbe allora che di questo e solo di questo si parlasse: se cioè abbia una sua coerenza giuridica l’allargare l’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali. Ma di fatto questo discorso viene sistematicamente eluso (pur venendo continuamente, ma indirettamente richiamato), perché nessuno è in grado di dare argomenti consistenti per dimostrare la necessità di alterare in modo così plateale e radicale quella struttura eterosessuale del matrimonio, che appartiene a tutte le culture e a tutta la storia da noi conosciuta.
È noto che ciò a cui aspirano le coppie omosessuali (peraltro nemmeno tutte, anzi solo una piccola parte di esse) è, prima ancora che il riconoscimento di diritti economici e sociali, un riconoscimento simbolico del loro rapporto. Ma il diritto non esiste per offrire riconoscimenti simbolici, bensì per dare risposte pubbliche ad esigenze sociali, che superano la mera dimensione privata dell’esistenza. Perché ad es. il diritto dà un riconoscimento pubblico al matrimonio e non all’amicizia? Perché l’amicizia, che pure attiva un vincolo, che può essere in alcuni casi esistenzialmente ancora più significativo di quello coniugale, non ha rilievo sociale, ma esclusivamente personale.
Il matrimonio invece, fondando la famiglia, e garantendo l’ordine delle generazioni, ha un rilievo sociale del tutto caratteristico, che ne giustifica la giuridicizzazione. La coppia omosessuale non crea famiglia: lo impedisce la sua costitutiva sterilità. Come superare questa difficoltà, se non potenziando il carattere mimetico della coppia omosessuale rispetto a quella eterosessuale?
Di qui, la pretesa, confusa, ma dotata di una certa qual coerenza, di ammettere le coppie omosessuali (e in specie quelle “sposate”) all’adozione. Poco importa che la psicologia dell’età evolutiva insista nel sottolineare quanto sia rilevante l’esigenza per i bambini di possedere una doppia figura genitoriale, maschile e femminile: di fronte all’ideologia, anche le argomentazioni della scienza vengono messe da parte.
Siamo tutti testimoni che si è aperta una partita decisiva, inimmaginabile fino a qualche decennio fa, che ha per oggetto la famiglia e attraverso la famiglia la stessa identità umana. La famiglia chiede di essere difesa; ma per difenderla non c’è bisogno di argomenti teologici o religiosi; bastano comuni argomenti umani, perché ciò che la famiglia tutela e promuove è innanzi tutto il bene umano.
Chi ritiene che sia giunto il tempo per ripensare in modo assolutamente radicale la realtà della famiglia ha l’onere di provare fino in fondo le sue tesi eversive e di non darle per evidenti; ha il dovere di entrare in un dialogo serrato con chi è di diverso avviso; e soprattutto deve saper e voler rinunciare alle scorciatoie delle provocazioni e delle manifestazioni di piazza, che ben poco aiuto possono dare al confronto e al progresso delle idee. Sarebbe preoccupante se nell’Italia di oggi non ci fosse più uno spazio per un tale stile dialogico.