Stefan Wilkanowicz, direttore del mensile «Znak» (II segno), ha pubblicato sul settimanale cattolico di Cracovia, «Tygodnik powszechny», un suo intervento sul tema dell’etica del lavoro. Wilkanowicz tiene conto delle nuove problematiche suscitate dall’introduzione delle nuove tecnologie nei sistemi di produzione e delle conseguenze sociali e morati che ne derivano. L’interesse maggiore dell’articolo sta però nel fatto che l’etica del lavoro è qui vista non unilateralmente, ma nella reciprocità di responsabilità etica sia degli uomini del lavoro che dei datori di lavoro.[articolo tratto da: Tygodnik Powszechny (Cracovia) n. 50, 11 dicembre 1983]
Stefan Wilkanowicz
Esistono di solito due rischi: parlare del lavoro o da un punto di vista puramente empirico o da un punto di vista puramente normativo. Il primo rischio minaccia più spesso i laici, il secondo i sacerdoti. I laici il più delle volte sono così oppressi dal peso della quotidianità del lavoro che si contentano di sterili lamentele; i sacerdoti, non avendo l’esperienza dei laici, sentendo il dovere di predicare i principi morali anche in questa sfera, scivolano facilmente in un moralismo astratto, sentito da chi li ascolta come un insegnamento calato dall’alto o come un catalogo di nobili indicazioni che non hanno applicazione pratica.
C’è dunque bisogno di una riflessione che comprenda tanto una descrizione brutale della realtà, quanto di un ideale cristiano nettamente definito; è necessario inoltre un metodo per approssimarsi, per quanto lentamente, a tale ideale. Un metodo che tenga conto tanto dei condizionamenti sociali quanto delle complicazioni psicologiche di quanti lavorano.
Il lavoro buono è necessario non solo alla società, ma, e soprattutto, alla persona, che tramite esso cresce. Il lavoro cattivo avvelena tanto i rapporti sociali quanto l’uomo stesso che lavora, si riflette su tutta la sua vita. Un sano istinto di autoconservazione gli impone di prendere misure per difendersi da tale pericolo. Come fare perché siano efficaci? Vi sono scarse possibilità che ciascuno si impegni in un duello di questa portata. È necessaria una riflessione comune, occorre cercare delle soluzioni confrontando punti di vista diversi, esperienze diverse.
Una discussione di questo tipo realmente feconda mi capitò anni fa nel corso di alcuni incontri con un gruppo di seminaristi della Slesia che avevano appunto compiuto un’esperienza di lavoro durata dieci mesi. Mi era stato chiesto di fare una relazione sul tema del lavoro; volli dunque compiere una piccola indagine tra persone che avevano affrontato il lavoro con un’attrezzatura teologica e una particolare sensibilità morale. Essi mi fecero partecipe delle loro osservazioni ed esperienze, cercarono di rispondere alla domanda: come parlare del lavoro, specialmente ai giovani?
La discussione divagò in diverse direzioni, finché qualcuno disse: «penso che quando si parla del lavoro occorra avere in una mano il Vangelo e nell’altra il Codice del lavoro». Perché? Egli spiegò che il Vangelo rappresenta un certo ideale, un’esigenza, mentre il Codice del lavoro è uno strumento di difesa dei diritti dei lavoratori (uno strumento di difesa non troppo buono, ma che comunque esiste).
Si può dunque essere ascoltati solo quando si parla contemporaneamente dei diritti e dei doveri dell’uomo. Si possono affermare delle esigenze se ci si adopera per tutelare il lavoratore, per aiutarlo ad essere in grado di difendere i suoi diritti. Solo allora parlare del lavoro non sarà falso moralmente e potrà per questo essere accettato. Questa semplice argomentazione, sorprendente per la sua evidenza, mi si scolpì nella memoria. Ritengo che oggi abbia ancor più importanza che allora.
Su un altro piano il lavoro deve essere considerato sia da un punto di vista soggettivo che oggettivo, vale a dire dal punto di vista dell’uomo che lavora e dal punto di vista della tecnica, dell’organizzazione e delle condizioni di lavoro. Dal punto di vista dell’azione che questo esercita sull’uomo che lavora e dal punto di vista delle sue conseguenze economiche e sociali. Il lavoro veramente buono è dunque buono da tutti i punti di vista, soggettivo e oggettivo. Delineato così il campo di riflessione procederò al tentativo di enumerare le caratteristiche del lavoro buono.
1. Il lavoro buono deve essere utile. Questa banale affermazione nella pratica invece non è affatto ovvia. Esiste in tutti i lavori un’onesta utilità? Certamente no. Durante la pratica estiva capitò una volta ad un gruppo di studenti di dover incollare etichette nuove su conserve già scadute. Nuove, vale a dire con una data di scadenza nuova. Qual era l’utilità di quel lavoro? Adempiere al piano e un eventuale premio per l’azienda, ma nel contempo voleva dire probabili malattie e sprechi economici per il consumatore.
E il duro lavoro dei produttori degli spacciatori di droga? Ai tossicomani in certo senso è necessario, ma anche tragicamente nocivo. Vi sono dunque bisogni diversi. Il fatto che un certo prodotto si trovi in sovrabbondanza sul mercato non significa che sia necessario nel senso più profondo della parola.
Ne deriva la conclusione che la scelta del tipo di produzione non è indifferente dal punto di vista morale. Ciò riguarda del resto non solo la produzione, ma anche la sfera dei servizi e dell’amministrazione in senso lato. Anche qui si possono trovare esempi di lavori inutili e persino nocivi. I lavori il cui risultato è chiaramente nocivo sono più rari, mentre invece è una vera e propria piaga il lavoro la cui utilità è scarsa se non addirittura nulla (ma è molto difficile accorgersene).
È male prendere soldi per niente, ma l’esecuzione di lavori privi di senso non è certo migliore. Indubbiamente la massima occupazione è una buona cosa, cancellare ogni differenza tra compenso per il lavoro, sussidio di disoccupazione e presalario è però nocivo sia dal punto di vista morale che economico. L’utilità o il danno può essere inoltre considerato da un altro punto di vista.
Un’azienda può vendere con profitto prodotti che funzionano ottimamente, se però le tecnologie impiegate inquinano l’ambiente naturale può avvenire che le perdite sociali siano molto maggiori degli utili dell’azienda. Questa è infatti un parassita che sfrutta gli altri, i loro soldi e la loro salute.
A questo punto si pone il problema: in quale misura il lavoratore è responsabile del prodotto del suo lavoro? Ha realmente il diritto di codecidere della sua utilizzazione? Occorre indubbiamente respingere la tesi secondo cui il lavoratore ha diritto ad un’equa retribuzione mentre il resto non lo riguarda.
Vale la pena qui citare un breve brano della Costituzione pastorale Gaudium et spes: «Nelle imprese economiche si uniscono delle persone, cioè uomini liberi autonomi, creati ad immagine di Dio. Perciò, avuto riguardo ai compiti di ciascuno – sia proprietari, sia imprenditori, sia dirigenti, sia lavoratori — e salva la necessaria unità di direzione dell’impresa, va promossa, in forme da determinare in modo adegua l’attiva partecipazione di tutti alla vita dell’impresa. Poiché, tuttavia, in molti casi non a livello dell’impresa, ma a livello superiore in istituzioni di ordine più elevato che prendono le decisioni sulle condizioni generali economiche e sociali, da cui dipende l’avvenire dei lavoratori e dei loro figli, bisogna che essi siano parte attiva anche in scelte, direttamente o per mezzo di rappresentanti liberamente eletti».
Da queste parole emerge inequivocabilmente che i lavoratori hanno diritto alla codecisione sia per quanto riguarda le questioni concernenti il tipo di produzione, sia per quanto riguarda l’ulteriore destinazione dei prodotti. Essi hanno anche il dovere di realizzare tali decisioni, nella misura del possibile.
2. Il lavoro buono deve essere accurato. Conforme cioè ad un buon modello o un buon progetto, ed anche bene eseguito. Ovviamente, per noi è male comprare oggetti che non sono quello che dovrebbero, li strapaghiamo e poi abbiamo dei problemi con loro. Tuttavia, le nostre perdite non consistono solo in questo.
C’è un male ancor più sottile e forse più pericoloso. Un prodotto che non ha la qualità che dovrebbe avere è in certo senso falso. Non è ciò che dovrebbe essere, si spaccia solo per esso. V’è una intrinseca menzogna. Quali sono i risultati di tale menzogna? La mancanza di fiducia. Se il fenomeno della cattiva qualità del lavoro è molto diffuso, ci abituiamo ad una situazione in cui tutti truffano tutti (pur non volendolo) e nessuno può fidarsi di nessuno. Insieme alla menzogna contenuta negli oggetti (o nei servizi) si diffonde tra gli uomini un senso di reciproco inganno. È questo un male che gradualmente infetta e distrugge la società poiché distrugge i vincoli tra gli uomini, la fiducia, il senso di solidarietà.
Ma non è ancora tutto. L’uomo truffato si ribella non soltanto contro il fatto che gli vengano sottratti un po’ di soldi, egli sente anche tutto ciò come una violazione della sua dignità, come una privazione dei suoi diritti. In definitiva ciascuno sente di aver diritto alla verità e alla giustizia. E proprio l’impotenza di fronte a questo male fa crescere la frustrazione che si scarica poi in aggressività o in quell’«ostilità disinteressata» che avvelena la nostra vita.
3. Il lavoro deve essere efficiente. Deve sfruttare proficuamente tempo, risorse, strumenti, macchine. Ciò è possibile quando i lavoratori hanno una adeguata cultura del lavoro, vale a dire competenza ed attitudine al lavoro, e quando l’organizzazione del lavoro nell’impresa è buona. E non solo nell’impresa: ciò riguarda tutto il complesso dell’organizzazione della vita economica. Nessun’impresa può lavorare bene se, ad esempio, non ha continuità di rifornimenti.
Con le incessanti insufficienze che non è possibile prevedere, qualsiasi organizzazione del lavoro crolla e la pianificazione diventa finzione. Ciò è importante tanto su scala aziendale che su scala nazionale. Anche qui non si può porre rimedio efficace né prevedere la durata e la qualità della ripresa.
Una cattiva organizzazione distrugge in primo luogo la cultura del lavoro e la sua efficienza. Il male maggiore non sono tanto le immediate perdite economiche, quanto la deformazione del lavoratore che dopo un certo tempo diventa inabile ad un lavoro efficiente, inabile ad organizzare il proprio lavoro. E viceversa: quanti sono incapaci di organizzare il lavoro diventano incapaci di lavorare insieme e di svolgere funzioni organizzare il lavoro diventano incapaci di lavorare insieme e di svolgere funzioni direttive. Questo feed-back negativo ha profonde conseguenze economiche e morali: distrugge l’efficienza della vita dell’uomo, il suo contributo più profondo al patrimonio materiale e spirituale.
4. II lavoro deve essere economico. Intendiamo normalmente con questo l’economia di materie prime, di energia o di tempo nel processo stesso di produzione. Ci preoccupiamo meno, però, che il prodotto sia economico quando viene sfruttato, il che spesso è molto più importante. Infine, una cosa che quasi non consideriamo affatto, questo prodotto non deve inquinare l’ambiente tanto nel corso della sua utilizzazione quanto dopo, una volta diventato rifiuto.
Ci siamo già un po’ sensibilizzati al processo di produzione, alle tecnologie «sporche», ma ancora troppo poco alle conseguenze ultime o intermedie della nostra attività economica. Occorre dunque intendere l’economia in senso pieno, non solo come economia sui costi di produzione, ma anche come economia della salute umana e tutela dell’ambiente naturale in quanto riserva di materie prime e spazio in cui l’uomo può vivere in condizioni accettabili.
Evidentemente, in questo senso far quadrare i conti è notevolmente più difficile, a volte impossibile. Nondimeno è necessario, se possibile, poiché spesso accade che l’economia in un campo comporti sprechi incommensurabilmente più gravi in un altro, l’economia perciò si rivela sperpero.
5. Il lavoro deve inoltre essere adeguatamente retribuito. Una questione complessa questa, diversi infatti sono i fattori che contribuiscono ad una retribuzione equa. Va naturalmente tenuto conto della quantità di lavoro necessaria all’esecuzione di un certo prodotto o di un certo servizio. Va tenuto anche conto della quantità di lavoro necessaria per apprendere una professione e acquisire un’esperienza adeguata.
È rilevante inoltre il valore sociale, e non solo economico di un dato lavoro, ad esempio il valore del lavoro dell’insegnante. La remunerazione deve tenere conto delle necessità della persona e quindi della famiglia. La remunerazione deve dunque permettere di mantenere una famiglia. Gli assegni famigliari devono quindi avere una consistenza reale e non solo simbolica, devono realmente ridurre le differenze di livello di vita tra famiglie che non hanno figli o solo uno e famiglie che ne hanno diversi.
Una questione veramente importante questa, tanto che ad esempio in una delibera dell’ultimo sinodo di Cracovia si propone di ovviare a tali sperequazioni avvalendosi di fondi sociali, ad esempio parrocchiali.
Una retribuzione equa deve tenere conto dello stato dell’economia nazionale: un livello retributivo troppo alto eccita la spirale inflativa o frena gli investimenti necessari, un livello retributivo troppo basso provoca conseguenze socio-morali catastrofiche come il fenomeno della delinquenza, il crearsi di un’economia illegale e del mercato nero. Quindi l’abbassamento artificioso degli stipendi per incrementare gli investimenti (quali?) può spezzare tanto l’economia quanto il livello di vita.
Rilevante a questo punto è la questione della relazione tra le retribuzioni nelle diverse imprese, nei diversi settori dell’economia, nelle diverse regioni del paese. Il principio della parità retributiva per lavori dello stesso tipo è giusto, ma una sua applicazione meccanica può portare a ingiustizie di fatto o a perdite economiche. D’altra parte, occorre respingere la tentazione di diversi gruppi che premono per estorcere aumenti per il loro settore, di solito a scapito degli altri.
La politica retributiva è difficile. Perché possa essere socialmente accetta e possa diventare un fattore di promozione e non di distruzione della cultura del lavoro deve essere innanzitutto chiara e ben giustificata. Tanto su scala ridotta che su scala generale la rete delle retribuzioni deve essere nota e facilmente confrontabile, le tariffe per quanto possibile precise e le necessarie variazioni (determinate ad esempio dalla fluttuazione dei quadri) giustificate e non tenute nascoste.
6. Il lavoro deve essere anche adeguatamente rispettato. Rispettare il lavoro significa innanzitutto non sprecarlo. Il lavoro non è meramente una merce che si vende e si compera, bensì un’espressione dell’attività dell’uomo che è imitatore di Dio. Lo spreco dei risultati del lavoro dell’uomo è dunque una forma di disprezzo per la sua fatica e di negazione del significato dei suoi sforzi. È anche un rifiuto del suo amore, se egli aveva lavorato pensando ai bisogni del prossimo o al bene della società. Ogni spreco è dunque in sostanza un oltraggio, non solo antieconomico, ma anche antiumano.
II diritto morale del lavoratore al prodotto del suo lavoro non cessa con l’atto di ricevere la retribuzione, egli ha il diritto di esigere che tale prodotto venga usato conformemente agli scopi fondamentali del lavoro: vale a dire che sia non soltanto un mezzo per procurarsi il necessario per vivere, ma anche che serva realmente agli altri e contribuisca a nobilitare la società e la natura. La distruzione del prodotto del lavoro o il suo uso ai danni della società o della natura è dunque una violazione del senso del lavoro e dei diritti del lavoratore.
Il rispetto per il lavoro è rispetto per il lavoratore. Ne consegue un’adeguata valutazione della sua qualifica e il riconoscimento del diritto a codecidere l’organizzazione sociale del lavoro e l’utilizzazione dei suoi prodotti.
7. Il lavoro inoltre deve essere svolto in condizioni degne dell’uomo. Ciò concerne tanto le condizioni fisiche che quelle sociali. Il lavoro deve essere per quanto possibile sicuro, non dannoso per la salute e non eccessivamente gravoso. Ma forse ancor più importanti sono le condizioni sociali nell’ambiente di lavoro. Il lavoratore ha diritto a che la sua dignità sia riconosciuta tanto dai colleghi che dai subordinati e dai superiori. Non deve essere trattato come un ingranaggio della macchina né come una sua appendice.
Un’atmosfera dì cameratismo e cordialità è quindi necessaria. La si ottiene grazie al comportamento delle persone, sono però necessarie anche garanzie giuridiche che sostengano il formarsi di tali comportamenti. Sono perciò necessarie istituzioni realmente indipendenti — che di solito prendono forma di rappresentanze di lavoratori — che possano in virtù della legge tutelare il lavoratore da ingiustizie o maltrattamenti, esigere la creazione di adeguate condizioni di lavoro e contribuirvi.
8. Il lavoro deve sviluppare e valorizzare il lavoratore. «L’uomo, infatti, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma anche perfeziona se stesso» (Gaudium et Spes, 35). Tramite il lavoro l’uomo impara, sviluppa le sue capacità, acquista abilità. «In certo senso “diventa più uomo”» (Laborem Exercens, 9). Ma è sempre vero? Vi sono lavori diversi, interessanti e meno interessanti, vari e monotoni, che stimolano o che instupidiscono.
Secondo la vecchia teoria di Taylor occorre scomporre il lavoro nei suoi elementi più semplici e mirare a che ciascun lavoratore compia solo un’attività, allora la produttività del lavoro sarà massima. Con questo sistema l’uomo è ridotto ad un puro e semplice robot che non deve pensare. Per fortuna lo sviluppo della tecnica e dell’organizzazione del lavoro hanno dimostrato che questo non è la via migliore per ottenere un accrescimento costante della produttività del lavoro; è meglio sostituire sistemi automatizzati ai «robot vivi» e permettere agli uomini di organizzarsi il lavoro secondo le loro possibilità e necessità personali.
L’automazione e la computerizzazione offrono grosse possibilità. Ma anche laddove non sono ancora applicate esistono possibilità di organizzare il lavoro in modo tale da servire meglio allo sviluppo dell’uomo. Occorre inoltre ricordare che ciò concerne anche, e spesso soprattutto, l’ambiente di lavoro, certe categorie di lavoratori. Certi tipi di lavoro, monotoni e faticosi, non possono essere cambiati tanto celermente, invece lo sviluppo del lavoratore può essere realizzato grazie al suo ruolo sociale.
Di qui l’importanza di ogni tipo di autogestione (a cominciare dalle più piccole associazioni di lavoratori), e di sindacato, di ogni tipo di lavoro sociale connesso con l’ambiente di lavoro.
9. Il lavoro deve nobilitare la natura e la società. L’universo, in quanto opera di Dio, è degno di ammirazione e rispetto. L’uomo deve dominare la natura, trasformarla cioè in modo tale da adattarla meglio ai suoi bisogni umani. Ciò significa che l’uomo deve trasformarla con prudenza, senza distruggerne l’equilibrio interno e la bellezza, ma anzi tutelarla dall’impoverimento dandole nuova bellezza.
Non si tratta qui dunque solo di economizzare rare materie prime e di non inquinare acqua, terra e aria, ma anche, ad esempio, di salvaguardare la bellezza del paesaggio trasformato o creato dall’uomo. È questo un dovere che tocca tutti gli uomini, ognuno dunque ha il diritto e il dovere di interessarsi attivamente alle conseguenze del suo lavoro in questa sfera, di avere cura che il lavoro contribuisca ad una trasformazione razionale della natura.
Lo stesso vale per la società. Il lavoro deve influire sull’evoluzione della società, sul miglioramento dei rapporti interumani, sullo sviluppo della cultura in senso lato. Deve contribuire ad una maggiore giustizia e fraternità. Da questo punto di vista non è indifferente né l’organizzazione stessa del lavoro, né lo sfruttamento dei suoi prodotti, che può essere per la società utile o dannoso. Anche qui non basta considerare il lavoro solo dal punto di vista economico, è necessario vederlo nelle sue piene conseguenze umane. Le conseguenze del lavoro di ciascuno e per ciascuno.
10. Il lavoro deve unire l’uomo a Cristo. Realizzando il compito di trasformare tramite il lavoro se stesso, la società e la natura, l’uomo si unisce a Dio nella sua opera di creazione. Egli deve unirsi anche all’opera di redenzione di Cristo. Nell’enciclica Laborem Exercens leggiamo: «II sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare all’opera che il Cristo è venuto a compiere.
Quest’opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno nell’attività che è chiamato a compiere».
È questa un’interpretazione profonda dell’antico motto «ora et labora», così saldamente legato alla tradizione cristiana; un principio che indica il lavoro come il fattore indispensabile dello sviluppo dell’uomo.
L’uomo che lavora è l’immagine del Dio-Creatore, e assumendo la fatica e il dolore connessi con il lavoro egli diventa collaboratore di Cristo e in tal modo da significato più profondo al suo lavoro. Un significato che niente e nessuno possono sottrargli. Nelle condizioni più amare, nelle situazioni più dure, tale senso può essere dato al proprio lavoro, nobilitandolo così in modo straordinario. Qualsiasi lavoro infatti diventa così creativo, e ciò nella sfera più importante per l’uomo; esso trasforma infatti lo spirito di chi lavora e contribuisce alla salvezza degli altri.