di Salvatore Giovanni Calasso
1. La IV Rivoluzione
Il 1989 e gli anni immediatamente seguenti hanno visto il crollo di una parte rilevante — quella grosso modo europea — dei regimi totalitari socialcomunisti, caratterizzati dalla dittatura del proletariato. Da più parti si è entusiasticamente gridato alla fine del comunismo, facendo coincidere l’esperienza storica di questi regimi con la piena realizzazione dell’utopia comunista.
Quanti hanno così concluso dimenticano che né Karl Marx (1818-1883), né i suoi numerosi seguaci, sia “ortodossi” che “eterodossi”, hanno considerato la dittatura del proletariato l’atto finale del processo rivoluzionario; l’hanno invece ritenuta solo un momento di transizione verso la società senza classi, in cui potranno essere conseguite una libertà e un’uguaglianza mai prima realizzate.
Poiché — nella prospettiva di questi “profeti dell’utopia” — lo Stato sarebbe la traduzione storica dei privilegi e degli antagonismi di classe, macchina repressiva e strumento di dominazione, la scomparsa delle classi porterebbe con sé la sparizione dello Stato, in quanto esso, non avendo privilegi da difendere, non avrebbe più ragione d’esistere. Così il fine del comunismo si presenta analogo a quello anarchico: la soppressione totale dello Stato.
Secondo un autorevole continuatore e realizzatore di Marx, Vladimir Ilijc Uljanov, detto Lenin (1870-1924), il processo che condurrà all’estinzione della compagine statale avverrà in due fasi. Vi sarà un periodo di super-diritto, la cosiddetta dittatura del proletariato, in cui il diritto regolerà la vita dell’uomo in tutti i particolari, cioè lo Stato avrà il massimo potere possibile sulla persona. In questo periodo il compito statale sarà l’eliminazione del capitalismo, della classe borghese, dello Stato della borghesia e la creazione dell’”uomo nuovo”, l’”uomo socialista”.
A questo periodo ne seguirà uno di non-diritto, in cui non vi sarà più bisogno di codici né di leggi perché le masse seguiranno il meglio. “Il proletariato — scrive infatti Lenin — non ha bisogno dello Stato che per un certo periodo di tempo. Quanto alla abolizione dello Stato, come fine, noi non siamo affatto in disaccordo con gli anarchici. Affermiamo che per raggiungere questo fine è indispensabile utilizzare temporaneamente, contro gli sfruttatori, gli strumenti, i mezzi e i metodi del potere statale, così com’è indispensabile, per sopprimere le classi, stabilire la dittatura temporanea della classe oppressa” (1).
La dittatura del proletariato non finirà dunque in modo violento, com’è finito lo Stato borghese, ma — sempre secondo Lenin — in modo naturale, per deperimento. Vi sarà, cioè, uno spontaneo passaggio dalla fase inferiore alla fase superiore della società comunista. Allora “l’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario” (2).
La politica si ridurrà a semplice amministrazione, e il governo a pura gestione. Il passaggio dal capitalismo alla fase della dittatura del proletariato, in cui tutti sono coercitivamente uguali, e da questa fase a quella della società senza classi, in cui l’uguaglianza è invece il risultato delle libere volontà, è — ancora secondo Lenin — inevitabile, quindi non è utopistico, ma scientifico. Questo deperimento è certo, anche se si ignorano i tempi del suo sviluppo.
Lenin annuncia dunque una nuova fase rivoluzionaria, che — espone sinteticamente Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) — dovrà portare al “[…] crollo della dittatura del proletariato in conseguenza di una nuova crisi, per cui lo Stato ipertrofizzato sarà vittima della sua stessa ipertrofia; e scomparirà, dando origine ad uno stato di cose scientista e cooperativista, in cui — dicono i comunisti — l’uomo avrà raggiunto un grado di libertà, di uguaglianza e di fraternità fino ad ora inimmaginabile” (3).
Lo stesso pensatore cattolico brasiliano precisa trattarsi della quarta fase “di un enorme tutto, cioè la Rivoluzione“ (4), della quale costituiscono “[…] le tappe fondamentali […] nei secoli XV e XV, l’Umanesimo, il Rinascimento e il protestantesimo (I Rivoluzione); nel secolo XVIII, la Rivoluzione francese (II Rivoluzione); e nel secondo decennio di questo secolo, la Rivoluzione comunista (III Rivoluzione)” (5).
Dunque, la IV Rivoluzione, la fase rivoluzionaria in corso, porta a compimento il processo di distruzione della società naturale e cristiana, frutto dell’inculturazione della fede in Occidente, fondata sulla concezione dell’essere umano come “essere in relazione” rispetto ad altri esseri umani, al mondo e a Dio (6).
Secondo tale concezione l’uomo trova la sua vera personalità in queste relazioni: ciò è il riflesso della verità biblica sull’essere umano quale “immagine di Dio” (7). A essa la Rivoluzione contrappone una visione del mondo, che — la sintesi è di Norberto Bobbio — considera l’uomo “in se stesso una totalità” (8). Ne consegue che l’altro non è visto più come un aiuto per comprendersi e per realizzarsi come persona, ma come una minaccia alla propria identità vista appunto come totalità che in sé si conclude e in sé si esaurisce (9).
Questa idea ha il suo riflesso nella concezione della società come rapporto di forze potenzialmente conflittuale: ricchi/poveri, padrone/servo, borghesia/proletariato, vecchi/giovani, uomo/donna, insegnanti/studenti, governanti/governati, e così via. Ognuna di queste conflittualità deve essere superata. Compito della Rivoluzione è alimentare le contraddizioni che s’incontrano nell’evolversi della società.
Da qui il divenire incessante, la contraddizione come essenza del processo rivoluzionario: “[…] la vita — scrive Friedrich Engels (1820-1895) — è del pari una contraddizione presente nelle cose e nei fenomeni stessi, contraddizione che continuamente si pone e continuamente si risolve; e non appena la contraddizione cessa, cessa anche la vita e sopraggiunge la morte” (10). La società rivoluzionaria è la società della contraddizione incessante, la società del caos come principio di liberazione.
2. Il ruolo delle avanguardie
La realizzazione di questa nuova fase della Rivoluzione è affidata a gruppi, le cosiddette “avanguardie”, portatrici di espressioni culturali che, comparse in ambienti marginali, vengono proposte come tendenze di massa della società: queste avanguardie hanno il compito d’influenzare l’habitat culturale con la diffusione delle idee rivoluzionarie. Il loro obiettivo è far ottenere diritto di cittadinanza alle convinzioni contrarie alla verità, presentandole come liberatorie e alternative rispetto alle consuetudini naturali. In questo modo “[…] possono determinare in un secondo momento l’andamento della tendenza culturale di massa” (11), dando origine a modelli e a istituzioni rivoluzionarie.
Fra le avanguardie di questa nuova fase della Rivoluzione, cioè quella che succede alla Rivoluzione socialcomunista, vi sono i cosiddetti CSOA, i Centri Sociali Occupati Autogestiti. Essi sviluppano un modello di società alternativo a quello familiare — che costituisce l’unità di base della società tradizionale —, fondato sulla banda, come viene affermato in un testo che è per i gruppi che animano i CSOA l’equivalente di quello che fu il Libretto Rosso di Mao Zedong (1893-1976) per i loro padri sessantottini: si tratta di T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome, di cui è autore Peter Lamborn Wilson, un intellettuale anarchico americano che si nasconde sotto lo pseudonimo “islamico” di Hakim Bey, e che è edito a Milano da una casa editrice cyberpunk, vicina agli ambienti del Centro Sociale Leoncavallo, la ShaKe Edizioni Underground (12).
Secondo Hakim Bey, “la famiglia è chiusa dalla genetica, dal possesso maschile delle donne e dei bambini, dalla totalità gerarchica della società agricola/industriale. La banda è aperta — non a chiunque, naturalmente, ma al gruppo di affinità, gli iniziati legati da un patto d’amore. La banda non è parte di una gerarchia più ampia, ma invece parte di un modello orizzontale di costume, parentela estesa, contratto e alleanza, affinità spirituale ecc. […].
“Nella nostra Società della Simulazione post-Spettacolare molte forze sono al lavoro — largamente invisibili — per eliminare la famiglia nucleare e riportare in evidenza la banda” (13), che, nella società post-industriale, comprende gli amici, il partner, il coniuge e l’amante, individui incontrati sui luoghi di lavoro e nelle feste, gruppi di affinità, gente contattata per posta o tramite Internet, e altri.
“La famiglia nucleare diventa sempre più ovviamente una trappola, un tombino culturale, una segreta implosione neurotica di atomi divisi — e l’ovvia contro-strategia emerge spontaneamente nella riscoperta quasi inconscia della possibilità più arcaica eppure più post-industriale della banda” (14). Essa rappresenta — nota Corrêa de Oliveira — “[…] una sintesi illusoria tra l’apice della libertà individuale e del collettivismo accettato, in cui quest’ultimo finisce per divorare la libertà” (15). In questo nuovo sistema collettivista, ogni struttura gerarchica è dissolta, lasciando l’individuo “libero” di fluttuare fra le varie esperienze.
La banda — teorizza Hakim Bey — rappresenterebbe una possibilità di ritorno allo “stato di natura”, cioè a quello stato di “[…] innocenza e possibilità del tutto (Virgin-ia), un caos o novità di forma che l’adepto avrebbe trasmutato in “oro”, cioè in perfezione spirituale come pure abbondanza materiale” (16).
3. I Centri Sociali frutto maturo della modernità
“I centri sociali — scrive Benedetto Vecchi — sono una sfera pubblica in formazione. Una sfera pubblica però alquanto particolare, in quanto riesce ad essere contemporaneamente sia uno spazio pubblico di discussione sul bene comune — il governo della metropoli —, che un luogo in cui sperimentare forme di cooperazione sociale non sottoposte al regime del lavoro salariato” (17).
L’ “utopia” dei Centri Sociali si ricollega a quella di tutta la modernità e ne rappresenta un punto di arrivo. Infatti, uno dei capisaldi del pensiero moderno è costituito appunto dalla “finzione teorica” dello stato di natura.
“Per stato naturale dell’uomo — scrive lo storico e giurista tedesco Samuel Pufendorf (1632-1694) — non intendiamo qui quella condizione a cui la natura tende in ultimo grado come alla più perfetta ed alla più conforme all’uomo, bensì quella in cui si concepisce l’uomo così come è costituito dalla stessa natura, facendo astrazione quindi dalle invenzioni e dalle istituzioni, sia umane sia ispirate all’uomo dalla divinità, che hanno dato alla vita dei mortali un nuovo e diverso aspetto” (18).
E prosegue: “Quali siano i diritti che accompagnano lo stato naturale dell’uomo, si può facilmente ricavare sia dall’impulso comune a tutti gli animali verso la conservazione del proprio corpo e della propria vita e verso l’eliminazione di tutto ciò che vi si oppone; sia dal fatto che coloro che vivono nello stato di natura non sono soggetti al comando di nessuno. Dalla prima proposizione risulta che coloro che si trovano nello stato naturale possono usare e godere qualunque cosa si trovi a portata di mano, mettere in pratica e fare tutto quello che è utile alla propria conservazione, purché non si leda il diritto altrui. Dalla seconda, che gli stessi uomini, come si servono delle proprie forze, così si devono servire del proprio giudizio e della propria volontà, purché conformi alla legge naturale, per procurarsi la difesa e la conservazione di se stessi. Per questo riguardo lo stato naturale acquista anche il nome di libertà naturale, perché, prima che intervenga qualche nuovo fatto dell’uomo, ciascuno non appartiene che a se stesso e non è soggetto al potere di nessun altro. Donde consegue anche che ciascuno è uguale all’altro, perché non è soggetto all’altro né ha l’altro per soggetto” (19).
L’idea dello stato di natura postula che l’uomo, prima del sorgere delle istituzioni umane, viva in una condizione di naturale libertà, intesa come possibilità illimitata di fare e di godere qualsiasi cosa: il limite è rappresentato solo dalla presenza dell’altro, che fruisce delle stesse prerogative.
“Il fatto che tutti gli uomini abbiano diritto a tutte le cose, in effetti — scrive il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) —, non è una situazione migliore di quella che si avrebbe se nessun uomo avesse diritto ad alcuna cosa. Infatti un uomo può usare e beneficiare ben poco di un suo diritto, quando un altro altrettanto forte, o più forte di lui, abbia anch’egli diritto alla medesima cosa” (20).
Per sfuggire a questo pericolo — secondo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) — l’uomo dà origine alla società dicendo ai suoi simili: “Uniamoci […] per garantire i deboli dall’oppressione, frenare gli ambiziosi e assicurare a ciascuno il possesso di ciò che gli appartiene: istituiamo ordinamenti di giustizia e di pace, cui tutti siano obbligati a conformarsi, che non faccian distinzione di persona, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna, sottomettendo ugualmente il potente e il debole ad obblighi reciproci. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, raccogliamole in un potere supremo, che ci governi secondo leggi sagge, che protegga e difenda tutti i membri dell’associazione, respinga i nemici comuni, e ci mantenga in eterna concordia” (21).
“Tale fu o dovette essere — conclude Rousseau — l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, […] assoggettarono ormai tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” (22).
Dunque, Rousseau mostra come la società costituisca un limite alla libertà dell’uomo. Da qui nasce la concezione rivoluzionaria del processo storico come liberazione dalla schiavitù della società e delle sue istituzioni. In questa prospettiva Bobbio afferma che “la storia dell’umanità dalla tribù allo stato di diritto è un faticoso processo di liberazione dell’individuo dalla società totale” (23), il cui scopo finale è “l’eliminazione della estraniazione, cioè l’appropriazione definitiva dell’uomo, l’istituzione dell’uomo totale” (24).
Nell’“uomo totale” le persone singole con i loro modi di pensare, di volere e di essere caratteristici e contrastanti si amalgamano e spariscono nella personalità collettiva, che genera un nuovo individuo collettivo, totale, in cui ognuno è contemporaneamente sé stesso e tutto, essendosi liberato dal “limite” rappresentato dalla sua personalità particolare.
4. Il ritorno allo stato di natura
La T.A.Z. — Zona Temporaneamente Autonoma — è la forma che assume la Rivoluzione in questo scorcio di fine millennio; è la risposta odierna alla volontà di svincolare l’uomo da tutti i legami naturali e da ogni legge, di ritorno allo stato di natura vagheggiato da Rousseau. Prosegue Hakim Bey: “La TAZ ha a che fare con un tipo di feralità, una crescita dalla docilità allo stato selvaggio, un “ritorno” che è anche un passo avanti” (25).
Essa, però, non vuole rinunciare ai successi del progresso; ciò che non ama è la civiltà, intesa come ordine razionale: “Non abbiamo interesse a “tornare alla campagna” se l’affare include la vita noiosa di un burino di paese — né vogliamo il “tribalismo” se viene con tabù, feticci e malnutrizione. Non siamo in guerra con il concetto di cultura — inclusa la tecnologia; per noi il problema inizia con la civilizzazione“ (26).
Essa si ispira a precedenti storici come quello dei bucanieri della Tortuga. “Fuggendo dagli odiosi “vantaggi” dell’Imperialismo, quali schiavitù, servitù, intolleranza e razzismo, dalle torture del servizio militare forzato o dalla morte vivente delle piantagioni, i Bucanieri adottarono costumi Indiani, si sposarono con Caraibici, accettarono Neri e Spagnoli come pari, rigettarono ogni nazionalità, elessero democraticamente i loro capitani e ritornarono allo “stato di Natura”. Dopo essersi dichiarati “in guerra con tutto il mondo” navigarono per saccheggiare sotto contratti mutui chiamati “Articoli”, che erano così egualitari che ogni membro riceveva una parte intera di bottino e il Capitano ne prendeva un quarto o un mezzo in più. Flagellazioni e punizioni erano proibite — i litigi venivano risolti col voto o col codice del duello” (27).
L’utopia pirata, per il suo modo d’essere, era destinata a finire, a essere “temporanea”. Il suo luogo di vita erano le navi che solcavano gli oceani. A terra vi erano enclavi senza legge, come Nassau nelle Bahamas: “[…] un gruppo di capanne e tende davanti alla spiaggia dedicate al vino, alle donne (e probabilmente anche ai ragazzi a giudicare da Sodomia e Pirateria di Birge), la canzone (i pirati erano totalmente innamorati della musica ed erano abituati a ingaggiare gruppi per intere crociere) ed eccessi scellerati” (28).
Un’altra esperienza di T.A.Z. Hakim Bey la rinviene, curiosamente, nell’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio (1863-1938). “Lui e uno dei suoi amici anarchici scrissero la Costituzione che dichiarava la musica essere il principio centrale dello Stato. La Marina (formata da disertori e sindacalisti marittimi anarchici Milanesi) si chiamò gli Uscochi, in memoria dei pirati da tempo scomparsi, che erano usi abitare le isole locali fuori costa e predare il naviglio Veneziano e Ottomano. I moderni Uscochi realizzarono alcuni colpi clamorosi: diversi ricchi mercantili Italiani improvvisamente diedero un futuro alla Repubblica: soldi nei forzieri! Artisti, bohémien, avventurieri, anarchici (D’Annunzio corrispondeva con Malatesta) fuggitivi e rifugiati apolidi, omosessuali, dandy militari (l’uniforme era nera con teschio e tibie pirata — più tardi rubata dalle SS) e strambi riformatori d’ogni tipo (compresi Buddisti, Teosofisti e Vedantisti) iniziarono ad arrivare in massa a Fiume. La festa non finiva mai. Ogni mattina D’Annunzio leggeva poesia e proclami dal suo balcone; ogni sera un concerto, poi fuochi d’artificio. In questo consisteva l’intera attività del governo. Diciotto mesi dopo, quando il vino e i soldi finirono e la flotta italiana finalmente arrivò e lanciò qualche proiettile contro il Palazzo Municipale, nessuno ebbe l’energia per resistere” (29).
Questa esperienza rappresenta per Hakim Bey l’ultima utopia pirata e la prima T.A.Z. moderna.
Questo modo di vita senza regole, intendendo per esse le regole della civiltà, poiché anche l’utopia pirata ha le sue norme, viene presentato da Hakim Bey come la realizzazione dello stato di natura. In esso è preponderante la liberazione sessuale. “Ritornare a uno “stato di Natura” paradossalmente sembra permettere la pratica di ogni atto “innaturale” […] E difatti certe comunità emarginate realmente rigettano la moralità consentita — i pirati certamente lo fecero! — e senza dubbio misero in atto alcuni dei desideri repressi della civiltà (Non fareste lo stesso?). Divenire “selvaggi” è sempre un atto erotico, un atto di nudità” (30).
Il ritorno allo stato di natura può attuarsi tramite il cambiamento dell’ordine sociale esistente, nato dal “contratto sociale”. Non potendo più essere il risultato di una rivoluzione globale, questo ritorno può avvenire attraverso piccole ribellioni quotidiane, tutte rivolte contro le istituzioni.
Vi è il rifiuto della scuola con “l’”analfabetismo volontario”” (31); il rifiuto della politica con l’astensionismo elettorale; il rifiuto del lavoro con “[…] forme di assenteismo, ubriachezza sul lavoro, sabotaggio e pura disattenzione — ma può anche dare vita a nuovi modi di ribellione: più lavoro in proprio, partecipazione nell’economia “nera” e “lavoro nero“, truffe all’Assistenza Sociale e altre opzioni criminali, coltivazioni d’erba ecc.” (32); rifiuto della Chiesa con la “[…] costruzione di “moralità private” nel senso nietzschiano; la spiritualità di “spiriti liberi”” (33); il rifiuto della casa con il nomadismo; il rifiuto della famiglia di cui si è già detto.
5. I Centri Sociali come Zone Temporaneamente Autonome
Quindi i Centri Sociali, che si ispirano alle teorie della T.A.Z., di cui vogliono essere una realizzazione, si presentano come la versione aggiornata dell’azione rivoluzionaria che — secondo la definizione di Corrêa de Oliveira — “[…] mira alla distruzione di un potere o di un ordine legittimo e all’instaurazione al suo posto di uno stato di cose (intenzionalmente non vogliamo dire “ordine di cose”) o potere illegittimo” (34).
Si può ritrovare questa definizione espressa nel lessico ideologico-politico-sociologico — tipico delle scritture politiche della sinistra — nella risposta di Vecchi a una lettera apparsa su il manifesto. quotidiano comunista, in cui definisce i Centri Sociali “[…] come specchio delle trasformazioni produttive e sociali delle economie capitaliste. Anzi, se si vuole andare alla radice delle cose, i centri sociali sono terminali sensibili di un ancora incerto punto di vista che quelle trasformazioni non le vuole subire, ma considerarle come punto di partenza per una critica e una azione politica radicale contro lo stato di cose presenti” (35).
Essi si inseriscono a pieno titolo nella continuità di una storia, che — nota la Solaro — è “[…] radicata in un codice genetico che va dall’ormai estinta tradizione delle Case del Popolo, alla pratica delle occupazioni negli anni caldi della lotta per la casa, e che ha trasmesso la sua memoria e le “forme” dell’aggregazione ai centri sociali” (36).
Ma i loro punti di riferimento sono i fenomeni del 1968 e del 1977, di cui rappresentano l’evoluzione negli anni 1990, nel senso che riprendono e amplificano quegli atteggiamenti “di bandiera” dei loro padri, facendoli diventare comportamenti diffusi. Inoltre, anche l’estrazione sociale borghese li accomuna a molti “rivoluzionari sessantottini”, che poco o nulla avevano da spartire con i proletari nel cui nome parlavano.
Anche questi nuovi figli del benessere, che frequentano i Centri Sociali, non provengono da quelle sacche di emarginazione, di cui, invece, si vogliono fare i paladini e gli interpreti. Infatti, da una ricerca condotta dal Consorzio Aaster in collaborazione con i Centri Sociali Cox 18 e Leoncavallo di Milano, risulta che la percentuale più alta, il 30,8%, dei frequentatori dei Centri Sociali è composta da lavoratori dipendenti, seguita dagli studenti con il 22,4%; insieme queste due categorie costituiscono la maggioranza di quanti frequentano tali centri, il 53,2%.
I disoccupati e quanti sono in cerca di prima occupazione rappresentano un’esigua minoranza, l’8,6% (37). Quindi — l’osservazione è di Vecchi — “[…] quella dei centri sociali non è una rivolta plebea di giovani disoccupati” (38).
Come i precedenti, anche loro hanno il virus della “ribellione”, che è la vera molla della loro “attività sociale”. “Continua a essere sommamente vero che “ribellarsi è giusto” — nota Goffredo Fofi — ma è vero come non mai che le strade della ribellione possono essere solo funerarie, o solo estetiche. E che quelle della costruzione hanno più che mai bisogno di mettersi alla prova sulla strada più semplice di tutte: quella della solidarietà, quella della comunità. Strada aperta con modelli aperti” (39).
Rispetto ai movimenti rivoluzionari della terza fase della Rivoluzione, il loro obiettivo non è la conquista del potere, ma — scrive la Solaro — l’occupazione di “[…] spazi dove vivere le cose negate” (40), cioè creare zone in cui sia possibile sperimentare un modo di vita “alternativo” a quello vissuto nella società, in cui non vi sia più ordine, gerarchia e autorità. Il loro scopo è di plasmare una mini-società che vive coscientemente al di fuori e al di là della Legge e risoluta a restarci a tutti i costi, anche se soltanto per una fugace ma felice esistenza.
La causa di questo cambiamento di azione è da rintracciarsi proprio nel fallimento del processo dialettico della Rivoluzione, come si è sviluppato nella storia secondo una “[…] traiettoria approvata dal consenso; rivoluzione, reazione, tradimento, la fondazione di uno Stato più forte e ancora più opprimente” (41), come afferma Hakim Bey.
Secondo lui, la Rivoluzione si è rivelata “[…] una maligna trappola del destino pseudo-gnostico, un incubo nel quale — non importa quanto combattiamo — non riusciamo a sfuggire quel malefico Eone, quell’incubus: lo Stato, uno Stato dopo l’altro, ogni “paradiso” comandato da ancora un altro angelo malvagio” (42). Infatti la Rivoluzione non è ancora riuscita a realizzare il sogno anarco-comunista di una società libera dall’apparato statale perché, appena essa trionfa, lo Stato riappare ancora più forte e il sogno è già tradito.
Contro questa impostazione, ecco farsi strada un nuovo concetto, quello di insurrezione. Esso viene inteso come “[…] un’”esperienza-picco” rispetto allo standard della coscienza e dell’esperienza “ordinaria”. Come i festival, le sollevazioni non possono accadere ogni giorno — altrimenti non sarebbero più “non ordinarie”. Ma tali momenti d’intensità danno forma e significato a un’intera vita” (43). Purtroppo la situazione storica non è favorevole a una “[…] insurrezione che fiorisca in una cultura anarchica“ (44), a causa dello “Stato megacorporato dell’informazione” (45).
Per far fronte a questo nemico attualmente invincibile, Hakim Bey teorizza la tecnica della T.A.Z. “La TAZ è come una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo, prima che lo Stato la possa schiacciare. Poiché lo Stato è occupato primariamente con la Simulazione invece che con la Sostanza, la TAZ può “occupare” queste aree clandestinamente e portare avanti il suo scopo festivo per un bel po’ in relativa pace” (46).
Iniziare la T.A.Z. può comportare tattiche di violenza, ma la sua forza sta nel risultare “invisibile” al potere; nell’essere insignificante perché la sua opposizione non è frontale. “La TAZ è perciò una tattica perfetta per un’era nella quale lo Stato è onnipresente e onnipotente, eppure simultaneamente pieno di crepe e vuoti” (47).
Dunque, dopo aver diffuso nel mondo lo Stato ipertrofizzato, che occupa tutti gli spazi della vita delle persone, ecco la Rivoluzione pensare e proporre la sua distruzione tramite nuove forme di aggregazione sociale come le T.A.Z. In questi spazi dismessi, lasciati liberi dall’invadenza statale, si muove la tribù dei Centri Sociali. Il loro punto di riferimento è la città post-industriale con la prevalenza del terziario e dei servizi.
“Le città contemporanee, nella fase avanzata della loro ristrutturazione, negano in misura sempre maggiore i servizi, il verde, gli spazi di socialità non asserviti ad una logica commerciale” (48). A questa logica capitalistica post-industriale, i Centri Sociali oppongono “[…] una concezione diversa del vivere quotidiano. Fatta di musica, di immagini, di strumenti di comunicazione, di lavoro artigianale, creatività, organizzazione in proprio di servizi” (49).
La ribellione nei Centri Sociali assume quindi un volto antagonista, “alternativo”, rispetto a quello offerto dalla città post-industriale, “[…] che vorrebbe tutti uguali, omologati” (50).
A questa omologazione i Centri Sociali oppongono la loro “diversità”; “e la diversità può essere fatta di tante cose: la diversità dei punks anarchici, quella degli “extracomunitari”, la diversità politica di chi non si riconosce nei partiti tradizionali, ma neppure nella logica vecchia e sorpassata dei “gruppi” della sinistra extraparlamentare, e all’interno di un Cso cerca nuove pratiche politiche e nuovi “orizzonti ideali”” (51).
La più nota di queste pratiche politiche è l’occupazione. “Il gesto dell’occupare è, nella logica dei centri sociali, molto importante. Perché è un gesto di semi-illegalità […], ma che crea in sostanza una frattura netta inequivocabile con l’ordine dato, ovvero le istituzioni. È, insomma, un gesto che dice: noi ci riprendiamo ciò che non ci avete voluto dare. Ci poniamo sul piano dell’illegalità rispetto ad una legalità che non riusciamo più a riconoscere come nostra” (52).
Lo scopo “politico” del Centro Sociale è quello di “[…] trasformare in centro sociale il territorio che lo circonda” (53). In questo modo i CSOA si pongono come luoghi d’avanguardia, in cui si sperimenta un modello di società “orizzontale”, senza gerarchie né autorità.
Un esempio lampante è dato dall’Isola nel Kantiere a Bologna, nella cui descrizione si può notare che il linguaggio usato si allontana dallo stereotipo del “sinistrese”, per assumerne uno nuovo, che fa ampio uso di termini ricavati dal lessico delle reti informatiche: “L’Isola è questo: nasce in modo classico attraverso una forma di riappropriazione degli spazi occupando, ma associa a questo tipo di percorso, di produzione, anche dei modelli di organizzazione diversa. Che tipo di modelli? dei modelli che assomigliano più a reti neuroniche, cioè alle reti che permettono al nostro cervello di arrivare a pensare e quindi anche ad agire, come nodi di interesse che hanno degli input, producono degli output informativi che permettono una interazione completa fra gli elementi che vivono all’interno del microcosmo I.N.K., e producono il visibile, cioè l’Isola. Tutto il lavoro sommerso, quindi, avviene attraverso questa rete informativa, in cui ci si scambia informazioni e progetti, e ciascun progetto introduce informazioni attraverso altri nodi, che sono composti da individui o gruppi di interesse che lavorano all’interno dei luoghi. Ecco, questo tipo di autoforma di organizzazione è molto importante. Lo è innanzitutto perché esprime una forma antiautoritaria, in questo modo non c’è la possibilità di definire né leaders, né altre tipiche situazioni in cui la maggior parte dei Cs cade, ma tutti i nodi, in quanto relazionati tra loro, stanno allo stesso livello. Abbiamo di fatto una “nonleaderizzazione” del progetto politico, e questa cosa è molto importante” (54).
6. L’identità culturale e il progetto politico dei Centri Sociali: il “municipalismo libertario”
I frequentatori di questi centri rappresentano, più che un residuo nostalgico del passato rivoluzionario, un’avanguardia del tipo umano, frutto dell’evoluzione progressista, che si pone in continuità con l’esperienza del 1968 e del 1977.
Coltivano un’identità culturale, estetica ed etica, che ha un caposaldo nel punk — parola di origine inglese, che vuol dire “cosa marcia, senza valore” —, il quale “[…] esprime, più o meno consapevolmente, il crepuscolo delle ideologie, si mette a lutto (il nero è la tonalità prevalente) per la fine degli “orizzonti di riferimento ideali”. […] Per questo smette di progettare il futuro, un altrove utopico, perché si sente ingabbiato nel presente, senza via d’uscita se non quella di inventare, cercare percorsi nuovi a partire proprio da quel presente da cui vorrebbe, ma non può fuggire” (55).
Il punk con i suoi comportamenti radicali e il suo ribellismo anarcoide, in cui l’odio per la società e i suoi valori è la vera molla che fa stare insieme, dà al movimento degli spazi sociali autogestiti la sua identità culturale, fatta di antimilitarismo, ecologismo, animalismo, anticlericalismo, antiamericanismo, multiculturalismo e tutto ciò che richiama a una critica radicale dei valori tradizionali.
A esso si associa il reggae, che si caratterizza per le tematiche antirazziste, come la lotta all’apartheid, e l’uso della marijuana. Esso vagheggia una mitica zulu nation, incentrata sui valori di pace, amore e unità.
L’aspirazione è quella di una società multirazziale. Queste due matrici culturali danno origine, insieme all’eredità dell’extraparlamentarismo di sinistra, a quella che si può definire la nuova identità dei Centri Sociali, l’anarcopunkrastautonomia, in cui si ritrovano il punk e il reggae — individuabile in rasta —, uniti alla cultura anarchica e dell’autonomia: “[…] le occupazioni, le autogestioni i centri sociali non sono fantasie di sbandati / anarcopunkrastautonominati / ma sono frutto di un’esigenza, della mancanza di strutture ufficiali, / popolari che permettano la socializzazione senza dover / pagare il prezzo del business sullo spettacolo” (56).
I CSOA si presentano quindi come le fucine della “cultura alternativa” di una sinistra in cui si sperimenta il tribalismo post-moderno, dove, più che elaborare una nuova visione del mondo, capace di guidare qualsiasi cambiamento, si vive una dimensione libertaria in cui l’unico fattore coagulante è il rifiuto di ogni ordine e di ogni verità, e l’odio verso coloro che richiamano a questa visione del mondo.
A questo tribalismo post-moderno i CSOA preparano adeguatamente i loro adepti tramite “una politica pacifista non ecumenica, né moderata, né non-violenta” (57), che significa non rinunciare alla conflittualità, alla lotta politica, ma dare una nuova direzione al conflitto o alla molteplicità dei conflitti che “[…] aggrediscono radicalmente lo stato capitalistico e i suoi assetti economici e giuridici” (58).
La direzione è quella “che mette in questione la sovranità come tale e che distoglie dunque lo sguardo e l’azione dalla malefica ipnosi del potere statale e della sua presa. […] Conflitti che non mirano al possesso della sovranità, ma al suo dissolvimento e alla difesa di ciò che non nasce come concessione del sovrano, ma come costruzione collettiva di un fare che ricade al di fuori della sua sfera di azione” (59).
Quindi la conflittualità operata dai Centri Sociali ha lo scopo di dissolvere la sovranità dello Stato e di creare “zone franche”, libertarie, sottratte alla potestà statale. In questo si inseriscono a pieno titolo nella continuità del processo rivoluzionario descritto precedentemente e diventano uno dei grimaldelli per far saltare la costruzione dello Stato moderno, nato dalla Rivoluzione francese, e sostituirlo con le “municipalità”: sono esse il nuovo orizzonte politico in cui deve muoversi la società post-industriale.
“La crisi degli stati multietnici a cui stiamo assistendo costituisce probabilmente la migliore indicazione della difficoltà di amministrare grandi comunità. L’osservazione empirica di Rousseau secondo cui la democrazia è in grado di funzionare nelle piccole comunità deve essere costantemente tenuta presente” (60).
Infatti la “democrazia rappresentativa” si sta rivelando incapace di gestire la complessità post-moderna, da qui la crisi di legittimità che investe il sistema parlamentare e la disaffezione dei cittadini verso la partecipazione politica.
A questa crisi nel campo della Rivoluzione vi è chi prospetta la soluzione della “democrazia diretta”, la quale per definizione può funzionare solo nelle piccole comunità cittadine. “È allora necessario elaborare una nuova alternativa, che non sia parlamentare, né esclusivamente marginale o contro-culturale. L’azione diretta dovrebbe fondersi con una nuova politica, in una sorta di autogestione municipale fondata su una democrazia pienamente partecipativa” (61).
Il teorico anarcoecologista Murray Bookchin, autore di questa affermazione, chiama tale alternativa “municipalismo libertario”. “Municipalismo” indica il nuovo luogo della conflittualità sociale: non più le grandi istituzioni statali, ormai acquisite alla logica della Rivoluzione, ma la comunità cittadina, il quartiere, dove ancora esiste una resistenza popolare all’accettazione delle idee rivoluzionarie.
Osserva Bookchin: “Sarebbe ingenuo anche credere che forme come le assemblee popolari di quartiere, di città, di villaggio siano in sé sufficienti a costituire una vita pubblica libertaria, cioè che possano dar la luce ad un corpo politico libertario in assenza di un movimento libertario estremamente cosciente” (62).
Questo movimento “[…] vuole liberarsi dalla gerarchia sociale, dal dominio classista e sessista, e dall’omogeneizzazione culturale” (63). Il soggetto politico principale non deve essere né l’individuo, né la famiglia, né tanto meno lo Stato: “La cellula vivente che costituisce l’unità primaria della vita politica è la municipalità ed è da questa che deve discendere ogni altra cosa” (64).
In questo nuovo soggetto sovrano potrà realizzarsi la forma di T.A.Z. che prevede il superamento della famiglia: “È a questo livello che diviene possibile oltrepassare il privato e la grettezza di una vita familiare celebrata per la sua separatezza, per sperimentare quelle istituzioni pubbliche tese alla partecipazione ed alla associazione” (65).
Anche la proprietà privata sarà nuovamente messa in discussione: “Il municipalismo libertario […] prevede anche un diverso approccio all’economia, il cui requisito minimo è appunto quello di proporre una municipalizzazione della struttura economica; cosa ben diversa da una sua centralizzazione in imprese “nazionalizzate”” (66).
La diversità, rispetto all’esperienza storica del modello socialcomunista consiste nell’atomizzazione del sistema economico, improntato sempre, però, al collettivismo: “Il municipalismo libertario propone una forma di economia radicalmente differente in cui territorio e imprese vengono affidate alla gestione dei cittadini riuniti in libere assemblee” (67).
Questa riedizione dei soviet sarà guidata ancora da idee marxiste, come dice il testo in questione: “La massima “da ciascuno secondo le proprie capacità e a ciascuno secondo i propri bisogni” può essere una guida sicura per una società economicamente razionale” (68).
E ancora: “La municipalizzazione dell’economia non solo assorbe le differenze professionali che potrebbero militare contro un’economia pubblicamente controllata, ma assorbe altresì i mezzi materiali di vita nelle forme comunitarie di distribuzione. “Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni” viene adesso istituzionalizzato come parte della sfera pubblica e cessa così di apparire un fragile auspicio per diventare una prassi, una modalità di funzionamento politico incardinata nella struttura comunitaria” (69).
Le municipalità, quali cellule di base della società civile, non devono avere strutture politiche superiori a cui essere subordinate, ma devono essere come isole collegate fra loro in una rete globale. Infatti “l’interdipendenza tra comunità non è meno importante dell’interdipendenza tra individui” (70).
Ciò pone alla Rivoluzione “il problema del superamento dell’istituzione statuale” (71), che però “[…] non significa necessariamente che ci debba essere un trasferimento del potere da parte degli stati alle nuove istituzioni. […] La sfida del modello cosmopolitico non è quella di sostituire un potere con un altro potere, ma al contrario quella di ridurre la funzione del potere nel processo politico” (72).
L’attuale progetto rivoluzionario è quindi quello di una società civile globale, ossia di una rete mondiale di telecomunicazioni che colleghi la massa delle piccole comunità interdipendenti. “L’intero sforzo dovrebbe essere concepito all’interno di circostanze storiche in cui emerga una società civile globale collegata da tecnologie della comunicazione, che renda possibile lo sviluppo di un insieme di informazioni comuni, per quanto differenziato, e di una crescente consapevolezza transnazionale dell’identità e della partecipazione globali” (73).
Da qui l’interesse dei Centri Sociali per la comunicazione su reti telematiche, definita “lo strumento più economico e “democratico” di comunicazione orizzontale” (74).
Lo scopo di queste avanguardie, quindi, è quello di contribuire alla demolizione dell’istituzione statale in tutte le sue forme, per sostituirla con una rete orizzontale di comunicazione fra municipalità. Ecco perché l’azione politica dei Centri Sociali ha come orizzonte la città, in cui cercano di scardinare ogni residuo di ordine gerarchico esistente.
Infatti Bookchin ammonisce: “Bisogna tenere in seria considerazione il fatto che né il decentramento, né l’autosufficienza sono in sé necessariamente democratici. […] Una società decentrata può tranquillamente coesistere con gerarchie estremamente rigide. Ne è un esempio lampante il feudalesimo europeo e orientale: ordini sociali in cui le gerarchie nobiliari erano basate su comunità estremamente decentrate” (75).
7. La religiosità nella IV Rivoluzione
Coerenti con la loro impostazione anarchica e libertaria, i Centri Sociali hanno in odio ogni forma di religione istituzionalizzata e in particolare la religione cattolica, come dimostrano le cronache degli atti blasfemi compiuti, in gruppo o singolarmente, dai loro frequentatori.
L’esempio del Centro Sociale napoletano Tien’a’Ment è significativo. “Il 18 gennaio i vigili urbani di Napoli, a seguito di una denuncia sottoscritta da oltre quattrocento cittadini, intervengono presso un sedicente centro sociale, nel quartiere Soccavo, provvedono a far sgomberare l’edificio illegalmente occupato e sequestrano una inquietante “scultura”, fatta di ferro e cavi elettrici intrecciati, raffigurante un crocifisso che al posto della testa di Nostro Signore Gesù Cristo ha quella di un animale con le corna, un bue, o più verosimilmente un capro” (76).
Oltre a episodi come questo, vi è il filone irreligioso e blasfemo dei testi delle canzoni ascoltate e diffuse nei Centri Sociali, in cui la preghiera è l’occasione per parafrasi irriverenti: “Padre nostro / che sei dei nostri / liberaci dal peccato / pagaci un avvocato […] / Padre nostro / che sei dei nostri / Non ci indurre in tentazione / paga la cauzione” (77).
Inoltre nel comunicato n. 1 per l’associazione dell’anarchismo ontologico, riportato nel libro sulle T.A.Z., si può leggere: “Attacchinare in luoghi pubblici un volantino fotocopiato di un meraviglioso bambino dodicenne nudo che si masturba, chiaramente intitolato: LA FACCIA DI DIO” (78).
Fra gli scopi dei Centri Sociali vi è quello di sovvertire la religione. “Proprio come i radicali culturali cercano di infiltrare e sovvertire i media popolari e proprio come i radicali politici producono simili funzioni nelle sfere del lavoro, nella Famiglia e in altre organizzazioni sociali, così c’è bisogno di radicali che penetrino l’istituzione della religione stessa piuttosto che continuare a sputare frasi fatte del XIX secolo a proposito di materialismo ateo” (79).
Essa viene vista come il fumo negli occhi perché rivela all’uomo il suo stato di creatura limitata e condiziona la sua salvezza, la sua realizzazione, la sua felicità all’adesione amorosa a una verità rivelata e al rispetto della legge divina, che ha il suo riflesso nella legge naturale.
La cultura a cui si abbeverano i frequentatori dei Centri Sociali rifiuta il concetto di legge, come afferma Hakim Bey: “La Natura non ha Leggi (“solo abitudini”) e tutte le leggi sono innaturali. Tutto appartiene alla sfera della moralità personale/immaginale — anche l’assassinio” (80).
L’uomo è il “solo” protagonista della propria morale: ecco perché le religioni vengono odiate. Ciò però non vuol dire che l’uomo deve rinunciare alla religiosità; qualora lo voglia può crearsi una sua personale religione che unisca elementi disparati, dando origine alle “Religioni Libere” (81), che includono “[…] le correnti Psichedeliche e Discordiane, il neo-paganesimo non gerarchico, le eresie antinomiane, caos e Kaos Magik, l’HooDoo rivoluzionario, i Cristiano-anarchici e “senza chiesa”, il Giudaismo Magico, la Chiesa Ortodossa Moresca, la Church of the Sub-Genius, la gente delle feste, i Taoisti radicali, i mistici della birra, la gente dell’Erba ecc.” (82).
Anche la stregoneria è presa in considerazione perché “[…] agisce nel creare intorno a sé uno spazio psichico/fisico o aperture in uno spazio di espressione libera — la metamorfosi del luogo quotidiano nella sfera angelica” (83).
8. L’arte figurativa e la musica come elementi sovversivi
Anche l’arte figurativa espressa dai Centri Sociali rispecchia la violenza dello stile e spesso dei contenuti nei “graffiti” che con aggressivo vandalismo vengono dipinti, senza chiedere permesso, sulle mura di strutture pubbliche e di privati condomini.
Alla base vi è lo stesso gesto di illegalità delle occupazioni, cioè di uno spazio cittadino da “espropriare” per “comunicare” il proprio messaggio rivoluzionario. “I graffiti sono una rivolta tribale contro i mali della società capitalista. La coscienza che ha l’artista di poter affermare la propria identità solo violando la proprietà pubblica o privata, non riduce il valore del suo lavoro, bensì lo aumenta notevolmente” (84).
Per quanto riguarda la musica posse — parola dello slang giamaicano che significa “gruppo” —, quella prodotta da artisti vicini ai CSOA, è “[…] basata sulla riutilizzazione di brani di qualsiasi tipo, presi in prestito da gruppi e generi diversi, secondo una tecnica definita “campionatura”, cioè scelta di campioni di brani, “rubati” e riciclati in una nuova produzione” (85).
In questo modo si esprime l’opposizione alla musica e alla cultura istituzionali, utilizzandole per veicolare i messaggi politici: “[…] la parola “rappata” si rivela uno strumento rivoluzionario efficacissimo, capace di contrapporsi all’informazione ufficiale” (86). I gruppi musicali amano battezzarsi con nomi che richiamano la concezione nomade della vita come gli Almamegretta o al multiculturalismo come Sangue Misto, e Africa Unite; ma il più delle volte esprimono la rabbia e la rivolta come Assalti Frontali, Ak 47 — il Kalashnikov —, Eversor, P38 Punk, Piombo a Tempo, Le Menti Criminali, Bomba Bomba, Devastatin’ Posse, e così via.
Il ruolo degli artisti posse è quello di informare l’ascoltatore di quanto succede intorno a lui, di risvegliare la sua coscienza rivoluzionaria e di indicargli come fare parte attiva della società, in modo da poterla cambiare.
I testi delle loro canzoni sono ispirati dall’infinito repertorio della cultura della sinistra extraparlamentare e rinverdiscono il filone della canzone politica del Sessantotto, quello che ha prodotto brani come Contessa e Mio caro padrone domani ti sparo di Paolo Pietrangeli, autentica colonna sonora del movimento extraparlamentare di sinistra del periodo: “[…] ora nei novanta tutto quanto è ormai cambiato / ma il proletariato resta sempre incatenato / nella morsa stretta dei potenti dello stato” (87).
Sono frequenti affermazioni derisorie delle istituzioni: “Dentro Agnelli e Berlusconi spacciatori d’illusioni / perché basta una bustina e non rompi più i coglioni” (88); “[…] il contrasto ed il volume di un programma ad uso statale / scrupolosamente Mafioso e Quirinale, dove c’è sempre ben poco che traspare” (89).
Inoltre, appaiono spesso riferimenti a realtà care all’immaginario della sinistra: Cuba, la Palestina dell’Intifada, o ai suoi miti come Fidel Castro Ruz ed Ernesto Che Guevara de la Serna (1928-1967), di cui sono esempio le canzoni Nazi Sion Polizei della Banda Bassotti e Fidel, Fidel dei Red House.
Il mondo della televisione, soprattutto quella commerciale, è ossessivamente demonizzato: “[…] ricicli i tuoi escrementi e i tuoi teleutenti fededipendenti” (90); “[…] isterismo / a schermo piatto che mi vuole uguale al / modello” (91).
La nascita del Polo per le Libertà ha dato l’occasione per sferzanti invettive: “[…] c’è chi c’ha Le Pen / e chi invece Pinoscè / ma perché a noi ’sto buffone con quell’espressione da muppet sciò […] benvenuto all’ennesimo idiota” (92). L’antiproibizionismo e l’uso di droghe leggere viene sostenuto: “[…] non c’è morto mai nessuno / liberalizzate il fumo” (93); “[…] non è buono dico dev’esser tagliato / al mercato nero è caro e cattivo / terriccio ed henne senza principio attivo / sì mi sentirei più assicurato / se ci fosse il Monopolio di Stato” (94).
La droga pesante però è sempre rifiutata: “[…] no grazie non voglio il tuo veleno il rap è la mia droga / non ne posso fare a meno io rimo duro, tu non mi conosci / se ti droghi gli anni di vita son pochi, se alla pelle ci tieni / bucarsi non è il modo per risolvere i problemi” (95).
In molti dei loro testi è presente un inno all’odio e alla violenza sociale: “Devi essere tu ad annientare lo stato / a distruggere il mondo dove tutto sarà controllato” (96); “Dico non mi provocare dico non mi disturbare / dico stammi lontano dico vattene a cacare / dico se mi incontri per la strada incomincia a scappare / tieni bene a mente dico non dimenticare” (97); “[…] appicciamm’ ’e fascisti cu’ tutto ’o viminal’” (98).
9. I diritti dei “diversi”
I Centri Sociali pretendono di avere una funzione “civile”, soprattutto quando si battono insieme ai “compagni” omosessuali organizzati. Se ne vedano esempi nelle iniziative segnalate nella rubrica … e dintorni de il manifesto. quotidiano comunista sugli CSOA: “È bella chi si ribella: così i collettivi bolognesi Lilith-Luna Nera, Zona Femminista e Zona Lesbica hanno occupato sabato (in via Corticella) “un luogo dove creare socialità femminile, contro la mercificazione del corpo e della mente”. Polemica dura con la sinistra: “Non c’è un posto pubblico per donne dove poterci incontrare senza sguardi e controllo maschile”. Non l’abbiamo preso in affitto — hanno scritto — “perché ci sembra di pagare già prezzi troppo alti per vivere in questo mondo come donne e come lesbiche”. E ancora “La violenza su di noi aumenta e la guerra contro le donne è in piena recrudescenza”” (99).
“Torino Counselling Omosessuale. Il counselling omosessuale intende promuovere momenti di ascolto qualificato per chi voglia approfondire il suo orientamento sessuale. Il circolo “Maurice” promuove una serie di incontri. Il prossimo è il 7 maggio” (100). “Da Sodoma ad Hollywood. Tra gli altri film da vedere al festival dei film con tematiche omosessuali, alle 20.30, questa sera il lungometraggio in concorso The water melon woman e alle 22.30 Madagascar skin al cinema Massimo” (101).
La lotta per i diritti dei “diversi” è contro l’ordine espresso dalla legge di Dio e da quella naturale, che da sempre la sinistra non considera degno di rispetto perché limitante la libertà individuale; da qui il compito di diffondere stili di vita libertari. E tale lotta è una violenza, perché diretta a sovvertire l’ordine naturale della creazione.
A questo proposito è illuminante leggere l’articolo Non solo etero, non solo maschi, apparso a firma di Gianni Rossi Barilli in un supplemento de il manifesto. quotidiano comunista il 18 settembre 1994 su rapporti fra Centri Sociali e tematiche omosessuali, in cui si afferma: “Vedere e capire chi incarna “trasgressioni” diverse dalla propria può certo alimentare nuove solidarietà […].
La reciproca influenza tra diversi può propiziare evoluzioni imprevedibili […]. L’antiproibizionismo, il progetto multietnico, i mille rivoli di successive e originali elaborazioni culturali giovanili hanno già delineato scenari che contrastano in modo clamoroso con la statica rappresentazione dell’estremismo che ossessiona la mente dei bempensanti. Contribuire a mettere in discussione l’ordine sessuale costituito darebbe ulteriori chances” (102).
10. Il “nomadismo psichico”
Tutte le caratteristiche descritte in precedenza disegnano la categoria culturale fondamentale della IV Rivoluzione, che i CSOA propagano, cioè il “[…] “nomadismo psichico” inteso comeabbandono delle appartenenze familiari, nazionali, geografiche, di gruppo politico, di identità rigidamente intese come appartenenza esclusiva in senso ideologico, alla ricerca di nuove possibilità nella costruzione dei rapporti umani e nei confronti del potere” (103).
Esso “[…] crea “zingari”, viaggiatori psichici spinti dal desiderio o dalla curiosità, vagabondi con poche lealtà […] non legati a nessun particolare tempo o luogo, in cerca di diversità e di avventura… Questa descrizione copre non solo le classi di artisti e intellettuali, ma anche lavoratori migranti, rifugiati, “senza casa”, turisti, la cultura del camper e della casa mobile — anche gente che “viaggia” via Rete, ma magari non lascia mai la propria stanza […], e finalmente include “tutti”, tutti noi, che viviamo attraverso le nostre auto, le nostre vacanze, le nostre TV, libri, film, telefoni, cambi di lavoro, cambi di “stile di vita”, religioni, diete, ecc.” (104).
Esso ha un suo “misticismo”, che non è quello tradizionale, contrassegnato dalla fuga dal mondo, dal dominio della corporeità e dall’indifferenza verso le creature, bensì quello in cui il corpo è “[…] il luogo del caos e quindi come il momento in cui tutto deve essere lecito, come sovrabbondanza, come ebbrezza, come superamento degli stati di coscienza normalmente consentiti, per trasformare finalmente il corpo da luogo di mortificazione a tempio della carne viva” (105).
Ciò richiede un nuovo materialismo. Hakim Bey, nel testo sulle T.A.Z., critica infatti la concezione materialista della vecchia sinistra e scrive: “L’anarchismo deve svezzarsi dal materialismo evangelico e dal banale scientismo bi-dimensionale del XIX secolo […]L’oriente, l’occulto, le culture tribali possiedono tecniche che possono essere “appropriate” in maniera anarchica […] Abbiamo bisogno di un tipo pratico di “misticismo anarchico”, privo di tutte le cazzate New Age e inesorabilmente eretico e Anti-clericale; avido d’ogni nuova tecnologia di coscienza e metanoia — una democratizzazione dello sciamanismo, ebbra e serena” (106).
Hakim Bey indica proprio lo yoga come via privilegiata: “[…] il progetto iniziato dall’Individualismo può essere evoluto e ravvivato da un innesto con il misticismo — specificamente con il tantra. […] “Questo ibrido è stato chiamato “materialismo spirituale”, un termine che brucia tutte le metafisiche nel fuoco dell’unità di spirito e materia” (107).
Il tantra-yoga che Hakim Bey suggerisce ai Centri Sociali è quello della dea Kalì, alla quale ancora oggi in India si offrono sacrifici umani: “La conosco, conosco Kali. Sì, è assolutamente l’archetipo di tutto l’orrore, eppure per quelli che sanno diviene la madre generosa. […] “La sua era deve contenere orrori, poiché la maggior parte di noi non può capirla o arrivare oltre la collana di teschi, alla ghirlanda di gelsomini, capendo in quale senso sono la stessa cosa. Andare attraverso il CAOS, cavalcarlo come una tigre, abbracciarLo (anche sessualmente) e assorbire parte del suo shakti, della sua Linfa — questo è il Sentiero di Kali-Yuga. Nichilismo creativo” (108).
Per raggiungere questo“materialismo spirituale” l’autore consiglia l’uso di droghe. Questo nuovo Libretto Rosso offre, fra i modelli storici da seguire, anche la setta islamica degli Assassini (109); ma, senza andare così indietro nel tempo, basta comportarsi come “la gang di ragazzini o la banda di rapinatori” (110).
Il nomadismo psichico è il modello che la cultura rivoluzionaria offre oggi ai giovani. In esso si propone la logica secondo cui non vi è nessuna verità esterna all’uomo a cui aderire, nessuna regola esterna da rispettare, nessuno scopo da realizzare nella vita se non quellodeciso dall’uomo stesso con un atto della sua volontà. “Uno deve provare (almeno a se stesso, se non agli altri) la capacità di superare le regole del gregge, di fare la propria legge e allo stesso tempo di non cadere preda del rancore e del risentimento verso anime inferiori che definiscono Legge e tradizione in OGNI società” (111).
In questo modo l’uomo realizza la possibilità di decidere ciò che per lui ora è vero ed è bene. L’”uomo nuovo” della Rivoluzione è colui che esercita “[…] un potere che non invoca alcuna giustificazione, non dipende da alcuna finalità” (112). Egli è, secondo una definizione di Hakim Bey, “l’anarco/re”(113). “Ognuno di noi è il monarca della nostra propria carne, delle nostre creazioni — e di quant’altro possiamo agguantare e tenere.
“Le nostre azioni sono giustificate per decreto e le nostre relazioni sono formate da trattati con altri autarchi. Facciamo la legge per il nostro demanio — e le catene della Legge sono state spezzate. Al momento forse sopravviviamo puramente come Pretendenti — ma anche così possiamo catturare qualche istante, qualche metro quadrato di realtà sul quale imporre la nostra volontà assoluta, il nostro royaume. L’etat c’est moi.
“Se siamo vincolati da un’etica o da una morale, questa dev’essere una che ci siamo immaginati da soli, favolosamente più esaltata e liberatoria dell’”acido moralico” di puritani e umanisti. “Siete come dei” — “Tu sei ciò”” (114).
Ecco svelato l’arcano mistero della Rivoluzione: il tentativo di realizzare un modo d’essere che rispecchi l’antico peccato dei progenitori; quella ribellione iniziata ascoltando il tentatore che incitava a essere come dèi decidendo da sé ciò che è bene e ciò che è male.