Studi Cattolici n.646 Dicembre 2014
di Roberto Giorni
«Pensando ai disastri pratici provocati dalla dottrina di Keynes, soprattutto al suo accanimento verso il risparmio, che lui vedeva come riserva per assorbire il debito pubblico, quando diventasse insostenibile, vorrei riflettere sulla politica ultrakeynesiana dei tassi zero (sul debito). Questi provocano un trasferimento di ricchezza da chi è stato virtuoso risparmiando, a chi si è “virtuosamente” indebitato e non può pagare il debito. Come se costui fosse un benemerito e il risparmiatore un parassita. Keynes così ha inventato la tassa occulta sui poveri risparmiatori, trasferita ai ricchi Stato, imprenditori, banchieri, indebitati, o persino falliti».
Queste osservazioni controcorrente di Ettore Gotti Tedeschi -economista e banchiere con ampia esperienza sul campo -, le prime capitate sott’occhio tra le quattrocento «massime» e i connessi pensieri del suo nuovo libro (Amare Dio e fare soldi, Fede & Cultura, Verona 2014, pp. 223, euro 15), hanno attirato subito la nostra attenzione su uno dei significativi temi di riflessione proposti (p. 94).
Tutti argomenti di bruciante attualità tra i quali emergono: il rapporto tra economia di mercato e morale (la concorrenza è potenzialmente etica?); il problema dei sovrabbondanti costi fissi dello Stato; il difettoso funzionamento delle democrazie; il ruolo della crisi demografica nell’àmbito della crisi economica mondiale del 2008; l’Italia come impresa mal gestita (che, tra l’altro, non solo mostra scarso interesse per la famiglia come nucleo portante della persona e dell’umano, ma ne ignora anche il ruolo economico); le basi della dottrina sociale della Chiesa e il ruolo del lavoro e della ricchezza nella vita ordinaria del cristiano.
L’introduzione avverte che massime e considerazioni si presentano in maniera disordinata, con possibili ripetizioni frutto di note e riflessioni fatte nel corso degli anni. E vero, ma dopo la lettura del libro, che diversamente dall’apparente semplicità richiede non poca attenzione per apprezzarne le rapide e complesse considerazioni, si acquisisce un opportuno orientamento e vengono spontanei significativi collegamenti tra le sparse annotazioni.
Se non ci si accontenta delle riflessioni isolate, le sintesi che emergono dagli insiemi di massime omogenee possono innescare anche decisivi confronti con la realtà storica (che il lettore già conosce a grandi linee), presente nel libro prevalentemente attraverso flash allusivi sottilmente provocatori. Confronti, come sottolinea Gotti Tedeschi, «utili alla riflessione e formazione individuale di chi vorrà cercare di sottomettere alla verità e al bene lo strumento economico, per un miglior possibile benessere per l’uomo» (p. 6).
Il risparmiatore è un parassita?
Di fronte a un libro che invita a fare i conti con una miriade di osservazioni, una sua presentazione generica risulterebbe banale. Preferiamo raccontarne al paziente lettore una piccola parte che mostri in che modo lo abbiamo letto.
L’incisiva provocazione contenuta nelle citate riflessioni sul dispregio keynesiano del risparmiatore, di fronte ai problemi economici dell’Italia, ci riporta alla mente che prima degli anni Settanta eravamo in un ambiente politico dove il rispetto di alcune regole economiche, come quella de pareggio del bilancio statale, costituiva un punto d’onore. In quegli anni il cambio lira-dollaro registrava solo modeste oscillazioni. Di conseguenza, la stabilii della nostra moneta sosteneva salari e incoraggiava il risparmi necessario agli investimenti per lo sviluppo della nostra economi: In tale contesto, il faticoso risparmio delle famiglie meno abbienti necessario per lo studio e la formazione professionale dei figli per le iniziative degli imprenditi riceveva il riconoscimento un dignitoso compenso (un interesse positivo valorizzato dalla moneta stabile).
«Si insegnava ai bambini», ricorda Gotti Tedeschi «la sacralità del risparmio, virtù fondamentale (nel periodo della ricostruzione economica nei dieci anni del dopoguerra)» (p. 21). Dalla metà degli anni Settanta in Italia, a causa dell’introduzione delle politiche keynesiane, si ribalta il nostro modello di politica economica. L’abolizione di fatto del pareggio del bilancio statale (si abbandona il punto d’onore di politici artefici della ricostruzione nel dopoguerra) insieme alla poco responsabile accentuazione di debito pubblico comportavano, tra l’altro, continue svalutazioni esterne della nostra moneta, per favorire artificialmente le nostre esportazioni.
Poi però l’inflazione interna aumentava perché i prezzi in lire di tutti i beni importati crescevano; e così, dopo una temporanea spinta alle esportazioni causata dalla svalutazione, il Paese finiva con un’inflazione più elevata in un circolo vizioso senza fine, sempre a carico dei meno abbienti.
È opportuno osservare che la continua crescita del debito pubblico, innescata a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, è l’operazione che Gotto Tedeschi chiama, col suo vero nome, «privatizzazione del debito pubblico usando il risparmio dei cittadini». Inoltre, a partire dall’Italia dell’euro, non potendosi più attuare con l’inflazione (anche se alcuni governi dei Paesi europei in condizioni simili alla nostra vorrebbero inflazionare la moneta comune), la medesima operazione si realizza «normalmente» con tasse visibili associate a tasse patrimoniali mascherate. In sostanza, tra l’altro, se dal rendimento dei Buoni del Tesoro poliennali si sottrae l’inflazione, il risparmiatore ricava un interesse negativo. Come sottolinea da tempo Gotti Tedeschi.
Sembra che solo ai nostri giorni (perché l’Italia è sull’orlo del baratro) ci si accorga che ciò è causato dal peso politico delle élite dell’economia, delle professioni della pubblica amministrazione. Storicamente, infatti, lo status e i privilegi grandi e piccoli di medici, magistrati, avvocati, alti dirigenti pubblici, docenti universitari, giornalisti si sono costruiti in buona parte per mezzo della protezione loro offerta dalla politica. Per non parlare poi dell’industria, della banca e del commercio
«In questo àmbito», ha detto con chiarezza Ernesto Galli della Loggia, «sostegno statale diretto, legislazioni favorevoli, limitazioni alla concorrenza, regimi di volta in volta ad hoc nelle concessioni, negli appalti e nelle licenze – tutto dipendente dalla politica – hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo decisivo» (Corriere della sera, 11.8.2014). Come meravigliarsi se questo poderoso complesso d’interessi presente nel nostro Paese continua a opporsi velatamente a reali cambiamenti? Perché prendersela con la signora Merkel se siamo incapaci di fare le riforme economiche che la Germania ha realizzato con coraggio nel periodo 2001-2005? I problemi della Germania sono altri: ci sono genitori incarcerati perché i loro bambini non partecipano ai corsi gender a scuola. Non è questa la strada per unire l’Europa.
Il bene si fa (anche) con i soldi
Continuando nella nostra lettura del libro, in tema di economia di mercato e democrazia abbiamo collegato un gruppo di massime che, man mano, abbiamo incontrato. Ne ricordiamo alcune. «L’uomo fu creato e posto nel giardino dell’Eden ut operaretur, perché lavorasse (Gn. 1, 28). Perciò non fù obbligato a lavorare dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre» (massima 4). «Le cose consistenti si fanno con idee e soldi, ma soprattutto con il senso che si dà alle azioni. Anche il bene, spesso, si fa con i soldi. [Basti ricordare] il Buon samaritano che era un vituperato commerciante» (massima 13). «In una democrazia il costo (sovrabbondante) di uno Stato è il costo fisso e intoccabile, per eccellenza, che prescinde dai diritti dei cittadini di decidere la propria soglia dei costi minimi» (massima 23).
«La concorrenza può diventare uno strumento di equilibrio e di giustizia quando riesce a trasformarsi in un vero limite naturale al potere economico, permettendo di scegliere. Attenzione, non solo di scegliere il lavoro o i beni, ma soprattutto le condizioni con cui vivere la soddisfazione dei bisogni. La concorrenza, gestita con criteri leciti, trasparenti ed effettivi, è pertanto, appunto giusta, potenzialmente etica» (massima 51). «Per chiarire quanto detto da F.A. von Hayek basta fare l’esempio di quell’ansia che hanno molti governi di occuparsi di soddisfare loro i bisogni dei cittadini. Per i servizi che solo uno Stato può provvedere (l’ordine pubblico, la difesa…) il solo problema è di efficacia e di efficienza (costo-beneficio).
Per altri servizi di utilità generale […], la soluzione più sensata sembrerebbe quella di lasciare al privato, in un sistema di competizione, la gestione del servizio e assicurare allo Stato solo la responsabilità del controllo e dell’equilibrio dei costi per la popolazione con differenti capacità di reddito. Invece, il monopolio del servizio nelle mani dello Stato svantaggia sempre proprio le fasce più deboli della popolazione, quelle senza alternativa» (massima 83).
«Papa Giovanni Paolo II era esperto non solo di etica in generale, ma anche di etica economica […]. Nell’enciclica Centesimus annus ha spiegato cosa è il capitalismo etico: riconoscere l’importanza del mercato, rispetto ad altre alternative, ma enfatizzando la libertà personale nella sfera economica [l’uomo fù posto nel giardino dell’Eden ut operaretur], per poter essere autenticamente sé stessi, realizzare il proprio potenziale e garantire solidarietà ai propri simili. Il senso etico del capitalismo significa dare al capitalismo, mezzo, un senso, un fine.
Lo Stato quando fa economia rischia di ridurre la libertà personale. Ciò perché in economia è giocatore e arbitro. Nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, Giovanni Paolo II esorta a essere responsabili del governo degli strumenti economici che altrimenti rischiano di sfuggi re di mano all’uomo» (massime 234-235).
Ecco, da questo insieme di massime proposte da Gotti Tedeschi (le sottolineature sono nostre) emergono non solo incisive riflessioni, ma anche chiare risposte per un preciso confronto tra i princìpi illustrati nella Centesimus annus e le basi dei sistemi economici reali (abbiamo riletto l’enciclica per verificare la nostra opinione). Negli approfondimenti provocati da questa rilettura, abbiamo trovato nella medesima enciclica indizi inequivocabili della presenza del pensiero dell’economista e filosofo austriaco F.A. von Hayek (1899-1992). Presenza che, secondo Michael Novak (titolare della Cattedra di Religion and Public Policy all’American Enterprise Institut di Washington D.C., autore de Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Edizioni Studium, Roma 1987), sarebbe particolarmente evidente nei capitoli 31 e 32.
A questo punto ci siamo ricordati che uno dei dodici premi Nobel che Giovanni Paolo II incontrò a Roma nel 1980, per un dialogo tra cattolicesimo e scienza (21-22 dicembre), era proprio F.A. von Hayek. Lo stesso Novak, nel 1993, rese pubblica la lunga conversazione personale che Giovanni Paolo II ebbe con Hayek prima della morte di quest’ultimo avvenuta nel 1992. Non sapremo mai se lo studioso austriaco, dichiaratosi agnostico, negli ultimi momenti della sua vita abbia potuto compiere nuovi passi. Ma possiamo affermare con certezza che Hayek comprese forse più di ogni altro i rischi di una deificazione della ragione umana e il ruolo insostituibile che la religione svolge per evitarli. «Da siffatta questione», come afferma nella frase che conclude il suo ultimo libro, «può dipendere la sopravvivenza della nostra civiltà» (La presunzione fatale, Rusconi, Milano 1997, p. 226).