Il motto tanto deprecato, dagli storici di sinistra post-gramsciani, “my country, right or wrong”, sarebbe invece un primo passo per ricostruire una identità nazionale comune che possa fare fronte ai dilemmi secessionisti e a quelli della globalizzazione
Revisionismo e consegna del silenzio
Anche la democrazia censura gli intellettuali: il caso De Felice e le paure attuali degli storici che piegano la storia alla politica
di Eugenio Di Rienzo
Mi faccio vivo al ritorno di un viaggio per esprimerle, sia pure in ritardo, un sentimento di stima e di viva gratitudine.
Lei è stato con me, da intervistato a intervistatore, di una correttezza assoluta ed esemplare. Ma molti, troppi, direi, l’avevano invitata, sin dal primo momento, a correggere il tiro, a prendere qualche distanza, a non offrire pretesti per una risibile campagna di insinuazioni, a proposito delle “indicazioni” politiche del redattore del Corriere al quale aveva concesso il discusso colloquio.
La perfezione del suo comportamento e l’eleganza della sua scelta di replicare ai critici con una seconda intervista mi hanno sbalordito. È un caso di sicurezza di sé, di serenità d’animo e di fiducia delle idee, di cui ormai, purtroppo, è rarissimo trovare esempio nel mondo politico e in quello intellettuale.
La ringrazio e spero che i nostri colloqui professionali abbiano un seguito intellettuale e professionale
Di quella “serenità d’animo”, di quella fiducia nelle proprie idee, ben altre prove aveva fornito De Felice per superare gli ostacoli – di natura editoriale ed istituzionale – che molti gli opposero anche solo per impedirgli di rendere di pubblico dominio la sua interpretazione della storia italiana.
Noto è il linciaggio giornalistico che fece seguito all’apparire dell’Intervista sul fascismo, che provocò l’indignata reazione di Rosario Romeo. Nota è anche la resistenza portata avanti dagli ambienti azionisti della casa editrice Einaudi per ostacolare la pubblicazione del primo volume della biografia di Mussolini.
Un caso di censura democratica
Non ancora divulgato, invece, è l’episodio del suo rifiuto di collaborare ulteriormente alla stesura delle voci del Dizionario Biografico degli Italiani – di un’opera quindi di carattere pubblico, destinata istituzionalmente a fornire all’interno e fuori del nostro paese il sussidio scientifico primario e necessario ad ogni ricercatore – una volta accertato l’intervento di carattere censorio da parte del responsabile della sezione di storia contemporanea.
In questo caso, la classica goccia destinata a far traboccare il vaso fu la decisione redazionale di intervenire pesantemente con tagli, che nessuna ragione scientifica giustificava, sulla voce “Arturo Bocchini”, redatta da Piero Melograni, dove erano riportati alcuni giudizi di esuli antifascisti sulla “correttezza amministrativa” del massimo responsabile dell’apparato poliziesco del regime.
La voce, emendata d’autorità dagli elementi ritenuti “politicamente scorretti”, sarebbe stata pubblicata in forma anonima, a causa del rifiuto di Melograni di apporre la sua firma al testo manomesso. Questo fatto provocava la ferma reazione di De Felice, nella lettera indirizzata al direttore dell’opera Alberto Maria Ghisalberti il 19 dicembre 1969.
A riscontro della Sua del 14 corrente e facendo seguito alle nostre due ultime conversazioni, Le confermo la mia intenzione di redigere la voce “Bolgeni”. Per le voci di storia contemporanea (e in particolare “Bombacci”, “Bottai” e “Buffarini Guidi”), come Le ho già detto, devo invece rifiutarle a causa della impossibilità di conciliare le mie idee su come trattare i problemi di storia contemporanea con i criteri di giudizio che animano la redazione competente per questo genere di voci (criteri che ho potuto riscontrare in occasione della nota vicenda relativa alla voce “Bocchini” redatta dal mio assistente dr. Melograni).
Credo che questo e altri documenti, relativi alla censura “democratica” della prima Repubblica, potrebbero essere utilmente messi sotto gli occhi di chi (Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro), nel dibattitto giornalistico della scorsa estate, ha capziosamente negato l’esistenza di un’egemonia fortemente radicata nel panorama culturale del nostro paese. Quell’egemonia è al contrario esistita e, a ben vedere, non fu monopolio della sola sinistra ma arrivò, in certi periodi e per certi argomenti, ad essere esercitata, con le dovute eccezioni, dall’intero arco politico costituzionale, già a partire dai primi anni del secondo dopoguerra.
Quell’egemonia, inoltre, non fu soltanto il prodotto di un generalizzato consenso. Non di rado, essa venne mantenuta in vita forzosamente, per il quarantennio successivo alla sua nascita, utilizzando molto spesso non le sole “armi della critica” ma anche una “critica delle armi”, limitatasi fortunatamente ad un occhiuto controllo sull’ortodossia storiografica italiana, ancora oggi in piena attività e che spesso è esercitato dalle stesse personalità, che furono attive in questo senso nella Prima Repubblica.
Penso, in questo caso, all’abbondante e recentissima letteratura “anti-revisionista”, nel cui novero, un posto d’onore va riservato al volumetto di Sergio Luzzatto, comparso presso l’editore Einaudi, La crisi dell’antifascismo, che proprio dalle interviste concesse da De Felice a Giuliano Ferrara prende le mosse, per stigmatizzare il nefasto “assassinio” della memoria politica dell’antifascismo.
Tale passaggio d’epoca, il maggiore storico del fascismo – Renzo De Felice – l’aveva visto arrivare per tempo, prima ancora del fatidico 1989: come aveva testimoniato una sua doppia intervista dell’anno prima sul Corriere della Sera, rilasciata a un neo-giornalista con tutto un passato da funzionario del Partito comunista italiano, Giuliano Ferrara.
Si badi, aveva detto al Corriere l’illustre biografo di Mussolini, che la “vulgata” antifascista, dominante nel discorso storico e politico almeno dal 1960, andrà presto in soffitta, non foss’altro per un motivo generazionale: appunto nel momento in cui si faranno cittadini coloro i cui genitori sono nati già sotto la Repubblica.
Una generazione allo sguardo della quale il fascismo si sarebbe presentato come faccenda ormai lontana, esperienza defunta piuttosto che esperienza vissuta. Da allora – aveva ammonito De Felice, con malcelata soddisfazione – il paradigma antifascista sopra cui si era fondata la repubblica “nata dalla Resistenza” non avrebbe più avuto ragione di essere riconosciuto come valido.
L’autore di questa prosa (Sergio Luzzatto), ai cui argomenti lo stesso De Felice aveva già ampiamente replicato, è un reduce degli studi sulla rivoluzione francese, che di quel periodo storico, cui ha valorosamente dedicato la sua attenzione, pare aver soprattutto introiettato la tesi giacobina del “complotto”.
E cioè l’abitudine a leggere ogni avvenimento della storia passata o contemporanea come una macchinazione alla cui base devono essere rintracciati precisi responsabili e possibilmente un “grande Vecchio”, ispiratore dell’intera operazione. Procedendo di questo passo, Sergio Luzzatto vede nella rilettura “revisionista” del fascismo e della resistenza una sorta di congiura messa in opera da elementi francamente reazionari che intendono in questo modo spazzare via la carta costituzionale del 1948, per sostituire ad essa un nuovo assetto istituzionale destinato a provocare un’immancabile involuzione autoritaria.
Tra i foschi congiurati strettisi a patto per realizzare questo diabolico disegno, le massime cariche dello Stato, e uno stuolo sempre più numeroso di storici intenzionati a delegittimare il passato glorioso dell’antifascismo: tutti, con qualche eccezione, “discesi per li rami” dal magistero di Renzo De Felice, e tutti rei dell’imperdonabile colpa di affrontare quotidianamente l’ingrata fatica della ricerca archivistica, per diseppellire documenti inediti e in qualche caso “segretati” dal controllo della memoria che si è instaurato in Italia immediatamente dopo il 1945.
I «reducismi» e la «memoria divisa»
Ma torniamo ai contenuti delle interviste al Corriere della Sera, che ancora tanto scandalo destano in Sergio Luzzatto, ma che non molto si discostavano dalla presa di posizione di Leo Valiani, in un carteggio della metà degli anni ’60, intrattenuto proprio con De Felice.
In quella corrispondenza, il vecchio dirigente azionista riconosceva l’impossibilità di fare storia del recente passato, basandosi sulla memoria appassionata dei protagonisti, sostenendo, insomma, che come Salvemini, autore della durissima requisitoria contro l’“uomo di Dronero”, non poteva essere storico attendibile dell’età giolittiana, l’interpretazione della guerra di liberazione non poteva fondarsi sulla visione mitologica elaborata da dirigenti partigiani e da reduci del regime di Salò.
Da questo punto di vista, né il repubblichino Carlo Silvestri (Mussolini, Graziani e l’antifascismo, Longanesi, 1949), autore di una delle più famose storie fasciste della guerra civile, i cui contenuti sono stati recentemente sdoganati da Giampaolo Pansa, né il comunista Luigi Longo, estensore di un’altrettanto faziosa storia della resistenza (Sulla via dell’insurrezione nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1974), né tantomeno l’azionista Giorgio Bocca, potevano essere credibili analisti di quella stagione.
Come dire, che il “reducismo” di una parte e dell’altra, se era tutt’al più in grado di alimentare i fuochi fatui di una memoria divisa, alla quale Luzzatto tributa ancora oggi un nostalgico rimpianto, arrivando addirittura a tessere un neo-marinettiano “elogio della violenza”, risultava invece estraneo alla possibilità di fare storia, che certo mai potrà essere attività bipartisan ma che deontologicamente si deve sforzare di temperare l’ardore delle tendenze settarie nel bagno tonificante di una buona filologia.
Secondo questa indicazione, anche la stagione della resistenza andava ripensata a freddo, concettualizzata dal lavoro dello storico, scomposta nelle sue molte varianti, alcune da accettare, altre da rifiutare decisamente e questa volta sul piano politico e civile. Allo stesso modo, si parva licet magnis componere, una consapevole rilettura storiografica della Rivoluzione francese ha dimostrato che quell’evento non poteva essere considerato come un “blocco”, secondo la famosa esortazione di Clemenceau, se veramente si voleva superarne una ricostruzione vulgata, strumentale e falsificante, unicamente spendibile sul piano della “politique politicienne”.
Il che, mi pare, indicazione di buon metodo storiografico, ricca di un non disprezzabile plus-valore politico. Disaggregando la resistenza nelle sue diverse componenti, come benissimo aveva fatto Sergio Cotta in un volume di rara penetrazione che meriterebbe una rapida ristampa (La Resistenza come è perché, Roma, Bonacci, 1994) forse è possibile meglio cogliere, fuori da boatos polemici, il significato dell’esternazione del presidente del Senato Marcello Pera dello scorso dicembre, uno degli imputati eccellenti del libello di Luzzatto, che ha semplicemente sostenuto l’impossibilità di basare il patto fondativo della Repubblica sull’antifascismo comunista per le caratteristiche eminentemente totalitarie e antinazionali di quel movimento.
Nello stesso modo, vorrei aggiungere, il riconoscimento condiviso dei valori della “Grande Rivoluzione” avvenne nella Francia della Terza Repubblica, tramite l’esclusione dell’episodio del Terrore, e quello delle Rivoluzioni del XVII secolo si configurò, in Inghilterra, come già Guizot aveva messo in luce, grazie all’accettazione dei contenuti liberali e di garanzia dell’assetto proprietario del 1689 e non della fase anarchica ed eversiva degli ordinamenti sociali del 1648.
Un carteggio significativo
Ma di più e meglio si potrebbe fare, per decontestualizzare l’intervento di Pera da un quadro tendenziosamente polemico, paragonandone i contenuti con quelli che emergono dalla lettura del carteggio tra Salvemini ed Ernesto Rossi degli anni 1944-1957, ora disponibile nella sua integrità, grazie all’edizione curata da Mimmo Franzinelli (Dall’esilio alla Repubblica. Lettere, 1944-1957, a cura di M. Franzinelli, Bollati Boringhieri, 2004), che sostituisce quella purgata, in ossequio ai dettami della “censura democratica”, dal comunista Alberto Merola nel 1967.
E non voglio qui riferirmi alla critica liquidatoria di Rossi sulla resistenza e sull’antifascismo posteriore al 25 luglio, forse parzialmente ingiusta ma tale da contenere alcuni incontrovertibili elementi di verità, secondo la quale, la prima era stata composta nella gran massa da «disertori (fra i quali molte camicie nere, carabinieri, guardie carcerarie) o dagli operai che non volevano andare a lavorare in Germania», e il secondo era stato smisuratamente ingrossato dai molti che avevano “voltato gabbana”, poco prima del 25 aprile, «proprio nelle ultime settimane quando la partita era ormai perduta e che si presentano ora come ‘salvatori della patria’».
Mi rifaccio, invece, ai giudizi sulla totale estraneità del comunismo, del socialismo di Nenni, dell’azionismo radicale nei confronti di un normale decorso della vita democratica italiana dopo la fine del secondo conflitto. Quelle valutazioni toccano uno dei loro momenti più significativi nella corrispondenza di Rossi del 13 febbraio 1945, dove era contenuta una violenta critica alla componente azionista del Cln, che aveva sostenuto, alla fine del 1944, il progetto di “democrazia progressiva” poi fatto proprio anche dal Pci.
I nostri amici si sono messi in una strada estremamente pericolosa accettando di allargare il Cnl (in cui sono rappresentati pariteticamente i cinque partiti) con rappresentanti delle “organizzazioni di massa” (delle officine, dei partigiani, delle donne, dei giovani, degli impiegati ecc.), in cui verranno facilmente sommersi dai comunisti, i quali faranno nascere come funghi tali organizzazioni, in gran parte bluffistiche, e soli hanno i quadri per dirigerli con una disciplina unitaria; tendono a quel “dualismo di poteri” che rappresenta la condizione più favorevole per un’azione rivoluzionaria alla quale soli i comunisti sono veramente preparati; molti sono anche disposti a far propria la formula “tutto il potere ai Cnl”, che corrisponde alla formula “tutto il potere ai soviet” dei comunisti russi nel 1917.
È questa una presa di posizione, che ritroviamo ampiamente ribadita nell’intero carteggio, nel quale a più riprese le forze di ispirazione marxista venivano considerate alla stregua di meri instrumenta regni dell’imperialismo sovietico, e il Pci in particolare identificato «come un partito nazionalista straniero, inassimilabile nella democrazia dei nostri paesi», a partire dall’atteggiamento antitaliano e filoslavo di «Togliatti e della banda stalinista italiana» sulla questione del confine orientale.
Il servile ossequio del capo comunista alla Realpolitik moscovita era vigorosamente denunciato da Salvemini, già nel corso del 1944, e poi nel febbraio 1945, in replica ad un articolo comparso sull’Unità, smaccatamente favorevole all’annessione jugoslava di Gorizia, Trieste e dell’Istria occidentale.
La soluzione del problema, secondo il giornale stalinista, deve essere “conforme alla volontà popolare” e ai bisogni del nuovo Stato jugoslavo. “Volontà popolare” di chi? Dei soli slavi? E da quando in qua i bisogni degli Stati nuovi o vecchi hanno acquistato il diritto di prevalere su la “volontà popolare”? I nazionalisti italiani dicevano che l’Italia aveva “bisogno” della Dalmazia e volevano prendersela.
Da quando in qua il diritto dei bisogni è stato riconosciuto dalla Terza Internazionale? E che cosa avverrà agli italiani dei territori misti? Gli agenti americani della macchina stalinista, messi di fronte a questo problema, rispondono che esso sarà risolto col metodo di “trasferire” le popolazioni. Non dicono neanche “scambiare” le popolazioni che sarebbe già inumano.
Dicono “trasferire” cioè “sloggiare” le popolazioni, deportarle in Siberia dalla Germania, buttarle a mare da Trieste. Sono anche capaci di dire “trasferirle con metodi umanitari”, quasi che si possa mai trovare un metodo umanitario per costringere gente che sta in una casa, in una bottega, in una fabbrica, in un pezzo di terra, a spulezzare e andarsene a casa del diavolo. Signori stalinisti italiani, che cosa farete degli italiani che stanno da secoli nelle zone miste italo-slave, anche in quelle dove sono maggioranza? Propugnerete anche per essi il “trasferimento con metodi umanitari”?
Si trattava di affermazioni, che non venivano ad essere contraddette, come pure si è voluto sostenere, dalla necessità politica di riservarle, a guerra terminata, mentre si accendevano i fuochi della competizione elettorale, ad una ristretta cerchia di amici politicamente affidabili, per evitare l’instaurarsi in Italia di un’altra «repubblica di Salazar, dominata dai preti», secondo l’indicazione di Salvemini in una lettera ad Ernesto Rossi del dicembre 1946.
Dire la verità senza riguardi per nessuno”, come tu dici, non sarebbe una buona politica. Bisogna oggi domandarsi a chi serve dire certe verità. Se, ad esempio, dicessi quello che penso del regime e dei governi russi mi troverei senz’altro dalla parte degli anticomunisti, mentre sono convinto che non è possibile lavorare oggi per la democrazia senza andare d’accordo con loro: bisogna fare come quei liberali italiani che, nel ’48, facevano finta di credere nel liberalismo di Pio XI.
Con queste parole si configurava un pericoloso atteggiamento mentale, destinato a radicarsi nella sinistra non comunista per l’intero cinquantennio a venire e forse anche ora non del tutto scomparso, sul piano della tattica politica e più ancora su quello della ricostruzione storiografica. Ragioni di opportunità di parte, e forse pure un’inesausta, quanto malintesa e indifferenziata, “voglia di antifascismo”, di cui Luzzatto appare oggi l’attardato epigono, spingevano alla pratica diffusa di una “dissimulazione” spontanea ma certo non “onesta”.
Dall’inizio degli anni ’50, mentre alcuni intellettuali italiani ponevano le basi di un fermissimo “anticomunismo democratico” – da Ignazio Silone, a Carlo Antoni, a Federico Chabod, a Vittorio De Caprariis– altri chierici, come Franco Venturi, reduce da un soggiorno nell’Urss, dove gli era stato possibile apprezzare a pieno l’orrore e insieme l’insensatezza del sistema staliniano, preferivano tacere la loro testimonianza per tema di “fare il gioco dei reazionari italiani”.
Dalla “servitù volontaria” di questa consegna del silenzio, almeno Venturi si sarebbe sottratto, senza equivoci, rapidamente e a “viso aperto”, con la sua radicale condanna dei fatti d’Ungheria, già nel 1956.
Ad essa, invece sarebbe restato più a lungo – veramente troppo a lungo – fedele un altro esponente azionista, come Vittorio Foa, che solo molto recentemente ha trovato la forza di confessare le opacità e le rimozioni che contrassegnarono la livida stagione della guerra fredda, nella quale una colpevole astensione silenziosa sui crimini del comunismo internazionale apparve poter esser giustificata dalla «paura di essere occupato intellettualmente dagli americani».
Altri, invece, mi pare, vorrebbero che questa consegna del silenzio venisse mantenuta, ancora oggi e sine die.