Presiedeva il Comitato di liberazione nazionale in Alta Italia, eppure è stato estromesso dalla storiografia con risvolti imbarazzanti: i manuali l’ignorano, perfino chi ha pubblicato le sue memorie le ha in pratica occultate. Altro che “revisionismo”
di Ugo Finetti
Siamo cioè di fronte non a giudizi da correggere, ma a vuoti da colmare, a una spietata cancellazione da parte dell’Accademia storiografica che ha dato vita a quella che De Felice definì come la «vulgata» della Resistenza./div>
Il caso Pizzoni è particolarmente clamoroso: basti pensare alle traversie della pubblicazione delle sue memorie lasciate ai familiari: una vera e propria cancellazione-persecuzione. Dopo la sua scomparsa, avvenuta a soli 63 anni nel 1957, gli eredi trovarono in un cassetto il manoscritto con la disposizione di non pubblicarlo immediatamente. Quando venne a scadere il lasso di tempo voluto da Pizzoni, all’inizio degli anni ’90, si rivolsero “incautamente” – come scrisse lo storico Luciano Garibaldi – alla Einaudi che provvide non solo a mal pubblicarlo, ma anche a mal distribuirlo.
Fu appunto Luciano Garibaldi nel gennaio 1995 a sollevare il caso su Studi cattolici. Il libro di Pizzoni con l’introduzione di Renzo De Felice – denunciò Garibaldi – «è presentato con un editing assolutamente indecente indegno di una struttura come quella dell’editrice torinese», senza note esplicative né indice dei nomi. «Ma la cosa più grave – rilevava ancora Garibaldi – è che il libro sia uscito in una edizione praticamente clandestina, tirato in pochissimi esemplari, subito nascosti in magazzino, dal momento che è praticamente impossibile trovarlo persino nelle più fornite librerie delle grandi città».
Dopo la polemica suscitata da Studi cattolici, il libro uscì pochi mesi più tardi presso il Mulino (Alfredo Pizzoni, Alla guida del CLNAI) trovando destino decisamente migliore anche se accompagnato da un “assordante silenzio” da parte degli storici.
Questa cancellazione di Pizzoni fa parte di una fotografia ritoccata della Resistenza, secondo un’alterazione dei ruoli, del significato politico e dello svolgimento storico dei fatti al fine di esaltare solo quanti sarebbero poi confluiti nel Fronte Popolare del 1948.
La storiografia sulla Resistenza – dagli anni Cinquanta fino a tutti gli anni Novanta –, dal testo di Roberto Battaglia a quello di Claudio Pavone, ha infatti teso a rappresentare la Resistenza, in sostanza, come un grande scontro sociale, perpetuando quella lettura classista del Novecento che ha come categoria centrale il conflitto tra movimento operaio e capitalismo reazionario.
Il saggio di Piffer riporta quindi la Resistenza alla sua veritiera dimensione storica: un movimento nazionale, frutto di varie componenti, che aveva come fine non una rivoluzione sociale, ma la cacciata dei tedeschi e la sostituzione del fascismo con un regime parlamentare pluripartitico di stampo occidentale.
Un ruolo decisivo fu quello dei militari legittimisti, da Cadorna a Sogno e Montezemolo, e dei partigiani non solo cattolici e socialisti ma anche liberali: basti pensare ai partigiani della “Mauri” (oltre 10.000 uomini secondo lo stesso ex vicesegretario del PCI, Pietro Secchia). Rappresentare la Resistenza come movimento promosso dagli scioperi del marzo ’43 e imperniato sulla classe operaia emarginando l’antifascismo “borghese” e la popolazione contadina (quella che Salvemini definì invece come un vero e proprio “terzo esercito” a fianco di quelli rappresentati dagli Alleati e dalle formazioni partigiane del Corpo Volontari della Libertà) è una sostanziale falsificazione politica.
Agiografia riprovevole
Sin dall’inizio essa venne contestata anche a sinistra. Basti pensare alle reazioni polemiche che il testo del Battaglia suscitò in seno allo stesso comitato editoriale filo-comunista della Einaudi. In particolare gli si rimproverava “l’agiografia” del PCI: «La prova del tuo errore di impostazione – gli scriveva Franco Venturi, del comitato editoriale Einaudi nel settembre del 1952 – è data anche dalla tua interpretazione del 25 luglio.
Può parere strano ma nel tuo libro si parla di tutto, dei capitalisti, degli scioperi, di Bonomi, ma non si mette al centro lo sbarco alleato in Sicilia. Benedetto Iddio: la causa fondamentale del 25 luglio è quello!». Altre critiche riguardavano la descrizione del ruolo dei non comunisti dalle formazioni di “Giustizia e Libertà” all’antifascismo “interno” che faceva capo a Benedetto Croce.
Più recentemente anche il saggio di Claudio Pavone – indicato soprattutto nei manuali scolastici come il testo “definitivo” sulla guerra partigiana – è non meno fazioso e pieno di cancellazioni e omissioni. In particolare vanno ricordate le contestazioni che gli furono mosse da un lato da Renzo De Felice a proposito della cancellazione di Edgardo Sogno (di fronte alla quale Pavone cercò di correre ai ripari nell’edizione successiva con un’aggiunta che però distorceva a fini negativi l’unico episodio a lui riferito) e dall’altro da Galli della Loggia per l’omissione di qualsiasi riferimento ai fatti di Cefalonia. Perché in Italia, con già cinque decennali di celebrazioni tra convegni e libri, il nome di chi guidò il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia è assolutamente sconosciuto?
Pizzoni è la dimostrazione storica di quanto siano arbitrarie la lettura classista e la raffigurazione della Resistenza come “coda” della Guerra di Spagna, e tutta la rappresentazione che inventa e propaganda un complotto anticomunista tra il ’43 ed il ’45 che mette insieme Hitler e Churchill: quello che il Battaglia definisce appunto il “poker d’assi” rappresentato dall’unità di intenti che egli vede tra a) i nazisti, b) i fascisti, c) gli anglo-americani, d) la destra del CLN.
Siamo cioè di fronte a una letteratura sulla Resistenza che mette dalla stessa parte il colonnello Montezemolo e quel Kappler che lo fece fucilare alle Fosse Ardeatine. Anche se nessuno più si dichiara comunista, permane la lettura classista che espelle l’anticomunismo dall’antifascismo. In realtà l’antifascismo non comunista e non filosovietico fu una componente fondamentale della Resistenza italiana. Pizzoni ne è stato il principale esponente politico e per questo cancellato.
Protagonista della liberazione
Alfredo Pizzoni fu infatti il Presidente del Comitato Antifascista sorto a Milano, all’indomani della caduta di Mussolini a fine luglio 1943, con la partecipazione di liberali, democristiani, comunisti, socialisti e partito d’azione, che poi si trasformò, dopo l’8 settembre, in Comitato di Resistenza e quindi CLN lombardo fino ad assumere il 31 gennaio 1944 – sempre sotto la guida di Pizzoni – la denominazione di CLNAI.
È stato con Pizzoni Presidente che il Comitato ha guadagnato l’autorità per assicurare «la conduzione concreta della lotta» e diventare il principale antagonista dei tedeschi e del governo di Mussolini, «contropotere rispetto alla potenza d’occupazione e della Repubblica Sociale Italiana».
Fu quindi protagonista del movimento di liberazione fino al 27 aprile 1945, quando venne estromesso dal CLNAI in quanto possibile candidato alla guida del governo dell’Italia, spianando la strada al presidente del Comitato di Liberazione di Roma, Ivano Bonomi.
Piffer ne ricostruisce l’azione mettendo in luce il suo ruolo chiave in almeno tre momenti decisivi della storia di quel periodo: la tenuta unitaria tra i sei partiti antifascisti, l’organizzazione dei finanziamenti ai partigiani, l’accordo con gli anglo-americani per il rilancio della Resistenza nell’inverno del ’44 facendo modificare la linea del precedente “Proclama Alexander”.
In modo documentato il libro contraddice la lettura prevalente, ma strumentale, della Resistenza volta a dimostrare (come francamente aveva ammesso lo stesso presidente dell’INSMLI, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Giorgio Rochat, omaggiando il ruolo svolto dal suo predecessore negli studi patrocinati tra il 1972 e il 1996) la tesi della sostanziale identità di tutto ciò che si oppone al comunismo senza distinguere tra democrazia occidentale e fascismo e cioè «La sottolineatura della continuità della società e della politica italiana da Giolitti a De Gasperi attraverso Mussolini: una continuità tra scelte moderate e nazionaliste, in cui la resistenza rappresenta un momento di rottura democratica».
Una lettura purtroppo prevalente, soprattutto nel mondo dell’insegnamento, ma frutto essenzialmente di manipolazioni e di cancellazioni.