Card. Camillo Ruini, Presidente della CEI
(Prolusione del VII Forum del Progetto culturale, svoltosi a Roma il 2 dicembre 2005)
A un anno di distanza dal VI Forum del progetto culturale, dedicato al Concilio Vaticano II, siamo qui per rilanciare quelle riflessioni, a partire dal riferimento dinamico al Concilio stesso, concentrandole sulle prospettive attuali dell’Italia. Non tendiamo a fornire un’analisi della situazione esistente, e ancor meno a mettere a punto previsioni, di solito abbastanza improbabili, sul nostro futuro.
Cercheremo piuttosto di immaginare e delineare i contributi che il cattolicesimo italiano, nella sua multiforme presenta e realtà, può dare al cammino della nazione. la mia prolusione non ha ambizioni di globalità, nemmeno nell’enunciazione dei problemi. Apre solo la strada ai tre interventi programmati del Prof. Luigi Alici, di Mons. Gianni Ambrosio e del Doit. Dino Boffo, che individueranno alcune tematiche e questioni di peculiare e concreta rilevanza.
Incomincio facendo riferimento all’anno 2005, che è quello che ci separa dal Forum precedente. Per la Chiesa e i cattolici italiani si è trattato senza dubbio di un anno particolarmente intenso e, possiamo aggiungere, di un anno in cui l’Italia nella sua globalità ha fortemente percepito la sua “anima” e il suo “fondo” cattolici.
Ciò è avvenuto soprattutto con l’aggravarsi della malattia e poi con la morte e le esequie di Giovanni Paolo II, seguite dalla rapida elezione di Benedetto XVI e dal riversarsi su di lui, con spontanea continuità, dell’affetto popolare che era cresciuto intorno al suo Predecessore.È stata, questa, una straordinaria esperienza di unità per il nostro popolo, come del resto – pur con ovvie gradazioni e differenze – quasi per l’umanità intera, compresa la sua grande parte non cattolica.
Un’altra circostanza significativa di questo 2005, sebbene di natura assai diversa, è stata il referendum sulla legge per la procreazione assistita. Esso ha rappresentato un forte motivo di impegno e di unità per i cattolici italiani e al contempo dì incontro e convergenza con significativi rappresentanti della cultura laica.
Ha anche contribuito però a far emergere una nuova e certamente non desiderabile fase di tensione nei rapporti con altri laici, soprattutto sul piano politico e mediatico, mentre nella realtà concreta del Paese una simile difficoltà sembra di gran lunga meno presente.
Nella prospettiva del contributo che potremo dare come cattolici al nostro Paese nei prossimi anni è importante comunque riflettere su queste problematiche, dato che esse, al di là delle vicende contingenti, appaiono destinate ad acquisire un rilievo crescente, non solo in Italia e non solo in relazione alla Chiesa cattolica, e già presentano a-spetti nuovi e profondamente diversi rispetto alle forme in cui si ponevano tradizionalmente le questioni dei rapporti Stato-Chiesa e della laicità.
Attualmente infatti i veri motivi di contrasto non riguardano più, se non in via del tutto secondaria e per cosi dire “di risulta”, il contenzioso classico tra Chiesa e Stato in quanto istituzioni e le loro rispettive competenze: queste materie hanno trovato ormai degli assetti largamente condivisi e sostanzialmente stabili, sebbene diversi nei singoli Paesi a seconda della storia e della realtà di ciascuno di essi.
Quelle che invece stanno emergendo in maniera prepotente sono le questioni che fanno riferimento all’area della soggettività personale e delle norme pubbliche entro le quali occorre in qualche modo inquadrarla. L’approccio che ha trovato la sua formulazione classica già con Ugo Grozio nel 1625, secondo il quale le norme fondamentali del diritto conserverebbero la loro validità “etsi Deus non daretur“, perché fondate nella natura umana, ha infatti esaurito ormai da tempo la sua efficacia storica, come risulta dal progressivo venir meno, nel corso del secolo XX, di quella larga coincidenza materiale e contenutistica tra etica pubblica civile e morale cristiana che era a lungo sopravvissuta all’affermarsi dell’autonomia degli Stati rispetto all’autorità ecclesiastica.
Del resto lo stesso fondamento teoretico della formula di Grozio è entrato in crisi non da oggi, con la contestazione sempre più radicale del concetto stesso di “natura umana” e quindi di diritti naturali. Già alla fine dell’800 F. Nietzsche pone di fatto un’alternativa totale all'”etsi Deus non daretur“: per lui infatti la conseguenza della morte, o più espressivamente dell’uccisione” di Dio, è la trasformazione di tutti i valori, il venir meno di ogni precedente punto di riferimento.
In concreto è diffusa, e tende ad affermarsi come unica valida nello spazio pubblico, la posizione secondo la quale la libertà individuale e i “diritti di libertà” costituiscono il valore fondamentale che misura tutti gli altri, con la conseguente esclusione di ogni vera o presunta discriminazione ai danni di qualcuno.
Questo dovrebbe essere pertanto l’unico criterio regolatore dell’etica pubblica, o almeno di quella parte di essa che si esprime in norme giuridicamente vincolanti, mentre non potrebbe essere ammesso, a livello pubblico, alcun riferimento a ciò che è bene o male in se stesso, ma soltanto alla valutazione delle conseguenze, utili o dannose, dei nostri comportamenti: un’illustrazione assai penetrante di questa situazione e delle sue radici e implicazioni è stata fatta dall’allora Cardinale Ratzinger nella relazione tenuta a Subiaco poco prima della sua elezione al Pontificato (cfr ora “L’Europa di Benedetto nulla crisi delle culture“, ed. Cantagalli, pp. 29-79).
Si comprende quindi facilmente come questa libertà individuale che non discrimina, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, tenda ad escludere o sottomettere ogni altra posizione, che può essere lecita, sempre a livello pubblico, soltanto finché rimane subordinala e non in contraddizione rispetto a un tale criterio relativistico.
È questo il vero motivo di contrasto non solo con ogni pretesa di valenza pubblica di un’etica di ispirazione cristiana, o di altra matrice religiosa, ma anche con un’etica che si richiami a un proprio oggettivo fondamento umanistico. In un tale dibattito è dunque scarsamente efficace, perché non tocca il fondo del problema, richiamarsi al fatto che le norme alle quali cerchiamo di conservare una valenza pubblica, pur essendo state formulate all’interno della tradizione cristiana, esprimono aspetti che valgono per l’uomo in quanto tale e promuovono il suo bene autentico: resta in piedi infatti la discriminante decisiva, che quelle norme non si sottometterebbero al criterio relativistico.
Prima di allargare lo sguardo a una problematica più ampia, entro la quale possano intravedersi non solo le vie per superare l’approccio relativistico, ma soprattutto i modi per rispondere in forma positiva alla domanda circa il contributo dei cattolici al cammino dell’Italia, vorrei avanzare una proposta, che può suonare abbastanza ovvia, ma che ha il merito di superare, a livello pratico, lo stallo generato dalla contrapposizione tra i sostenitori e gli avversari dell’approccio relativistico in materia di etica pubblica, senza obbligare né gli uni né gli altri a recedere dall’agire secondo i propri convincimenti.
Si tratta cioè di affidarsi, anche in questi ambiti, al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici pure quando non possiamo condividerli. Così già, fortunatamente e nella sostanza, avviene di fatto, in un Paese democratico come il nostro, ma è bene che tutti ne prendiamo più piena coscienza, per stemperare il clima di un confronto che prevedibilmente si protrarrà assai a lungo, arricchendosi di sempre nuovi argomenti.
I fautori del relativismo continueranno a pensare che in certi casi siano stati violati i “diritti di libertà”, mentre i sostenitori di un approccio collegato all’essere dell’uomo continueranno a ritenere che in altri casi siano stati violati diritti fondati sulla natura, e perciò antecedenti ad ogni umana decisione, ma non vi sarà motivo di accusarsi reciprocamente di oltranzismo antidemocratico.
È appena il caso di aggiungere che, pur all’interno dell’alternativa fondamentale tra queste due concezioni dell’etica pubblica, esiste una molteplicità di posizioni sui singoli problemi concreti, che non si presta ad essere inquadrata entro schemi prefissati.
2. Allargare gli spazi della razionalità
Mi sono soffermato piuttosto a lungo sulla questione dell’etica pubblica perché essa ha certamente un suo oggettivo e grande rilievo, e anche perché non sarebbe realistico evitarla, interrogandoci oggi sul contributo dei cattolici al cammino dell’Italia. Sono però più che fondate le preoccupazioni riguardo ai limiti e ai danni che comporterebbe un appiattirci su tali problematiche.
L’etica pubblica stessa, del resto, non sta mai da sola: essa rimanda anzitutto all’etica dei comportamenti vissuti, alle scelte quotidiane – di per sé libere e al contempo molteplicemente condizionate – delle persone, delle famiglie, dei vari gruppi sociali. Ma anche l’ambito dell’etica preso nella sua interezza non è isolabile e non si regge in alcun modo da solo: rimanda piuttosto sia alle concezioni di fondo sull’uomo e sulla realtà che improntano una cultura sia, e ancora più profondamente, al mistero dell’esistenza personale, a quella dimensione nella quale l’uomo ha a che fare con il Mistero originario. Sarebbe davvero grave se proprio i credenti in Cristo dessero anche solo l’impressione di mettere tra parentesi questa dimensione.
Un compito al quale Benedetto XVI spesso ci richiama, da ultimo nel discorso all’Università Cattolica del Sacro Cuore, è quello di allargare gli spazi della razionalità. Quella forma di razionalità che possiamo denominare scientifica e funzionale, per la quale è razionalmente valido soltanto ciò che, direttamente o indirettamente, è sperimentabile e calcolabile, ha certo una sua legittimità e necessità nell’ambito scientifico-tecnologico e costituisce un grande e fondamentale fattore di sviluppo, ormai a livello planetario.
Se dimentica però il proprio carattere di scelta metodologica e pretende di costituire l’unica forma di conoscenza davvero razionale della realtà contraddice quel canone e quel limite che essa stessa si è giustamente imposta e rende in concreto razionalmente non decidibili, anzi non proponibili, le questioni del bene e del male morale, e più fondamentalmente del senso e del destino dell’uomo e dell’universo, in ultima istanza la questione di Dio.
In particolare a proposito dell’uomo una simile restrizione della razionalità comporta inevitabilmente che il soggetto umano sia razionalmente conoscibile solo in quanto venga per così dire “misurato”, attraverso qualche forma di indagine sperimentale, e che in tal modo si perda di vista proprio il soggetto in ciò che gli è specifico, cercando invece di ricondurre l’uomo all’interno della serie degli oggetti naturali.
Particolarmente indicative, in questo contesto, sono le direzioni delle ricerche sui rapporti mente-cervello, sulle questioni della coscienza e dell’autocoscienza, come anche sul linguaggio umano, a confronto con quello attribuito ad altri animali. È evidente d’altronde l’intima coerenza che unisce tra loro la posizione del relativismo etico, la restrizione della razionalità all’ambito di ciò che è sperimentabile e calcolabile e – a livello contenutistico – la riduzione dell’uomo ad uno degli oggetti della natura.
Insieme a questa intima coerenza non è difficile però percepire un curioso paradosso, e finalmente un’autentica contraddizione interna: infatti ridurre l’uomo a un prodotto de La natura implica inevitabilmente la negazione della sua reale libertà e della sua stessa autentica razionalità, e quindi anche la messa in discussione dei suoi “diritti di libertà”.
Prendere atto degli elementi di criticità più profondi, e alla fine più influenti, del contesto socio-culturale nel quale ci muoviamo non deve indurci però ad essere ciechi o indifferenti verso altri aspetti, di segno ben diverso, che sono a loro volta presenti e che anzi sembrano essere quelli più nuovi e meglio capaci di futuro.
Ci stimola a prestar loro fiduciosa attenzione anzitutto Papa Benedetto XVI, ad esempio nel discorso del 19 novembre alla Conferenza sul genoma umano promossa dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, dove ha messo in rilievo che il secolarismo radicale non soddisfa più gli spiriti maggiormente consapevoli ed attenti” e che “nelle popolazioni di lunga tradizione cristiana rimangono presenti semi di umanesimo non raggiunti dalle dispute della filosofia nichilista, semi che tendono … a rafforzarsi quanto più gravi diventano le sfide”.
In concreto, quella convergenza tra cattolici, laici e credenti di altre confessioni che in Italia è diventata parti-colarmente visibile in occasione del referendum sulla procreazione assistita, e che ha rappresentato una conferma fattuale delle parole aggiunte a braccio da Benedetto XVI al suo discorso del 30 maggio all’Assemblea della GEI,”non lavoriamo per l’interesse cattolico ma sempre per l’uomo creatura di Dio”, non è certo limitata al nostro Paese e si verifica anche su terreni diversi da quello dell’etica pubblica.
Particolarmente significativo e incoraggiante è il fatto che le grandi domande sull’uomo, sulla vita, sulla totalità dell’universo interessano e coinvolgono con forza crescente proprio coloro che più sono impegnati nella ricerca scientifica, perché l’avanzare delle scienze stimola a porre problemi che debordano dai canoni metodologici delle scienze stesse.
Al riguardo una questione sulla quale vorrei fermarmi brevemente è quella dell’evoluzione, non solo perché intorno ad essa si è sviluppato oggi un nuovo dibattito scientifico-teologico, ma soprattutto per la rilevanza che essa ha nella cultura del nostro tempo, e anche per le precisazioni epistemolo-giche che essa richiede e consente.
Già Pio XII nell’Enciclica Humani generis aveva ammesso, a determinate condizioni, libertà di discussione sulla “ipotesi” evoluzionistica, mentre Giovanni Paolo II, nel messaggio del 24 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle Scienze, affermava che ‘nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi” bensì appunto una teoria – o più esattamente delle teorie, diverse anche per le filosofie a cui fanno riferimento – che si è “progressivamente imposta all’attenzione dei ricercatori, a seguito di una serie di scoperte fatte nelle diverse discipline del sapere”: resta comunque fermo che lo spirito dell’uomo non può essere ricondotto alla materia.
Non è certo il caso di fare dei passi indietro rispetto a queste precisazioni di Giovanni Paolo II. Bisogna però essere lucidamente attenti a quella filosofia, o visione del mondo, a cui spesso la teoria dell’evoluzione viene collegata e della quale diventa veicolo di diffusione, fino a proporsi come la spiegazione scientifica – almeno potenziale – di tutto il creato o, secondo le parole del Cardinale Ratzinger nel libro Fede Verità Tolleranza (ed. Cantagalli, pp. 187-192), come “una specie di “filosofia prima” che rappresenta per così dire l’autentico fondamento della comprensione razionale del mondo”, al di là della quale “le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non siano più lecite o necessarie”, con la chiara conseguenza che non rimane alcuno spazio per un’Intelligenza creatrice.
A una simile proiezione filosofica e ateistica dell’evoluzionismo è senz’altro giusto opporre anzitutto che essa deborda, costitutivamente, dall’ambito e dai canoni della ricerca scientifica. È possibile però fare anche un passo ulteriore e oggi si tenta di compierlo, seguendo due vie che occorre tenere accuratamente distinte.
Una di esse cerca di individuare nei viventi alcune strutture complesse non suscettibili di essere spiegate con i meccanismi dell’evoluzione, che richiederebbero quindi un disegno intelligente. Non sono ovviamente in grado di pronunciarmi sulla fondatezza scientifica di tali posizioni; a livello metodologico esse, nella misura in cui intendano concludere direttamente a un’Intelligenza creatrice, sembrano incorrere nella medesima obiezione di sconfinamento dai canoni dalla ricerca scientifica che si deve opporre all’interpretazione ateistica dell’evoluzionismo; il loro eventuale merito può essere piuttosto di contribuire al progresso della scienza, facendo emergere interrogativi cui le teorie attualmente diffuse non siano in grado di dare risposta.
L’altra via non si riferisce a singole questioni scientifiche ma si colloca fin dall’inizio a livello filosofico, interrogandosi sulle condizioni di possibilità dell’intero sviluppo della razionalità scientifica e individuandole, dal punto di vista dell’oggetto conosciuto, nell’intelligibilità dell’universo, a sua volta ultimamente non spiegabile se non riconducendo a un’Intelligenza creatrice l’universo stesso (mi permetto di rinviare in proposito anche a un mio vecchio libretto, Le ragioni della fede, ed. Paoline, pp. 57-76).
3. Vivere senza prescindere da Dio
Benedetto XVI nell’udienza generale di mercoledì 9 novembre, attraverso un commento di grandissimo respiro al Salmo 135 (136), ha mostrato tutta la portata che hanno per la fede cristiana queste problematiche: riferendosi alle parole sorprendentemente attuali di un Padre della Chiesa del IV secolo, San Basilio il Grande, il Papa ha affermato che oggi sono più numerosi di allora quanti “tratti in inganno dall’ateismo, ritengono e cercano di dimostrare che tutto sia privo di guida e di ordine, come in balia del caso”, ed ha aggiunto: “il Signore con la Sacra Scrittura risveglia la ragione che dorme e ci dice: all’inizio è la Parola crea-trice … questa Parola – che ha creato questo progetto intelligente che è il cosmo – è anche amore.
Lasciamoci, quindi, risvegliare da questa Parola di Dio; preghiamo che essa rischiari anche la nostra mente, perché possiamo percepire il messaggio del creato – i-scritto anche nel nostro cuore -, che il principio di tutto è la Sapienza creatrice, e questa Sapienza è amore, è bontà: “La sua misericordia rimane in eterno”.
Queste parole di Papa Benedetto e-sprimono sinteticamente quanto egli ha elaborato attraverso decenni di riflessione teologica, nella quale l’opposizione al relativismo e al materialismo non prende mai la forma di un assolutismo della ragione, di un chiuso razionalismo.
Fa corrispondere invece all’unità in Dio creatore di sapienza e amore libero e gratuito l’intimo nesso di ragione, amore, rivelazione e grazia, nel nostro aprirci al mistero di Dio. In concreto, proprio riguardo all’alternativa fondamentale tra Intelligenza creatrice e interpretazione materialistica dell’evoluzionismo, l’allora Cardinale Ratzinger riconosce che “il pensiero filosofico stesso qui giunge al suo limite” (Fede Verità Tolleranza, p. 191): a livello filosofico pertanto “il Logos … all’origine di ogni cosa rimane, più che mai, l’ipotesi migliore, benché sia un’ipotesi … che esiga da parte nostra di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile” (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, p. 123).
Più in generale, nemmeno ai nostri giorni l’evidenza di Dio è stata eliminata, “ma va riconosciuto che essa, più che mai, è resa irriconoscibile dalla violenza che il potere e il profitto e-sercitano su di noi”. Permane e si accentua cioè quella tensione tra l’apertura interiore dell’anima umana a Dio e l’attrazione più forte dei bisogni e delle esperienze immediate che attraversa la storia intera.
Da solo pertanto l’uomo, pur non essendo capace di sbarazzarsi completamente di Dio, non ha nemmeno la forza di mettersi concretamente in cammino verso di Lui, “non è in grado di chiarire completamente la strana penombra che grava sulla questione delle realtà eterne”: Dio stesso deve prendere dunque l’iniziativa di rivolgersi all’uomo e di venirgli incontro, perché possa sorgere in noi una vera relazione con Lui (cfr ibidem, pp. Ì2Ì-124). È profonda la consonanza tra questi pensieri e ciò che scrive l’Apostolo Paolo nella lettera ai Romani, cap. I, 16-32 e anche cap. 7.
Proprio in questo contesto il cardinale Ratzinger, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile di quest’anno, avanza, nella sua “qualità di credente”, “una proposta ai laici”: quella di sostituire all’ormai storicamente consunto “etsi Deus non daretur” l’assioma inverso: “anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno” (.ibidem, pp. 60-63).
Su simili basi trovano il loro pieno significato e la loro autentica motivazione (e espressioni a favore di una “sana” e “positiva” laicità dello Stato formulate da Benedetto XVI in occasione della sua visita al Presidente della Repubblica, e poi più ampiamente nel messaggio al Presidente del Senato per il convegno su libertà e laicità svoltosi in ottobre a Norcia: in virtù di una tale laicità “le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie, alle quali appartengono anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essere stesso dell’uomo. Tra queste istanze, primaria rilevanza ha sicuramente quel “senso religioso” in cui di esprime l’apertura dell’essere umano alla Trascendenza “.
Nel momento stesso in cui si propone ai laici di vivere “come se Dio ci fosse” emerge nella sua radicale serietà la vocazione e missione dei credenti di inverare la loro fede nella loro concreta e quotidiana esistenza. Interpella dunque ciascuno di noi la testimonianza del nuovo Beato Charles de Foucauld: “Come credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo far altro che vivere per Lui solo”.
Non dobbiamo mai dimenticare, anzitutto, che la nostra fede in Dio e il nostro vivere per Lui hanno origine dalla rivelazione di Dio, dal libero dono che Dio là di se stesso a noi. ia parola “rivelazione”, che purtroppo nella cultura attuale ha perso per lo più il suo genuino significato biblico e teologico, sta ad indicare, prima ancora che la Scrittura come parola di Dio nella quale la rivelazione si è espressa, l’atto stesso con cui Dio si mostra e si comunica a noi.
Del concetto di rivelazione fa sempre parte pertanto il soggetto che la riceve: dove infatti nessuno percepisce la rivelazione, nulla viene svelato, nessuna rivelazione è realmente avvenuta. Perciò la comunità credente, in concreto il popolo di Israele nell’Antico Testamento e la Chiesa, il nuovo popolo di Dio, nel Nuovo Testamento, è costitutivamente implicata e coinvolta nella rivelazione stessa, con la sua risposta di fede e di vita secondo la fede.
A Colonia, nella Giornata Mondiale della Gioventù, Benedetto XVI ha spiegato ai giovani come, per accogliere il Dio che si rivela a noi in Gesù Cristo crocifisso e risorto, sia necessario lasciarsi sorprendere da Lui, cambiare le nostre idee umane su Dio e sull’uomo, comprendere che il potere e il modo di agire di Dio sono diversi da quelli degli uomini, e in specie dei potenti del mondo.
Tutto ciò ha la sua realizzazione più alta e la sua sorgente dinamica nel mistero dell’Eucaristia: con le parole pronunciate sul pane e sul vino nel cenacolo Gesù anticipa la propria morte, “l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore”.
È questa la trasformazione sostanziale, la sola in grado di suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo, fino a che Dio sia tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28). Questa stessa trasformazione fondamentale, che avviene quando il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, esige e produce anzitutto la trasformazione nostra.
Quel corpo e quel sangue sono infatti dati a noi affinchè noi veniamo trasformati a nostra volta: veniamo cioè uniti a Cristo e al Padre e diventiamo così realmente capaci di sottometterci a Dio, di fare di Lui la misura del nostro vivere, con un atto che non ci estranea da noi stessi, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere; in concreto, ci rende capaci di amore, di dedizione e di perdono, in compagnia e a imitazione di Gesù Cristo.
Queste parole di Benedetto XVI a Colonia non possono essere ridotte ad una, per quanto ottimamente articolata, esortazione spirituale. Al contrario, soltanto prendendole davvero sul serio nella realtà del nostro agire personale e comunitario – pur appesantito da tante spinte che ben conosciamo e che vanno in senso contrario -è possibile non lasciarci dettare dalle logiche di questo mondo la nostra agenda quotidiana, privata e pubblica, i modi di pensare, i comportamenti e le scelte.
In concreto, come abbiamo bisogno di una razionalità più larga, rispetto a quella soltanto scientifica e funzionale, così, e forse maggiormente, abbiamo bisogno di un ethos più autenticamente umano rispetto a quello che può offrirci una teoria evoluzionistica elevata a interpretazione ultima della realtà. Un tale ethos evoluzionistico non può non avere infatti la sua struttura portante nel modello della selezione, e quindi nella lotta per la sopravvivenza, nell’adattamento riuscito e nella vittoria del più forte.
Vi può essere in tutto ciò un’apparenza di grande realismo, ma ben poco di moralmente persuasivo e appagante; ben poco di utile a ciò di cui l’umanità ha oggi maggiormente bisogno: un’etica della pace, dell’andare oltre il proprio interesse particolare – di persone, di nazioni o di categorie -, finalmente un’etica dell’amore concreto del prossimo.
Nella prospettiva cristiana, al contrario, il primato del Logos, e quindi di una razionalità più larga, si identifica con il primato dell’Amore da cui tutto ha origine, e quindi di un ethos che ha il suo centro nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. Nei primi secoli della sua storia il cristianesimo ha convinto e si è diffuso “grazie al legame della fede con la ragione e grazie all’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizione sociale” (j. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, p. 183).
Pur nella profonda diversità delle situazioni storiche, questo è anche oggi, nella sostanza, il grande compito che sta davanti a noi: un compito nel quale i cristiani laici (qui finalmente uso la parola “laici” nel suo significato ecclesiale e teologico) hanno un ruolo essenziale e determinante.
Per i cristiani tutti, ma certamente in modo specifico per i laici, vale l’appello con cui l’allora Cardinale Ratzinger concludeva la sua relazione del 1 aprile a Subiaco: “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa dei cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini” (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, pp. 63-64).
Queste parole ci indicano la via per dare corpo all’obiettivo del Convegno di Verona dell’ottobre prossimo: rendere visibile Gesù Cristo come speranza del mondo. Vorrei terminare rifacendomi ad un intervento di Ernesto Galli della Loggia, apparso sul Corriere della Sera del 31 ottobre scorso, che coglieva nella religione e nella scienza le due prospettive valoriali maggiormente in grado di plasmare il futuro, in un periodo nel quale l’individuo e la sua soggettività hanno ricuperato il centro della scena.
Mi sembra che una simile valutazione sia in buona misura condivisibile, ma penso, e soprattutto mi auguro, che queste due prospettive, pur nella loro indubbia diversità, non siano destinate a contrapporsi sistematicamente e possano trovare invece una reale e non forzata complementarietà, tenendo insieme il valore perenne della persona creata a immagine di Dio, affermato dal cristianesimo, e quelle in certo senso illimitate potenzialità di progresso che la scienza assicura proprio in virtù dell’apertura illimitata al vero e al bene iscritta nell’intimo del nostro essere.