ROMA – “Alla domanda capziosa “che cosa eravamo quando non eravamo ancora quello che siamo?” si dà la sola risposta che si merita: non eravamo qualcosa d’altro, semplicemente non c’eravamo ancora”. E’ la risposta a cui è giunto il filosofo tedesco Robert Spaemann, professore emerito presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, in una raccolta di suoi saggi pubblicati dalle Edizioni dell’Università Pontificia della Santa Croce (EDUSC) intitolata “Natura e Ragione”.
Il testo mira a tornare a porre la domanda sull’uomo contro ogni altra pretesa del riduzionismo scientista, ed esce in un momento di grande frizione nella cristianità circa l’eredità di Charles Darwin, spiega un comunicato delle suddette Edizioni.
Insieme a quella di Christof Schönborn, Cardinale di Vienna, l’analisi filosofica di Spaemann è tra le più profonde all’interno della cultura cattolica.“Chiedersi che cos’è l’uomo è diventato difficile in un’epoca come la nostra, caratterizzata da una visione scientista del mondo – si legge sulla quarta di copertina –.
La scienza moderna si è, infatti, proposta di considerare ogni realtà naturale semplicemente come oggetto per poter così sottomettere ogni cosa al potere dell’uomo. Ma dopo aver tolto alla natura ogni somiglianza con l’umano, lo scientismo pretende di dire all’uomo che anche lui non è altro che una parte di quella stessa natura”.
Rifiutare il riduzionismo scientifico, per Spaemann, non significa accontentarsi di un’antropologia filosofica che ne ignori semplicemente la sfida. “La chiave di un’antropologia adeguata sta per il filosofo tedesco in un’idea di natura che ne colga il carattere teleologico e in un’idea di ragione che non dimentichi il rapporto che c’è tra questa e la natura”, si legge nel comunicato.
Sono queste le idee sviluppate nei quattro saggi che costituiscono “Natura e Ragione”.
Dopo aver riflettuto nel primo saggio sul modo in cui la nozione di natura umana può sfuggire al sempre risorgente dualismo di “natura” e “spirito”, nel secondo saggio l’autore rivolge la sua attenzione alla teoria dell’evoluzione. Confrontarsi con questo tema sembra infatti necessario per un’antropologia che accetta il dialogo con la scienza.
Spaemann si chiede cosa la teoria dell’evoluzione sia in grado di spiegare e in che senso l’evoluzionismo sia compatibile con l’immagine che noi abbiamo di noi stessi.
“Soltanto alla luce di una concezione adeguata della natura umana diventa comprensibile dunque la nozione di dignità dell’uomo di cui tratta il terzo saggio. L’ultimo saggio affronta il rapporto di natura e ragione, mostrando come la nozione di natura sia ambigua: ciò che è ‘conforme alla natura’ non è ciò che è ‘allo stato naturale’. Ciò che caratterizza l’uomo come essere ragionevole è però proprio la capacità di riconoscere l’altro nella sua realtà aprendosi a lui nell’amore”.
La nuova sfida rappresentata dall’evoluzione si presenta dunque in una duplice veste: “arrivare per la prima volta a ricostruire nel quadro di una scienza ateleologica proprio la genesi di quella soggettività di cui parlava Kant e in secondo luogo la pretesa di interpretare in modo realistico quella ricostruzione”.
Dietro gli sforzi per la diffusione dell’evoluzionismo, secondo Spaemann c’è una motivazione di carattere ideologico. “Per l’evoluzionismo non vi è cessazione dell’essere di qualcosa, ma soltanto cambiamento. Allora è chiaro che noi siamo scimmie trasformate e naturalmente questo crea delle difficoltà all’immagine che noi abbiamo di noi stessi. D’altra parte le scimmie sono i precursori delle scimmie che si sono trasformati e così via: non arriviamo mai all’ente. Quello che esiste è soltanto il processo del divenire”.
Ciò che caratterizza allora l’evoluzionismo è “l’esclusione di ogni somiglianza tra la res extensa e la res cogitans, il divieto dell’antropomorfismo in favore di un radicale antropocentrismo”.
”Se noi vogliamo continuare a concepirci come soggetti e vogliamo continuare ad associare un qualche senso alla nozione di dignità umana, allora il compito di un’ontologia adeguata dovrà essere formulato, parafrasando una nota espressione di Hegel, nei seguenti termini: ‘Quello che importa è concepire i soggetti come sostanze’. Affermare che l’uomo trascende l’uomo è quacosa di più di una bella frase”.