Editoriale, dopo il voto politico del 9 e 10 aprile 2006
L ‘asperrima campagna elettorale ha visto la discesa in campo del Corriere che, rinunciando al paravento dell’equidistanza dietro cui istituzionalmente si rifugiava, si è schieralo per il sinistra-centro rafforzando lo schieramento di Repubblica, della Stampa, del Sole24Ore e della cosiddetta «grande stampa»; le televisioni, comprese quelle di Mediaset. ingessate dall ‘assurda e strumentalizzata «par condicio», non hanno svolto il ruolo di informazione che era lecito aspettarsi. Ebbene, il trionfo annunciato – anche a colpi di sondaggi — dello schieramento capeggiato da Romano Prodi non c’è stato.
Il verdetto delle urne ha espresso, proporzionalmente, un sostanziale pareggio, anche se la legge elettorale ha assegnato al sinistra-centro, per un pugno di voti (24.755, ha sentenziato la Corte di Cassazione), il premio di maggioranza. Calderoli e Tremonti hanno annunciato ulteriori ricorsi, ma ben difficilmente il verdetto della Cassazione verrà ribaltato.
In ogni caso, la situazione in Senato resta critica, avendo il sinistra-centro una maggioranza di soli due seggi – talché nessuno dei due schieramenti avrà la maggioranza in tutte le commissioni senatoriali (attualmente sono 14), col rischio di paralisi dei lavori. Situazione di stallo, dunque, che più stallo non si può.
Queste elezioni avrebbero dovuta, stando ai giornali, spazzar via l’«anomalia» Berlusconi, questo ricchissimo manager che. sempre stando ai giornali, è entrato in politica per difendere i suoi interessi e i suoi privilegi; e a volerlo spazzar via non era soltanto il sinistra-centro (com’era suo logico diritto), ma anche all’interno della Casa delle libertà i malumori e i permali erano espliciti, con l’Udc che candidava Casini alla presidenza del Consiglio, e Fini che si proponeva premier qualora avesse ricevuto un voto in più di Berlusconi: il risultato elettorale è questo: 24 per cento a Forza Italia: 12 per cento ad Alleanza nazionale; 7 per cento ali ‘Udc, che quasi raddoppia i propri voti, ma pesa pur sempre tre volte e mezza meno di Forza Italia. Berlusconi non è stato spazzato via: al Governo o all’opposizione, bisognerà continuare a fare i conti con lui, costretto a fare la campagna elettorale in prima persona, proprio per i malumori e i permali all’interno della Casa delle libertà che certamente hanno influito sul risultato finale.
Dalle urne, inoltre, si è appreso che il centrodestra vince soprattutto nelle regioni più sviluppate e produttive, e questo dovrebbe far pensare. Se un italiano su quattro vota per Berlusconi, bisognerà capire il perché di questa «anomalia», smettendo invece di deriderla e di demonizzarla.
E, forse, un contributo alla comprensione andrà ricercato in direzione della rappresentanza del ceto medio: quel ceto medio legato ai valori di libertà e di moralità, che non si riconosce né nel massimalismo tardomarxista di Bertinotti e soci, né nel partito radicale di massa (se può dirsi massa il 17 per cento dei votanti) in cui il partito comunista, diventalo Ds, si è trasformato. Quel ceto medio inviso ai «poteri forti» (banche, grandi giornali, grandi famiglie che controllano grandi imprese), che non vogliono rinunciare, appunto, al «potere forte» che nella storia italiana non hanno mai smesso di esercitare.
Sia chiaro che qui non si sta perorando o rimpiangendo un «Berlusconi for president»: si sta dicendo che bisogna capire perché il 24 per cento degli elettori ha votato per lui. Berlusconi o Prodi al governo o all’opposizione poco importano: il problema è la rappresentanza del ceto medio.
Questo avrebbero dovuto spiegarci i giornali e le televisioni, se fossero al servizio dell’opinione pubblica anziché arroccati in privilegi corporativi e in lotte di potere: invece abbiamo avuto dichiarazioni di voto, scelte di schieramento, chiacchiere, insulti e previsioni regolarmente smentite dai fatti.
Sarà servita la lezione? Ne dubitiamo, anche se l’ottimismo sulla perfettibilità della natura umana è d’obbligo. In ogni caso, si dovrebbe metabolizzare che la reciproca delegittimazione dell’avversario non paga: siamo di fronte a due concezioni della società antitetiche, che dovrebbero sapersi confrontare con lealtà e nel rispetto delle regole democratiche.
Le velleità di «lavorare insieme per ricostruire l’unità del Paese» risultano patetiche: come dice un proverbio africano, «l’aquila, quando le va male, chiama il grifo suo fratello».