I mass media europei danno un’immagine dell’America latina condizionata da secoli di pregiudizi sul colonialismo e sul populismo. Ma il continente racchiude in sé le risorse per lo sviluppo, il vero miracolo sarebbe l’Unione sudamericana
Sarebbe sufficiente ricordare la radicata persistenza e incidenza che alcune di queste “percezioni” dell’America Latina hanno avuto in diverse fasi della storia, della cultura e della politica europea. Percezioni che si trascinano tuttora in molti approcci europei verso l’America Latina: dal Nuovo Mondo come terra dell’utopia alla “leggenda nera” ispano-americana.
Lo stupore provocato dalla “scoperta” americana, la novità sorprendente che fece irruzione in ambito europeo e alcuni forti slanci tra fantasie, ideali ed esperienze di fondazione avvenute durante i primi tempi di esplorazione, di colonizzazione e di missione suscitarono e propagarono in Europa, all’alba della modernità, le utopie del “Nuovo Mondo”.
Non furono soltanto sogni e miti fantastici di sapore medievale, ma segni di una nuova era, immagini favolose e cariche di novità che, dai diari di navigazione di Cristoforo Colombo alle lettere di Amerigo Vespucci, nonché agli scritti di molti altri “cronisti delle Indie”, si diffusero nelle diverse regioni europee, diventando autentici best-seller e alimentando la percezione dell’America come terra dell’utopia.
Basta ricordare come Pedro Martir, sotto l’influsso dell’immaginazione poetica di Colombo, descriveva il Paese ideale: l’Asia dei viaggi di Marco Polo, le miniere di Ofir di Salomone e una razza di indios di paradisiaca innocenza non ancora pervertita dal peccato della civiltà.
Non è difficile trovare tra coloro che rimangono turbati da quel gigantesco e drammatico incontro-scontro di etnie, popoli e culture, gli slanci profetici in cui covavano le immagini di un “Mundus Novus“, luogo provvidenziale di rigenerazione individuale e collettiva, sogno di purezza, di integrità e di rinascita, di evangelismo radicale, di “nuova cristianità delle Indie” e persino di nuova civiltà, di fronte a un Vecchio Continente dilaniato dalle lotte politiche e religiose.
Non a caso in quel tempo rifiorisce la letteratura utopica europea, con l’Utopia di Tommaso Moro e la Civitas Solis di Tommaso Campanella. Tendenze profetiche, apocalittiche e persino millenaristiche sono state riscontrate soprattutto nei primi nuclei di osservanza francescana nella Nuova Spagna, dove risuonano gli echi sia di una riedizione della “primitiva comunità” degli Atti degli Apostoli sia dell’avvicinarsi alla “Gerusalemme celeste” delle visioni apocalittiche.
Le reducciones guaranies saranno una grandiosa costruzione storica in cui la Compagnia di Gesù intravedrà il contraccolpo di una “nuova civiltà”, diversa dalla società coloniale fondata sull’oppressione degli indios e dell’idolatria del denaro dell’emergente capitalismo mercantile.
Secoli più tardi, la frustrazione delle rivoluzioni in Europa porterà diversi settori politici e intellettuali europei a proiettare nell’America Latina ciò che si scorgeva non essere realizzabile in casa propria. Nuovamente si percepisce l’America Latina come luogo della realizzazione dell’utopia, in particolare – in quel momento storico – dell’utopia dei messianismi secolarizzati, dell’utopia della “Rivoluzione” (con la maiuscola!) e della “genesi dell’uomo nuovo”, di rigenerazione della tradizione socialista e comunista, ora perseguita nell’idealizzazione della rivoluzione cubana, dei movimenti di guerriglia (e soprattutto del Che Guevara come “eroe” e “martire” rivoluzionario) e poi aggrappata agli stimoli della rivoluzione “sandinista” e del movimento “zapatista”.
Dagli anni Sessanta sino agli Ottanta del XX secolo, fu questa la percezione dominante a livello europeo, sotto l’egemonia culturale della sinistra e alimentata dalla presenza di molti “ex” della generazione sessantottina nel mondo del giornalismo.
Finiamola con la “leggenda nera”
L’altra percezione dell’America Latina che ha avuto forte, radicato e persistente influsso nell’informazione europea è stata quella che fu nata “leggenda nera”, cioè la lettura delle origini, della configurazione dei nuovi popoli e della loro storia come un continuum di oscurantismo, oppressione, violenze e crudeltà.
Si da il nome di “leggenda nera” al prodotto ideologico propagato prima da numerose pubblicazioni di vasta circolazione europea nei secoli XVII e XVIII, diventata luogo comune dell’informazione. Infatti, la “leggenda nera” è stata lo strumento ideologico delle potenze emergenti -Inghilterra, Francia e Olanda – contro l’impero spagnolo già in crisi e in decadenza, nella loro fase di conquista dell’egemonia mondiale, e pertanto anche americana. A loro si aggiungeranno copiose denigrazioni da parte di una serie di scrittori europei come Voltaire, Raynal e lo stesso Hegel, che consideravano i popoli ispanoamericani non adatti alla “vita dello spirito”.
La colonizzazione iberica è stata «aizzata, presentata come un frutto tanto malvagio da essere totalmente delegittimato. Questa “leggenda nera” lasciò in eredità una chiave di lettura sull’arretratezza latinoamericana fondata, secondo la leggenda, su tre fattori configuranti quell’ambito di civiltà: il fatto di essere stata una colonia ispanica, di avere un sostrato culturale cattolico e di presentare una popolazione segnata dal “meticciato”.
Dal “buon selvaggio” del primo indigenismo si passò al disprezzo del rimescolamento delle razze, dopo decenni di assalto alle terre delle comunità indigene e di guerre di sterminio e di spostamento dei sopravvissuti nelle terre gelide del Sud o tra le aride alte montagne o nella selva tropicale. Allo stesso tempo, il superamento dell’arretratezza implicava l’abbandono della tradizione cattolica, profondamente radicata nella cultura dei i latinoamericani.
Dalle prime riflessioni sul “destino manifesto la “grande frontiera”, questa percezione è sempre presente nell’espansione nordamericana verso il Sud, nella convinzione che la “protestantizzazione” sarebbe condizione preferibile, rispetto al cattolicesimi, per l’educazione, la democrazia e la prosperità, ciò che farebbe assimilare più facilmente il Sudamerica al progresso nordamericano.
A livello intellettuale si aggiunga il riferimento a Max Weber e ai rapporti tra l’etica puritana e il capitalismo, per identificare cattolicesimo con arretratezza, disordine e confusione. Infine, basta leggere attentamente l’ipotesi avanzata da Samuel Huntington sull’America Latina nei suoi recenti libri. A livello più diffuso, inoltre, si può osservare che, ancor oggi, quando nei Paesi europei si vogliono definire situazioni di disordine e confusione, spesso la stampa scrive: «Stiamo imboccando una strada latinoamericana!».
Con l’Europa è finito il legame privilegiato?
Molti fattori porterebbero a ripensare profondamente la percezione europea dell’America Latina nella nostra attualità. Come non essere consapevoli dei legami storici, culturali e spirituali che creano tra l’Europa e l’America Latina una profonda affinità e vicinanza? Come non tenere presenti quei milioni di europei che trovarono in terre latinoamericane la nuova dimora, la patria di adozione, alimentando un flusso vivo di legami di sangue, di parentela e di scambi culturali tra le due sponde dell’Atlantico?
Come non considerare l’importanza attuale e potenziale che ha l’America Latina per l’Europa nel flusso di capitali, di investimenti e di scambi commerciali? Come non tener conto del “peso” che questi rapporti potrebbero avere per il raggiungimento del bene di entrambi gli interlocutori e della configurazione di una più equilibrata governabilità mondiale multipolare?
A causa di una grande e diffusa ignoranza sulla geografia, sulla storia, sulla cultura e sulle vicissitudini politiche dell’America Latina, e a causa di una carente e difettosa istruzione scolastica, la percezione comune sulla realtà odierna dell’America Latina appare disarticolata, appena accennata attraverso un’episodica successione di immagini e di informazioni che interessano il pubblico europeo sempre meno e che non offrono né suscitano criteri più seri di lettura della realtà.
Si potrebbe affermare che oggi non c’è una percezione prevalente a livello europeo sull’America Latina, ma soltanto stimoli dispersi, rapsodie varie che non riescono a comporre una minima sinfonia. A cosa si deve questo stato di cose? Uno dei fattori causali da considerare è un certo ripiegamento dell’Europa su se stessa.
Il complicato ed esigente processo di costruzione e di coesione dell’Unione Europea, il nuovo disegno dell’architettura della Comunità avvenuto con l’instaurazione del Mercato Unico Europeo, i sacrifici e le ristrutturazioni richieste per l’adozione del Trattato di Maastricht e, successivamente per la moneta unica europea, e ancora, dopo i cambiamenti epocali del 1989-1992, il processo di allargamento dell’Unione Europea verso Est, hanno richiesto un investimento notevole di energie di tendenza centripeta, spostando l’attenzione all’interno delle grandi frontiere.
Tutto ciò, assieme alla tempesta dei Balcani, alle frontiere calde del Mediterraneo con il Medio Oriente e il Maghreb, alle forti pressioni migratorie che si accumulano ai suoi confini, alla minaccia e alla lotta contro il terrorismo, ci lascia pensare che l’America Latina non è più considerata fra le priorità strategiche dell’Unione Europea.
Si deve anche tener presente che l’Europa vive una fase di stagnazione produttiva, di scarsissima crescita economica, di difficoltà crescenti nel sostenere e riformare il suo welfare state, fattori che non favoriscono un’esposizione economica (in quanto crescita di cooperazione, di scambi e di flussi di investimenti) verso i suoi interlocutori latinoamericani.
Tutto ciò è stato rafforzato dalla recente ristrutturazione del debito dell’Argentina, che ha diffuso l’immagine di un’America Latina non credibile né affidabile come interlocutore e partner. Dal 1998 al 2003 gli investimenti europei in America Latina sono crollati (sebbene si avvertano negli ultimi due anni tendenze di crescita), dopo aver usufruito a piene mani delle politiche indiscriminate delle “privatizzazioni” nella fase del liberalismo euforico e delle applicazioni delle ricette del “Washington Consensus”.
D’altra parte, la stagnazione economica, la “minaccia” dell’export mondiale di massa della Cina e una diffusa sensazione di inquietudine, di timore e di disagio da parte delle popolazioni europee, che vedono nel futuro una minaccia al livello di vita acquisito, tendono a rafforzare le tendenze protezionistiche. È da più di dieci anni che si sta negoziando l’applicazione dell’accordo-quadro firmato dall’Unione Europea e dal Mercosur senza concludere niente. Anzi, le negoziazioni sono sospese da più di un anno e ci sono soltanto tenui spiragli di ripresa.
L’ostacolo maggiore, tra gli altri, è costituito dall’abnorme, costosissimo, iniquo protezionismo agricolo europeo. Anche l’Alca è congelato, ma gli Stati Uniti, attraverso una fitta rete di accordi bilaterali e subregionali di libero commercio con i Paesi latinoamericani, rischiano di lasciare l’Europa sempre più al margine della vita e del mercato latinoamericani. E certo che dal 1990 al 1997 il commercio e gli investimenti europei in America Latina hanno conosciuto un incremento massiccio, ma si ricordi che tra il 1965 e il 1970 il 56% delle esportazioni dell’America Latina si dirigeva verso l’Europa occidentale, da dove proveniva il 57% delle sue importazioni, mentre gli Stati Uniti ricevevano il 19% delle esportazioni latinoamericane ed erano l’origine del 39% delle sue importazioni.
Questo panorama è cambiato di molto: nel periodo che va dal 1995 al 2000, l’Unione Europea ha effettuato soltanto il 15% delle sue esportazioni e il 14% delle sue importazioni in America Latina, in confronto al 55% eal51%, rispettivamente, degli Stati Uniti.
La terra del populismo? Un pregiudizio da abbattere
Vorrei, infine, soffermarmi brevemente su quattro aspetti della realtà dell’America Latina che tra gli altri richiedono, a mio parere, un serio ripensamento a livello europeo per abbandonare alcune percezioni molto radicate che impediscono uno sguardo complessivo più profondo e adeguato. Il primo di essi riguarda la difficoltà in sede europea a capire, in tutti i fattori che lo caratterizzano, il fenomeno storico dei movimenti nazionali e popolari che hanno contrassegnato la storia latinoamericana del XX secolo, e che certamente si riproporranno in nuove condizioni con una eredità che sarà, allo stesso tempo, di rottura e di continuità.
Questa difficoltà si esprime nella faciloneria con cui si applica a essi la parola “populismo”, in forma estremamente generica. Il termine “populismo” è uno dei più utilizzati nei mezzi di comunicazione quando si parla di diverse situazioni latinoamericane. Anzi, per molti europei l’America Latina è la terra del “populismo”.
I movimenti nazionali e popolari – che trovano la prima formulazione teorica e politica con l’Apra di Raul Haya de la Torre, che si sviluppano con il “peronismo” argentino, il movimento politico di Getulio Vargas nel Brasile, e in diversa misura con la presidenza di Làzaro Càrdenas nel Messico, con Azione Democratica nel Venezuela, il Movimento di Liberazione Nazionale in Costa Rica, e altri – coprono grosso modo una trentina d’anni (dagli anni Trenta ai Sessanta del secolo appena trascorso), periodo in cui si concentra la maggiore ricchezza di pensiero creativo dell’America Latina, di slancio dell’industrializzazione e di partecipazione e protagonismo delle masse popolari. Lo stesso movimento cubano “26 de Julio” può ben essere annoverato tra questi movimenti nazionali e popolari, ed è precisamente attraverso questa caratterizzazione (e non da retrospettive interpretazioni marxiste) che riuscì a conquistare il potere nella lotta contro la dittatura di Batista.
In ambiti nordamericani ma anche sovietici, una precisa strategia politica e ideologica fece diventare il “populismo” una parola negativa, particolarmente brandita contro questi movimenti, caricaturizzandoli e denigrandoli sistematicamente. Non è un caso neppure, in secondo luogo, che la generazione latinoamericana di questi decenni, che include anche personaggi come Ugarte, Reyes, Caso, Ramos, Belaùde, Mariàtegui, Henrìquez Ureña, Picòn Salas, Lopez de Mesa, Tristàn de Athaide, Freire, Zum Felde,Gonzàlez, Eyzaguirre, gli esponenti del “revisionismo” storico argentino e altri, sia una grande sconosciuta tra gli europei.
Non è un caso neppure che la continuità più matura, sintetica e globale di quell’autocoscienza latinoamericana in relazione alla propria storia, alla propria cultura e al proprio destino, espressa nel documento finale della III Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano a Puebla (1979), abbia suscitato fuochi diversi ma concentrati di critica, già in tempi di decomposizione del “bipolarismo” mondiale.
Se mi si permette una battuta, dopo aver letto le 500 pagine del libro del mio connazionale Eduardo Calcano, dal titolo Le vene aperte dell’America Latina, e il racconto di 500 anni di sfruttamento, oppressione e violenze sofferte, sembra che sia un miracolo che questi popoli non siano già tutti morti dissanguati da molto tempo! Non si tiene conto che c’è un profondo senso di dignità, di pazienza di vita, di gioia anche nelle più difficili condizioni di vita, di passione per la giustizia e di speranza a tutta prova.
C’è una capacità di resistenza, di sacrificio, di laboriosità, di solidarietà e di speranza, che si manifesta in modalità variegate di auto-organizzazione popolare e di opere le più diverse per affrontare i propri bisogni. Se non si punta su questo, poco ci si può aspettare dalle sole politiche dello Stato e dalle leggi del mercato. In terzo luogo, voglio indicare che non è possibile avere una corretta percezione della realtà latinoamericana se si ignora o se si lascia tra parentesi il radicamento e la reale consistenza della tradizione cattolica nella vita dei suoi popoli.
È vero che essa soffre forti erosioni sotto le spinte combinate del processo di secolarizzazione e del proliferare delle “sette”.
Non si riesce però a toccare e temprare le fibre intime dei popoli latinoamericani, a coinvolgerli e mobilitarli in grandi imprese e compiti, se non attraverso la rivitalizzazione, la riformulazione e il risorgimento di quella tradizione, che è sostrato culturale, sedimento di unità e sapienza di vita.
Non è per caso che la quasi totalità delle inchieste che si sono svolte recentemente nei vari Paesi latinoamericani indicano la Chiesa cattolica come l’istituzione che gode di maggiore credibilità, fiducia e consenso da parte dei popoli. Almeno su questo ha ragione Samuel Huntington quando osserva che è crollata quella supposizione delle élites intellettuali che, nella prima metà del XX secolo, postulava che la modernizzazione economica, la differenziazione sociale e la crescita culturale conducessero all’estinzione della religione come fattore significativo dell’esistenza umana, soprattutto nella sua dimensione pubblica.
Al contrario, i nostri tempi vedono il riemergere delle dimensioni culturali e religiose a livello globale e nei diversi ambiti di civiltà. Oserei in questo senso proporre un paragone. Il caso dell’Europa odierna è evidente: invecchiata demograficamente, in situazione di stagnazione economica e di grandi difficoltà politiche, l’assenza di riconoscimento e di riformulazione della sua identità, della sua vocazione e tradizione, di un’anima propria e di un forte slancio ideale per la sua costruzione, è un altro fattore significativo che la rende in questo momento storico incapace di ripensarsi a fondo e di assumere il nuovo posto e ruolo che le circostanze le richiedono, nella drammatica ricerca di un nuovo ordine mondiale.
Possiamo individuare un caso opposto nel Messico, tanto dipendente nelle sue connessioni economiche e commerciali, nella sua moneta, nel suo turismo, nelle sue migrazioni, dalla vicina superpotenza, situazione che potrebbe portarlo alla sua completa assimilazione, ma che invece mantiene un margine più ampio di resistenza, di autonomia e di negoziazione, grazie alle profonde radici della sua identità nazionale e del suo profilo culturale, sostenute entrambe dal cattolicesimo barocco e popolare (presente anche tra gli ispanici negli Stati Uniti); è ciò che ha fatto affermare a Octavio Paz che la Vergine di Guadalupe si è dimostrata più “anti-imperialista” dei “rivoluzionari istituzionali” con i loro 70 anni di accesi discorsi nazionalistici.
L’Europa ultrasecolarizzata deve dunque abbandonare quella percezione comune di critica dispregiativa verso la religiosità popolare cattolica in America Latina, come se si trattasse di un’anomalia di massa, tra il tradizionalismo inerte e un certo folclore radicato, destinata ad essere erosa, impoverita e alla fine cancellata dal “progresso”. In questa percezione si univano coloro che postulavano la cristianizzazione come componente naturale della passaggio dalla società tradizionale alla società moderna, e coloro che continuavano a considerare ogni retaggio religioso come coscienza alienata e oppio dei popoli.
Dal Mercosur all’Unione sudamericana
Infine., è molto importante che a livello europeo sì diffonda con speciale interesse la percezione dell’importanza dell’integrazione latinoamericana. Per i Paesi latinoamericani l’integrazione è iscritta nella loro storia e nella loro cultura. Ed è una necessità ineludibile e urgente.
Non esiste altro cammino di autentico progresso, sviluppo e liberazione che non passi attraverso l’allargamento del mercato interno regionale, l’accumulazione economica, industriale e tecnologica su grande scala, l’incremento dei parametri di produttività, in modo da far crollare il triste record di essere la regione con le maggiori disuguaglianze nel mondo intero.
Non si accontenti l’Unione Europea di limitarsi alla critica di tutto ciò che non funziona nel Mercosur, sebbene le sue impasses siano gravi e manifeste. Bisogna ricostruirlo politicamente e istituzionalmente, radicarlo più profondamente come grande impresa dei popoli, promuovere una concertazione macroeconomica e sviluppare i tradings produttivi, rinegoziare pragmaticamente con pazienza e solidarietà i processi di liberalizzazione commerciale e doganali, intensificare i legami con il Cile e la Comunità Andina e portare avanti la costruzione degli anelli energetici e dei corridoi bio-oceanici, tutto ordinato verso la configurazione di un’Unione Sudamericana.
L’Unione Europea è stata modello di riferimento per i processi di integrazione latinoamericana. Non si parli né si scriva superficialmente sulle “venti Americhe Latine”, quando tra un messicano e un argentino, un cileno e un brasiliano ci sono molti più fattori di unione che tra un portoghese e un polacco, tra un inglese e un croato… senza includere ancora i turchi!
Bisogna riprendere i fili verso la configurazione di quella grande area e euro-mercosureña- latinoamericana, di concertazione politica, di liberalizzazione dei flussi commerciali ed economici e di approfondimento dei legami culturali, che sembra decisiva non solo per gli interlocutori, ma in una dimensione globale.
_____________________
Guzmàn M. Carriquiry Nato in Uruguay nel 1944, dal I972 vive e lavora nella Città del Vaticano, dove è sottosegretario del Pontificio consiglio per i laici. È autore di numerosi saggi e pubblicazioni sulla storia del Sudamerica e della sua realtà odierna L ultimo suo Iibro si intitola Una scommessa per l’America latina